Cose da non fare a un concerto di Natale

È un lunedì mattina come tanti (ho ricominciato a scrivere in differita), ho dormito uno sbotto di ore e mi sono ripresa dalla giornata maratonica di ieri. Lavoro, occhiatina a babbo, doccia e concerto di Natale della scuola di musica di Little Boss. 

Dopo un paio di anni incerti, finalmente il concerto torna in presenza e al chiuso, una quasi normalità disturbata solo dall’influenza che ha decimato gran parte dei partecipanti. Ogni anno, dalla separazione con il mio ex, vado lì da sola, mi metto su una seggiolina nell’angolo e cerco di evitare i suoi parenti e amici. Il posto dove si svolge il concerto è il suo territorio, come mi ha spesso ribadito. Non che sia più del tutto vero, intendiamoci, ma l’Amico Speciale non ce lo porto, vogliamo evitare imbarazzi per Little (il mio ex sarebbe capacissimo di fare una scenata davanti a tutti, nonostante tra poco siano dieci anni che siamo separati). 

Quindi nulla, ieri faccio come sempre: mi metto in fondo, da sola seduta nell’angolino. Dietro di me si siede una famiglia di cui riconosco solo la mamma (è stato il mio avvocato, anni fa, in una causa di lavoro, ma non mi saluta perché sul suo territorio a volte funziona così). 

Il concerto ritarda e la Tizia Maleducata dietro di me inizia a parlare. Lo farà per tutto il tempo. Si mette una gomma in bocca e biascicando parte: ma insomma, questo concerto quando inizia? Che poi dobbiamo andare a fare l’aperitivo con X, sennò facciamo tardi. Scopro poco dopo che è la sorella della mamma/avvocato. Così come scopro il suo numero di scarpe, a quanto tiene la temperatura del termosifone a casa, dove lavora e molto altro. Tutto in quindici minuti. 

Le luci si spengono e inizia la classe di pianoforte. Un bambino delizioso sui 10 anni suona e canta Jingle Bells. La Tizia Maleducata continua a parlare ad alta voce dei fatti suoi durante tutto il tempo. scroscio di applausi e lei dice: ha sbagliato qualche nota, però

È il turno delle percussioni. Sono quattro ragazzi che fanno un’esibizione straordinaria, credo sia la prima volta che la scuola organizza per loro un’esibizione in solitaria, di solito mettono i percussionisti ad accompagnare altri strumenti. Sono bravissimi, ma va da sé che non è una canzone. Lei non perde tempo e fa: eh, però questa che noia che è…

Scuola di canto. Una signora sulla cinquantina canta una canzone. Te esotoy buscando…te quiero…eccetera.

Che lingua è, questa? Chiede la Tizia Maleducata. La tristezza è l’uomo accanto a lei che risponde: portoghese. 

Comunque non era per nulla brava, aggiunge alla fine. 

Finalmente arriva una coppia di cantanti che incontrano il suo favore, cantando una canzone di Baglioni. 

Questi sì che sono bravi, era l’ora. Di una delicatezza assoluta.

È il turno di Little che canta con altre tre ragazze. Sono molto presa ad ascoltare quindi non è che faccia caso alla Tizia Maleducata, ma siccome parla a voce alta non mi riesce del tutto, così scopro altri dettagli della sua vita mentre parla con l’uomo accanto a lei. non commenta l’esibizione ( o se lo fa non la sento) ed è la sua fortuna. 

Il concerto sta per finire, c’è l’esibizione del coro che canta canzoni popolari. Lei non si lascia sfuggire l’ultima occasione per lamentarsi.

Uff, anche il coro, adesso, ma sono quasi le sei!

E io lo so che lì avrei dovuto girarmi, guardarla in faccia per la prima volta e dirle: ma che cazzo ci sei venuta a fare? Tua nipote l’hai vista? Presenza l’hai fatta? Ora vattene affanculo fuori di qui

Ma prima di tutto l’ho detto che è stata fortunata a non commentare Little (che comunque è stata bravissima, n.d.r), e poi che faccio? Una scenata davanti a tutti? tanto valeva allora che portassi al concerto anche l’Amico Speciale. Ho atteso la fine del concerto, sono uscita dalla mia postazione senza voltarmi. Non volevo vederla in faccia, non volevo riconoscerla fuori da lì. Che poi lavora in ospedale e sia mai, visto che ci giro di continuo tra ospedali, che una volta mi tocchi proprio lei. 

Mi sono allontanata dal teatro, faceva un freddo cane, sono arrivata alla macchina e ho caricato su Spoty la canzone che ha cantato Little. E la Tizia Maleducata è scomparsa. 

Intermezzo: una canzone per te

Per Ale.

La nostra non è solo un’amicizia di lunga data. Dire che ci conosciamo da 20 anni la non rende speciale, ci sono persone che conosco da più tempo. 

Abbiamo parlato a lungo su di noi, inciampando nelle parole, cercando una strada per poi scoprire che no, non è esattamente così, ci avviciniamo, ma ciò che siamo ci sfugge sempre un po’, come se fosse troppo improbabile, troppo difficile da dire. Magari è perché solo in noi vediamo l’amicizia e questo ci spiazza, ci affascina e ci disarma allo stesso tempo. 

In te vedo la musica. 

Quando Cisco canta della Grande Famiglia vedo il tuo viso. 

Libertà l’ho vista dormire, dice Fabrizio, e tu sei lì. 

In bianco e nero di Carmen sei tu. 

In te vedo i libri.

Tu, fino ad ora per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo

O ancora:

Uno, non toccare le lancette. Due, domina la rabbia. Tre, non innamorarti, mai e poi mai. Altrimenti, nell’orologio del tuo cuore, la grande lancetta delle ore ti trafiggerà per sempre la pelle, le tue ossa si frantumeranno, e la meccanica del cuore andrà di nuovo in pezzi.

In te vedo i colori.

Tu che di colorato non indossi mai nulla.

Sei il Rosso della passione e della rabbia, il Blu del mare e della notte, il Verde della speranza e della terra dove vivi. 

In te sento i profumi.

Sei il profumo del caffè appena fatto, delle sfoglie sfornate, di un tartufo che tieni in tasca. 

In te vedo gli abbracci.

Io, così allergica al contatto fisico. Tu mi hai vinta con le tue braccia calde e la testa appoggiata sulla mia spalla. 

Sento continuamente il bisogno di dedicarti qualcosa, il difetto della lontananza, di una vita frenetica che non perdona. 

E se sei musica oggi ti dedico una canzone. Di nuovo. Qualcosa che ci riporti dove eravamo, ma senza nostalgia, senza tristezza. 

Una canzone che ha la magia del Piccolo Principe, il Verde della speranza, il profumo del caffè appena fatto e l’abbraccio che mi hai dato la prima volta.

Le piccole cose

 

 

 

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Le piccole cose della vita…

Cosa c’è che può tirarti su meglio di una buona sessione di sesso? Che in questo momento è verboten (giusto per dirlo in tedesco, visto che lo sto semi imparando), e quindi va da sé che la tensione sale come non mai, e si ammucchia in un angolo insieme a tutto il resto delle preoccupazioni (tipo: quando riapriremo il Ristorante? Il mio Capo ipotizza anche un lontanissimo Luglio. E le domande nascono spontanee: avrò dei soldi in questo lungo periodo? Per ora non ne ho visti dalla cassa integrazione; avessi i soldi, il Ristornate riuscirà a reggere il duro colpo dello stop?; se anche lui ce la fa, io riuscirò ancora a lavorare? Mi ricorderò come si fa? Il mio corpo sarà in grado di riprendere? Beh, solo alcune tra le mille preoccupazioni).

L’astinenza sessuale, dicevo, inizia a farsi sentire. L’Amico Speciale mi chiama due volte al giorno, ci vediamo almeno una volta al giorno su Facetime, lui mi mostra la sua cagnolina che gioca, io le sfoglie al cioccolato che faccio per Little Boss, poi ci diciamo: Che palle! Quando finirà? Mi manchi… appena ti rivedo… questi hanno rotto il cazzo! Non si può separare due persone così! Tu cosa ti prepari per cena? Dove sei andato oggi per lavoro? Che cosa hai studiato? Io con i soldi per ora me la cavo, grazie. Tua madre come sta? Tua zia a Milano? Cosa dice il tuo Capo?

Andiamo avanti così da più di un mese. Sottile si intravede sotto alle nostre conversazioni il filo del Non se ne può più.

E siccome oggi sono particolarmente intollerante, non so se è una questione di giovedì, questo giorno prezzemolino che sta sempre in mezzo a tutto, oppure il sogno che ho fatto stanotte, dove non riuscivo a pulire il pavimento di questa casa che, notavo ieri, è davvero graziosa nella sua piccolezza, insomma, non so per cosa, ma in questa grande boule di nervosismo ci si è aggiunto uno dei momenti che detesto di più della settimana: la lezione di canto di Little Boss. Che fa, ovviamente, su Skype. E a cui io sono esclusa. Nel senso che le prime volte mi mandava a fare la spesa, così da essere da sola in casa mentre faceva lezione. E ok. Tanto la spesa va fatta eccetera. Solo che ora ci vado davvero malvolentieri, a fare la spesa, vuoi per la fila di cui sopra, vuoi perché i soldi scarseggiano e cerco di fare economia cucinando come una Benedetta Parodi (una cosa di cui sono capacissima è organizzarmi, come chi mi conosce ben sa). Quindi per tutta la lezione non solo devo fare silenzio (non ci sono porte in questa casa, è quello che potrei chiamare senza mezzi termini mini open space ), ma devo anche non ascoltare. Quando dico che l’amore supera i confini della logica ora potete capire di cosa parlo. Quindi mi munisco di cuffie, oggi, e vai con la lezione di tedesco, e vai con il potenziamento di inglese… e vai che mi sono rotta le balle dopo mezz’ora. E poi eccola lì la rivelazione: musica.

Le piccole cose della vita.

La musica a palla nelle orecchie mi ha ridato vita.

I Greenday di nuovo mi salvano il culo.

Con una canzone che come al solito arriva al momento giusto…

P.s. devo ricominciare a ridare il vero nome a queste cose: segni. Sul cosa vogliano dire abbiamo forse già discusso.

 

Un lieto inizio, parte 2

post 153

 

C’è della cacofonia stasera in casa… io sento la mia musica con le cuffie (ho tentato la strada delle cuffie bluetooth, ma siccome non sapevo come usarle ho solo caricato la scatolina senza caricare le cuffie vere e proprie. Little Boss ha commentato come fa di solito negli ultimi tempi: sei vecchia) e Little Boss ascolta la sua con il telefono. I Clash contro Low Low, i Nirvana contro Ultimo.

È che stasera volevo scrivere la seconda puntata di una storia a lieto inizio. Ormai il nostro Osaro è un navigato del Ristorante. Certo, ancora non capisce tutto quello che gli diciamo, specie se a parlare è la mia collega sarda; di lei dice che ha un computer nella lingua perché parla troppo veloce. Fosse quello il male… raddoppia tutte le consonanti che non vanno raddoppiato e toglie tutte le doppie: praticamente una grammatica al contrario che manco io la capisco quando mi dice come frige il polo; senza contare le occasioni in cui racconta le raccapriccianti storie della sua infanzia, quando la mamma le dava da mangiare il parasangue: mi ha spiegato cos’è e fidatevi: non volete saperlo.

In ogni caso Osaro è il nostro Eddie Murphy,ci fa piegare in due ogni giorno. Appena lo chiami ti risponde subito: buongiorno. O Buon anno, a seconda di cosa gli passa per la testa. Quando schiaccia le sfoglie (se non sapete di cosa sto parlando vi dico che le belle sfoglie che trovate al bar sotto casa nella classica forma a borsellino vengono fuori dalla pasta sfoglia tirata, arrotolata, tagliata e schiacciata con il mattarello- noi lo facciamo a mano- e poi riempite con mela, crema eccetera. Lezione di pasticceria terminata) batte le mani e inizia a parlare con l’impasto: let’s go, I’m ready! E quando gli dici qualcosa e chiedi: hai capito?, lui annuisce sempre, Capito!, ma quando gli chiedi: ok, allora che ho detto?, ha imparato la magica parola: boh! Dice tutto con una faccia da schiaffi e poi se la ride (alla Eddie, appunto) che mica te la puoi davvero prendere con lui. Ha il grande merito di far ridere di gusto anche il mio Capo, che di ridere ha bisogno, eccome, e anche quando combina qualche guaio non la vedi mai arrabbiata sul serio. È come avere un bambino tra lo staff, ti aspetta dietro l’angolo per farti Buu!, ma poi quando va via corre ad abbracciarti. Come un bambino, appunto.

E, come dicevo, è talmente in gamba e sveglio e ben voluto che il mio Capo, ora che il nostro pizzaiolo ha deciso di prendere il volo, ha deciso di chiamare la ragazza che si occupa di Osaro e chiedere se, per caso, conosce qualche altro richiedente asilo bisognoso di lavoro. La ragazza ha sgranato gli occhi di felicità e invece il ghanese Joseph ha pianto, sempre per lo stesso motivo. E così adesso stiamo facendo formazione al suddetto ghanese, padre di famiglia e un pelino più bravo con l’italiano. La sua tutor per l’Haccp sono io stavolta (l’avevo scampata con Osaro, ma Joseph mi tocca) e devo dire che il pacato Joseph con Osaro non ha nulla a che vedere: rispettoso fino al midollo, timido, ma un gran lavoratore. E anche orgoglioso: voglio imparare da solo, mi ha detto stamani, che non voglio che il Capo spenda soldi per pagare te che insegni a me. ‘sti cazzi…

E quindi speriamo tutti in Joseph, la nostra famiglia è sempre più eterogenea e multietnica. E devo dire che ne vado fiera. Sono belle cose da mostrare a Little Boss.

Ho solo un obiettivo in tutta questa storia: insegnare a Osaro la vera e buona musica: il ragazzo corre con Little Boss e appena parte Irama si mette a ballare…

Per togliere questo peso dallo stomaco intanto mi ascolto le Hole

 

La Teoria la so tutta

post 118

 

Vediamo…

La cena è sistemata nella padella, una cena fusion(macchè, è una cena inventata, ma dire fusion fa più figo) che di certo Little Boss apprezzerà solo in parte; il bucato è dentro la lavatrice che si sta lavando; ho mandato l’Iban a chi me lo ha chiesto (fa sempre bene qualcuno che, nell’arco della tua giornata, ti chiede l’Iban, no? Di solito te lo chiede per versare, giusto?).

Ho fatto tutto e Little Boss sta finendo di fare i compiti (anche se è in ritardo, ma vabbè). Nota stonata, nel senso esatto del termine: la sua musica , fatta ragazzini che cantano e che hanno nomi tipo skilla o roba simile (non riesco a imparare questi nomi, il mio neurone si rifiuta e io non posso biasimarlo…). Sopporterò. Dopotutto lei a volte sopporta la mia musica, no? Che poi lasciate stare il fatto che la mia musica è degna di essere ascoltata… ma i gusti sono gusti e, come disse una volta una mia amica, tutti abbiamo ascoltato da ragazzini qualcosa di cui oggi ci vergogniamo (io i Take That…).

Insomma, tutta questa non è una prolusione, bensì una nota introduttiva che mostra un fatto semplicissimo da notare: la prendo sempre larga per dire le cose. Essere sintetica, diretta, funzionale non mi piace. Qui, soprattutto, che siccome è uno spazio mio (gentilmente concesso in modo gratuito da San WordPress, che io prego assai poco, si vede, perché a volte mi ignora e, anzi, mi fa gambetta) mi piace utilizzare come mi pare.

Sul fatto, comunque, che io la teoria la so tutta, ma sulla pratica, invece, difetto, ho rotto le balle a tante persone in questi anni. È una frase che metto avanti come un cartello o uno striscione, i miei Lo so, lo so sono diventati celebri, stanno facendo un meme ad hoc.

Oggi l’ho ripetuto all’Amico Speciale.

Il fatto è che quest’uomo, con i suoi alti e bassi e le sue virate di idee, ora è in una fase un po’ particolare dove si lascia ispirare da un tizio (popolare su You tube) che è sì uno psicologo, ma è anche uno molto alla mano, che dice le cose in modo diretto e semplice, e questo indubbiamente lo rende attraente per persone come l’Amico Speciale, che vuole sì imparare, ma non da persone che si atteggiano in un certo modo superiore. Ma comunque, non è il nuovo amore dell’Amico Speciale il discorso.

Il discorso è cosa è successo, praticamente, nel Moonverso. Perché di questo scrivo, essendo cosa a me cara. E non è a me cara perché è roba mia e quindi esisto solo io, non è a me cara in maniera egoica (rubo questo termine a chissà chi, non è corretto ma rende l’idea), ma è la semplice premessa di questo blog.

(Lo so, lo so, mi dilungo, parto per la tangente, sto andando fuori tema, divago)

Ho passato un bellissimo weekend con qualcuno venuto dal Giapponeapposta per me. Il mio capo mi ha detto che si vedeva che ero felice, avevo una luce speciale. Ed è così. Lo Shogun mi rende felice, cazzo. Tutto con lui assume una colorazione diversa, mi fa pensare Allora esiste davvero, esiste sul serio essere felici! E tutte quelle cose lì. E non vi tedio oltre. Perché il punto non è ancora questo.

Ma ieri mattina io e lo Shogun avevamo fame. E siamo usciti per fare colazione (sembra l’incipit di un noir).

Il mio ex Lex (vi rimando brevemente a qualche nota qui) in un nanosecondo si è di nuovo trasformato in Lex. Un po’ come accade in Smallville, non so se avete presente. Lex e Clarke sono in continua tensione per diverse puntate, fino a che la rivalità non prende piede definitivamente. E ieri Lex mi ha fatto chiaramente capire, con modi poco cortesi invero, che la rivalità è ricominciata. E in un certo senso ho tirato un sospiro di sollievo, perché non è che mi fidassi proprio molto. Sentivo. E lo so che non si fa, ma io quando sento di solito ho ragione.

Ed ecco che si torna a bomba.

Io lo so che sbaglio a pensarla così. La teoria mi dice che se penso così avrò una bella Teoria che si autoavvera dalla mia. Ma la pratica, l’esperienza, mi dice che il mio diciottesimo senso ha ragione. E, di nuovo, lo so che il mio cervello mononeuronale registra solo quando vince in questo settore, ma è proprio… più forte di me?

Ed ecco che ogni volta mi sento una stupida. Perché nonostante sappia come funziona, nonostante conosca l’insidioso meccanismo, ogni volta ci casco.

Così come casco nel trabocchetto di Allora sono sbagliata io se.

Diciamo che la cosa più buffa in assoluto è che sia l’Amico Speciale, oltre agli altri, a dirmelo.

Ma siccome sento anche lui (ridete pure, lo so , lo so) non sono ancora convinta che questa sua fase sia reale o fittizia.

E insomma, proprio quando la teoria mi insegna che devo smettere di farmi le seghe mentali, ecco che sono di nuovo qui a farmele.

Un insegnante immaginario direbbe, di fronte a una come me: si impegna tanto, ma proprio non ce la fa

Cerchiamo di premiare l’impegno?

Questioni di linguaggio

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Stavo passando lo straccio in pasticceria, oggi. Forse potrebbe non sembrare importante questo dettaglio, ma invece lo è, perché se c’è un attimo di respiro nel mio lavoro è quando compio i gesti ripetitivi, e se c’è un attimo di respiro io penso. Spesso penso a caso, spesso mi faccio venire l’ansia per le cose più stupide, ma oggi pensavo al linguaggio.

Tutto è nato da un piccolo screzio (bonario, certo) che ho avuto con il mio collega giovane, Micro(bo). Il mio collega giovane ama musica inascoltabile. Lui dice lo stesso, ma è meno diplomatico e afferma che non ci capisco un cazzo. E così Nostalgia ci offre spunti continui per continuare a battibeccarci. La cosa prosegue anche fuori dal lavoro (io cerco di dargli lezioni, una Guida all’educazione musicale, soprattutto dopo che, avendo ascoltato una canzone dei Doors, ha detto: a qualcuno sta suonando un telefono?Era il pezzo strumentale di Light my fire…). E insomma, l’altra sera io ho azzardato un Lou Reed e lui ha risposto con… Mengoni. E siccome il patto è che la canzone va ascoltata, io l’ho ascoltata. E il testo è la cosa più banale che ci sia. Di una banalità scandalosa. Pure la melodia secondo me lascia il tempo che trova, ma visto che lui si bea del fatto che ascolta musica italiana soprattutto per il testo (non sa l’inglese, povero cristo), beh, ecco, il testo di Essere umani fa venire i brividi di banalità. Esisteranno dei brividi di banalità? Forse li ha creati Mengoni con quella canzone.

Ma il punto non è il linguaggio di Mengoni, ma il mio. Perché lui mi ha chiesto spiegazioni. E io gli ho dato una Moon spiegazione: questo testo non mi aggiunge nulla, non fa Moon+1, dice cose che hanno già detto in milioni, ma con disonestà intellettuale, perché perlomeno Ti amodi Tozzi non finge di avere un impegno sociale, non finge di avere un significato nascosto sotto al guerriero di carta igienica, è un (voluto, spero) nonsensefatto di immagini, mentre il testo di Mengoni finge di voler dire qualcosa di impegnato.

E qui l’ho perso. Per minuti buoni. E poi mi ha scritto: io mica ti capisco, sai, quando parli

E lo so, che non mi capisci, Micro(bo). E nemmeno sei il solo.

Nel senso, intendiamoci, non è che non sono capace di fare una sana conversazione metereologica (Oggi è freddo, eh? Ma sì, il termometro fa meno 9!, Beata l’estate. Io preferisco l’inverno, basta che non nevichi, e roba del genere), dopotutto lavoro al pubblico e va da sé che non mi metto a parlare dell’onestà intellettuale di Mengoni con i miei clienti. Solo che ci sono delle volte che sento il bisogno di potermi esprimere come sono. Di essere me anche nel linguaggio. Non sono certo la prima che si pone il problema del linguaggio, ovvio, Pasolini ci ha centrato la sua poetica (altrimenti non si spiegherebbero le dannate poesie in friulano), solo che il linguaggio del quale parlo è il mio. È il linguaggio del Moonverso, che risponde Rogerinvece di Ok, che utilizza termini desueti per non farli sentire soli e abbandonati (è proprio una questione filologica, dove filologico lo intendo al pari di filantropico, ma con le parole al posto degli uomini), che cita in latino perché ci è abituata. Perché io parlo così, a me. Mi parlo citando, mi parlo neologizzando, mi parlo rielaborando le parole. Solo che poi la gente, giustamente, non mi capisce.

Quindi forse il mio è un problema di linguaggio condiviso. Ma nel senso che non so con chi condividerlo, appunto. Forse è anche per questo che preferisco scrivere, specialmente qui: della serie, che mi capiate o no, mica siete obbligati a leggere. Non mi capite, passate avanti. Questo fa già di me una scrittrice fallita, perché è nella definizione perlomenola comprensione, ma non me ne preoccupo perché ho maniavantizzato nel nome del blog. In ogni caso mi preoccupa dovermi frenare, cioè, dover modulare il mio linguaggio con alcune persone che mi stanno accanto.

Ma ovvio. Ovvio. Ci sono persone che mi capiscono eccome. Che è una questione di conoscenza (di me) e basta. Ad esempio mia figlia mi capisce sempre al volo. E non è la sola.

Ma mi chiedo quanto sia giusto far fatica per capirmi.

Christmas is coming up

 

 

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E mentre mio padre continua a mandarmi messaggi con tutta una serie di imperativi (Riposati! Non fare nulla! Scaldati!), che ancora mi sa che non ha capito che non ho la dannata influenza, io in realtà pensavo al Natale.

E così mi sono messa su una compilation che vi farei vedere i titoli (ma sopratutto ce ne è una che compare sempre sempre nelle compilation di Natale e mi ricorda una scena divertentissima avvenuta poco dopo essermi trasferita qui: uscivo con un tale, io lo chiamavo il Mago del Computer perché in realtà quello faceva -fa- di lavoro. Insomma, lo invito a cena da me, ho già fatto l’albero, siamo sotto le feste; metto su una compilation di Natale da YouTube e la faccio andare tutta la sera. Siamo appena entrati nel mio letto quando parte Feliz Navidad, Josè Feliciano: dopo è stato impossibile finire ciò che avevamo iniziato da tanto che ridevamo. Josè per me vince il gagliardetto della canzone di Natale più ridicola), ho fatto un inventario superficiale degli addobbi, ho cercato di ricordare in che angolo della casa ho montato l’albero l’anno passato, che qui, in questi 40 metri, è tutta una questione di incastri ben studiati, sennò va a finire che mi trovo il mio abetino 100% sintetico nel bagno, e ho sorvolato sul fatto che dovrò spostare mezza casa per farlo.

Qualcuno ieri mi ha detto che Dicembre è il mese più falso dell’anno. Una frase di un cinismo che manco io ci arrivo.

In realtà a questo pensavo stamani, al fatto che non è detto che sia falso, il sentimento dico, non è detto che se c’è un’occasione per dimostrare che pensi a un’altra persona questa debba essere per forza falsa, non è detto che ci pensi una sola volta all’anno, magari sfrutti quel giorno per dirlo di nuovo, che le vuoi bene, che pensi a lei. Come per molte cose siamo noi a sfruttare male i mezzi che ci mettiamo a disposizione. Il Natale sarà falso se noi lo vivremo da persone false.

E quindi termino sempre ogni mio ragionamento nello stesso modo: siamo sempre noi a fare la differenza. Siamo noi la cellula che può impazzire (o rinsavire). Possiamo scegliere. E pare che nessuno se ne curi.

A me il Natale piace. E non sempre è stato così. Ci sono stati anni in cui il solo pensiero mi metteva ansia: l’ansia dei regali, l’ansia del pranzo. Ma non era colpa del povero Natale. Era colpa mia, vedevo le cose dal punto di vista sbagliato (con gli occhiali sbagliati, avrebbe detto qualcuno), non era un’occasione, ma un fardello.

E siccome non c’è una legge che ti costringe ad amare e festeggiare il Natale, chiunque può fare come vuole e sentirsi come vuole. Se non ti piace basta ignorarlo. Oppure sei il Grinch e allora ti tocca da copione odiarlo.

Io intanto ballo Frosty the Snowman con Bublè e mi sento bene, sorrido e boh, la prendo così, come un’occasione per tornare bambina, per urlare alle perone che amo che le amo, per giocare, per ballare, per essere felice.

Sempre che qualcuno mi aiuti a tirare giù l’albero …

(Che ‘sta foto è mia si nota… io sono un cane con le foto)

Essere sola

 

post 49

Ho appena accompagnato Little Boss da suo padre, e mentre tornavo a casa pensavo. Pensavo a un milione di cose, tutte insieme, si sono affastellate nella testa, sovrapposte, tanto che una volta a casa non sono riuscita a districarle, ma qualcosa è rimasto, si vede, perché pensavo alla musica, agli stimoli nuovi di cui ho bisogno, e i due concetti si sono attaccati insieme  e così ho chiesto aiuto all’unico in grado di amarmi sempre, di seguire il mio complicatissimo cervello, di entrarmi nel mio cuore per farlo riposare: Spotify. Ho scoperto una funzionalità: ti crea una Playlist simile alla tua. E, indovina indovina? Ci azzecca. Sempre. Mi conosce. Che alla fine non è che ci voglia un super programma. Ci vorrebbe solo un po’ di attenzione, no? 

Ricordo che anni fa chiesi al mio ex una banalità: quale è il mio libro preferito? Volevo sfidarlo, certo. Glielo avevo detto mille volte, lo avevo scoperto con lui, nel periodo in cui sono stata con lui, che è stato un periodo molto lungo, con lui ci sono cresciuta, si può dire. Non serve dire cosa rispose. 

TDL mi ha guardata. All’inizio era così. All’inizio è sempre così, no? Ma c’è stato un pomeriggio. Pioveva, tanto per cambiare. E lui mi guardò negli occhi e mi penetrò. Mi fece piangere, sembrava davvero che quel concetto, l’empatia, ci fosse. Ed era solo una parola, ma quel pomeriggio per me prese vita. 

E poi, certo, è morta. 

Ecco perché piango, i morti si piangono sempre. 

E comunque non era questo che pensavo in macchina. La macchina per me è un vero pensatoio, tipo quello che aveva Paperone nel suo deposito: ricordate il circoletto fondo? Io guido e penso. E le idee le ho tutte quando poso il culo sul sedile e metto la prima. Ecco perché ci ho messo l’acchiappasogni. Perché le idee negative restano intrappolate nella rete, e quelle buone passano attraverso il centro. Ed è vero che il mio non è fatto con legno di salice e piume di aquila, ma con fil di ferro e piume di fagiano (questo si trova, a casa mia, non sono della tribù dei Lakota), ma funziona. Solo che ho visto l’altro giorno, mentre lo mostravo al Nuovo Amico Atipico (che ora non è più tanto nuovo, così posso chiamarlo Amico Atipico e basta) che si è rotta la rete e dovrò ripararlo. Forse sostituirlo. Deve essere per questo che le idee si incasinano. Probabile. 

Ma insomma, non era nemmeno questo che avevo pensato, diamine come sono dispersiva.

Pensavo al fatto che ho chiesto a un amico di portarmi a fare un giro nel bosco. Che alla fine mi sa che potrebbe farmi bene uscire e mettermi a contatto con la natura per un po’. Ce l’ho a due passi, ma io, il bosco, non mi ricordo più come si usa, e se non c’è qualcuno ad accompagnarmi mi sa che mi perdo e faccio la fine della Bambina che amava Tom Gordon. O, visto che è periodo di caccia, mi becco una fucilata dove non batte il sole. E nulla, gli avevo detto Un lunedì andiamo. E oggi è lunedì e lui mi ha chiamato. Ma io dovevo fare mille giri, libretto della caldaia da far timbrare, andare dal gommista e dal meccanico per la mia piccola auto-pensatoio, un appuntamento con un avvocato in serata. E Little Boss in mezzo a tutto questo. Non ho tempo oggi, devo farne mille, scusa, a volte non mi rendo conto di quante cose devo fare in una giornata e del tempo che ne rimane. La sua risposta è stata tipica: eh, voi donne ne avete da fare sempre tante, ma anche noi uomini…

Già. Peccato che io sono sola e devo farne per entrambi. 

E quindi ecco a cosa pensavo, al fatto che sono sola a gestirmi la vita e quella di Little Boss. E che ci sono giornate che mi pesa, certo, essere sola. Nessuno a cui poter delegare nulla, nemmeno andare alla posta a pagare la bolletta, nessuno da mandare dal gommista per fare un preventivo (e chiedere di pagare a rate, che sennò non ci arrivo), nessuno a ricordare l’appuntamento dal dentista per Little Boss, nessuno a dare una mano per la cena, nessuno a cui confidare la giornata, le piccole disavventure, le piccole vittorie. Se ancora vi state chiedendo perché scrivo è anche per questo, magari: perché sono sola.

Ma certo, certo… lo so che la solitudine non è una condizione ma uno stato d’animo. E io oggi mi sento così. Mica sempre, eh. Anzi. Il mio Spazio… il mio Armadio…

Facciamo che siccome è un mio conflitto, ci devo sguazzare ancora un po’.  

Munchkin, musica e altre amenità…

post 42

Ho all’incirca un’ora di buco tra il pranzo e una partita a Munchkin, gioco di carte di difficile definizione per i non nerd come me, ma che entusiasma Little Boss. E non solo: tre dei miei colleghi sono entusiasti all’idea di giocarci, specie con Little Boss, che mi chiede: perché io ho i soliti gusti di un ragazzo di trent’anni? Ma la domanda giusta sarebbe inversa: perché tre ragazzi di trent’anni hanno i tuoi soliti gusti? E poi ci sono io che sforo, che ne ho dieci di più e mi diverto comunque tantissimo. 

Quindi pomeriggio con torneo di Munchkin…

E intanto la colonna sonora che ho alle spalle varia da Ed Sheeran ai Maroon 5, la musica di Little Boss, che anche quando fa la lezione un po’ di musica ci vuole, e io che devo dirle, che non faccio nemmeno il soffritto senza musica? Ho sempre studiato con la musica, scritto con la musica, fatto la doccia con la musica, lavorato con la musica. E fatto tutte le altre cose…

Anche mia nonna adorava la musica. Forse me la ha attaccata lei questa fissa, certo, erano note diverse, ma lo stesso trasporto. Verso la fine dei suoi anni le era presa la demenza senile. O magari era Alzheimer, non ho mai capito la differenza. Stare con lei era molto faticoso, dovevamo guardarla a vista (che non si facesse male, per lo più), contenerla quando alle tre di notte si alzava, si vestiva e voleva andare a fare la spesa, insomma, tutte quelle cose che chiunque abbia avuto esperienza della cosa conosce. 

Ma lo stesso, stare con lei che farneticava era uno sballo, le uscivano dalla bocca non solo i ricordi vividi e precisi della sua giovinezza (i ricordi lontani nel tempo restano quasi sempre), ma sopratutto i suoi sogni. Raccontava i suoi sogni come fossero stati reali ed è stato bello scoprirla così, capirla, in fin dei conti. 

Una volta mi chiese se avessi mai conosciuto suo marito.

  • No, nonna, non me lo ricordo il nonno, è morto quando avevo tre anni.
  • Ah, mi dispiace… peccato, però, era un re, sai?
  • Vittorio Emanuele, ne avrai sentito parlare.
  • Vagamente… 

Ha sempre avuto questa cosa, questo desiderio di regalità. Quando ero piccola mi insegnava a camminare con i libri sulla testa, mi diceva di tenere le braccia lungo i fianchi mentre mangiavo perché lo fanno le principesse. Mi cuciva vestiti eleganti che poi non sfruttavo mai. 

E poi mi faceva guardare mentre lavorava, sperando di farmi imparare i segreti del taglio e cucito. No. Non sono mai riuscita a fare nulla, non è riuscita nemmeno lei in questa impresa titanica, nemmeno un bottone sono brava a riattaccare. Ma ogni volta che vedo ago e filo penso a lei, penso alle giornate d’estate che passavamo insieme, alle piccole gite in centro a Roma alle otto di mattina in pieno Agosto (una città fantasma), a tutte le volte che mi ha fatto mettere la mano dentro la bocca della verità (come ero terrorizzata ogni volta… a volte i bambini si perdono dietro a cavolate…) o a come mi prendeva in giro fantasticando sul mio fidanzato (bello, ricco e micco, era il suo motto).

Io che di solito non sono così nostalgica (in fondo penso sempre che le persone vadano onorate da vive, non vado mai al cimitero), oggi pomeriggio, con Little Boss che fa la lezione, penso a queste tre generazioni che hanno un sottile filo che le unisce, penso alla musica e al potere che ha nella mia vita. 

E così, dovunque tu sia, nonna, ti mando un sorriso. Mi auguro che tu abbia trovato il tuo Vittorio Emanuele da qualche parte. 

Concediamoci i sogni almeno da morti.

Cambia musica, Moon, per favore…

post 29

Il mio piccolo appartamento un tempo era la canonica della chiesa del paesello in cui vivo. E la chiesa c’è ancora. È sotto i miei piedi, mentre scrivo qui al computer, e alle sei ogni sera, ogni sera, c’è la messa, e le dolci vecchiette cantano, e quindi avere Damien Rice che si sovrappone ai vari Alleluia fa davvero strano.

Mi sono fissata con questa canzone, 9 Crimes, fa parte della famosa playlist da Kleenex, chissà perché quando siamo tristi ascoltiamo musica triste, dovremmo fare al contrario, oppure ascoltare solo musica allegra, che ne so, i Green Day con Stray Heart, una canzone che mi mette sempre la carica, ma non in questi momenti, non ora, che TDL mi sta massacrando con i suoi messaggi, ma perché non riesco a smettere di leggerli e festa? So che non vorrebbe farmi male, ma non è nella condizione di non farlo, non può non farlo, è proprio inevitabile, ed è per questo che me sono andata, è perché come si muove si muove, cosa dice dice, mi farà male. Sempre. 

Cosa siamo ora?, gli chiedo. 

Oh, Moon, sempre a fare le domande peggiori, le più difficili, nei momenti meno opportuni.  

Ma cosa deve rispondere, TDL? Ma cosa vuoi che mi risponda? Lui la sua scelta l’ha fatta già. L’ha fatta prima di conoscermi, anche se mi dice che saremo legati per sempre. E un po’ di quel legame, un po’ di quel filo che ci unisce, lo sento sempre dentro, come catene pesanti che mi impediscono di muovermi, di andare. Mi sento senza un’ala.

Ma forse al verità è ancora più semplice. 

Sono io che non ho capito, sono io che non ho visto, oppure sono io che ho voluto vedere troppo, e ora sono intrappolata qui, e non so come uscirne. 

Poi mi ripeto che le trappole sono solo mentali, ed è vero che io sono una campionessa a costruirle, se ne volete, posso farle per tutti a costo zero. Così come dialogo con me stessa ab aeterno: 

-Ma come si esce dalla trappola mentale dell’amore?

-Ehi, Moon, ma l’hai già detto! Serve Tempo, 365 giorni, scontato, lo hai detto all’inizio.

-Sì. Ma nel mentre? 

-Eh, nel mentre, scrivi.

-Ci sono giorni che non mi basta.

-Allora fallo: piangi e stop. 

-Detesto piangere.

-Sei una rompiballe, Moon…

-Lo so, sono una rompiballe. 

-Hai anche altre cose, poi, non dimenticarlo.

-Tipo?

-Little Boss

(Sorriso)

-Ale

(Sorriso)

-Gli amici. Tutti. Quelli vecchi e quelli Nuovi e atipici.

(Sorriso)

-E gli abbracci…

-Giusto. Hai ragione. Ho un sacco di cose per cui sorridere.

-Almeno per stasera la abbiamo sbarcata, no?

-Sì. Però cambia musica, Moon, per favore…

-Va bene…