Dalla Sardegna con furore

Spiagge…
…e sassi

E le vacanze in Sardegna sono giunte al termine… 

Cose che ho imparato della Sardegna:

  1. Nell’entroterra non c’è NIENTE. Nulla. Il puro assoluto deserto. Non una casa, una capanna, un fienile, un recinto o altro che possa far presumere la presenza dell’uomo, fatta eccezione della strada asfaltata, da cui si presume che l’uomo, almeno una volta lì ci sarà stato. Per chilometri e chilometri. Manco una macchina nel senso opposto. E infatti le strade sono belle, poche buche. Non ci passa nessuno. 
  2. Lo sport nazionale è il tiro al cartello. Stradale. Se escludiamo la 4 corsie, non c’è un cartello stradale senza il segno di una fucilata o crivellato da proiettili. 
  3. I sardi sono gentilissimi e disponibilissimi. Altro che persone chiuse e taciturne! Se non avessimo avuto la scusa del traghetto, eravamo sempre lì a bere Ichnusa…
  4. Non ci son o spiagge brutte in Sardegna? Ni. Siamo stati sfortunati, va detto. Su 9 giorni, 8 ha tirato un maestrale che lanciava frustate di sabbia tali che pensavo di tornare senza pelle. Quindi poco mare. E siccome era mosso, qualche spiaggia sommersa dalle alghe l’abbiamo trovata. Nonostante tutto la spiaggia in questione era affollatissima. Quindi…mah. Ma abbiamo avuto poco tempo per esplorare. L’acqua comunque è imparagonabile alla nostra. Cristallina nonostante il mare mosso. Non si può fumare in molte spiagge. Bene! Diranno i più. Male per una tabagista, ma comunque la cosa non ha pesato neanche a me. 
  5. Noi toscani siamo abituati male. Dietro ogni angolo da noi c’è un pezzo di storia. In Sardegna la storia è solo quella dei vari nuraghe. Molto belli, antichissimi e misteriosi. Ma Little mi ha detto dopo il terzo: ancora sassi? Come darle torto? Voleva fare il mare! 
  6. Pecorino, malloreddus, pane carasau, guttiau, culurgiones, seadas… Cercando, in Sardegna si mangia e si beve benissimo. Basta allontanarsi dai posti troppo turistici. 
  7. Gli accenti. Nulla, non ne azzeccavo uno. Nomi di città/paesi. Sonorbi: dove metteresti l’accento? Sinòrbi? Sìnorbi? E invece è Sinorbì! Siniscola? Sinìscola? E invece è Sinoscòla. Me la cavavo solo con i nomi bisillabici, come Bono. Gli ultimi giorni ho preso la decisione di nominare un pese con tutti gli accenti possibili. Della serie, uno sarà! E quindi: Bàrrali, Barràli e Barralì. Tiè! In realtà un ragazzo mi ha dato una dritta mentre mi indicava un posto (di cui io ho, ovviamente, sbagliato l’accento). Devi fare così, ha detto, se pensi che un accento vada da una parte, tu lo metti da un’altra. È controintuitivo. E se lo dicono loro…

Ho imparato anche un sacco di cose su di me, in questa vacanza. Ma me le tengo per la prossima volta, io e l’Amico Speciale andiamo al mare (ormai l’ho intossicato) a dispiacerci per i nostri lidi e a rimpiangere quelli sardi, di cui così poco abbiamo visto. 

Posso comunque anticipare che mi sono portata via l’Anima Sarda

Un settimana alternativa

Lo so che siete lì che pensate: guarda Moon, con i suoi programmi per le ferie, se ne è andata via tre giorni e non scrive più nulla perché si diverte tantissimo e non ha tempo. 

Ma, ahimè, no.

Questa è stata una settimana alternativa, come ci sono a scuola, ma molto meno divertente. 

Lunedì. Arrivo da mio padre alle 8.15 per portargli la colazione e prepararlo per la visita dell’invalidità. Lo trovo a terra. Caduto non si sa come. Lo tiro su, ma non è molto presente. Dice che non si è fatto male, in effetti sembra così, quindi decido di portarlo alla visita e vedere come va in giornata. 

In giornata sembra riprendersi. In serata mi dice che è stanco, ma cammina da solo. La mattina dopo mi dice che gli formicolano le gambe e decido di portarlo al pronto soccorso. 

La giornata al pronto soccorso è stato un vero incubo, il pronto soccorso è un perfetto girone dantesco dal quale, da qui in avanti, cercherò di tenermi lontana il più possibile. Dalle 7.45, ora in cui ho chiamato l’ambulanza, siamo tornati a casa alle dieci di sera. Senza alcun risultato. Anzi, gli hanno pure rotto gli occhiali durante il periodo in cui non mi hanno permesso di stare con lui. 

Mercoledì. Il giorno in cui avrei dovuto partire. La badante che viene la mattina, badante 2,  mi lascia a piedi perché la macchina l’ha lasciata a piedi. Devo per forza andare nella città dove mio padre viveva prima perché devo recuperare dei fogli importanti. Inoltre Little si è svegliata tardi e gli è venuta una crisi isterica. Io ho dormito solo 5 ore, prendo un caffè con gli occhi chiusi, carico Little in macchina, porto la colazione a mio padre e lo lascio lì. Lui mi assicura che sta bene. Ma dopotutto io non ho scelta. Porto Little a scuola, mi faccio 3 ore di macchina andata e ritorno, prendo i fogli che mi servono, vado al supermercato per fare la spesa per mio padre e quando sono alle casse mi chiama l’altra badante, badante 1, quella che arriva alle 11.30. è cascato di nuovo e lei non riesce ad alzarlo. Corro a casa sua, lo alziamo in due. dico alla badante 1 che mi devo prendere almeno due ore di riposo, vado a casa e faccio l’inevitabile: inizio a cercare una badante fissa. Mi dico che in un mesetto dovrei farcela. Ma ho sottovalutato la rete sotterranea delle badanti. Nel giro di un pomeriggio la super rete mi ha trovato una donna georgiana di 50 anni. mi chiamano in cinque per le referenze, parlo mezz’ora con la signora che l’aveva in casa finora, mi tranquillizza e mi dice di chiamarla per qualsiasi cosa. La sera torno da mio padre, gli do cena, lo metto a letto.

Giovedì. Badante 2 è sempre a piedi. Resto da mio padre fino a mezzogiorno, che arriva badante 1. Vado a finire di fargli la spesa (che il giorno prima, dalla fretta, ho dimenticato della roba), e poi mi chiama la rete delle badanti per dirmi che la signora georgiana, Nata, badante 3, arriva il giorno dopo. Quindi mi viene in mente che il letto c’è, ma non ho le lenzuola e la coperta, corro a prendere anche quelle. Vado a prendere Little, che ha preso un’insufficienza a italiano e quindi piange (anche se chi è causa del suo mal…ma non posso dirglielo, è troppo suscettibile in questo periodo), ha fatto casino sull’orario della lezione di canto e ora è a piedi. La porto a casa, preparo cena e torno da mio padre.

Venerdì. Badante 2 stamani viene. Me lo ha scritto ieri sera a mezzanotte, quindi l’ho visto solo stamani alle 5.30. mi alzo e mi preparo già, non si sa mai visti i giorni passati. Poi mi metto qui a scrivere, giusto per dirmi che sono ancora una persona. Normale no, ma persona almeno…

Ho finito il tempo. emergenze non ci sono, per ora. Badante 2 è lì, anche se lui oggi non cammina. Ora devo andare a cercare un cuscino per il letto, prendere i soldi per pagare badante 2, che è il suo ultimo giorno, e poi resto lì con lui fino a mezzogiorno. Nel pomeriggio vado a prendere Badante 3 alla stazione. La porto a casa. E se Dio mi aiuta, inizierò a vedere la luce in fondo al tunnel…

Intanto le mie ferie sono finite…

Forse un giorno imparerò

Torno a scrivere dopo una lunga settimana di lavoro che seguiva una lunghissima settimana di lavoro. 

Non so perché, ma ultimamente lavorare mi richiede degli sforzi notevoli. Non mi alzo volentieri, quando sono lì sono meno concentrata del solito, i rapporti con i colleghi li trovo difficoltosi, soprattutto con la Figlia del Capo, che a volte è insopportabile. Il Capo invece è stanco, confuso, sbaglia di continuo. Ho l’impressione che si senta un pesce fuor d’acqua e siccome mi sento così anche io ci deve essere qualcosa che non va. 

Tutti questi pensieri, che mi assillano giorno e notte (ed è il mio maledetto difetto, quando mi fisso su una cosa…) mi portano, la mattina, a guardare sempre e solo annunci di lavoro. Ho, è vero, il Progetto Comune, ma sto studiando poco e le prove sono rimandate a data da destinarsi e io spero sempre che un annuncio salvi la mia quotidianità. 

Eppure so che sono solo io a dover muovere qualcosa, senza dover aspettare che mi scenda giù dal cielo. 

Ed ecco perché, approfittando di un’altra settimana di ferie che avrò a fine mese (sì, lo so, a voi sembra che sia sempre in ferie, in realtà devo smaltire ancora 94 giorni delle suddette, sono più di tre mesi, e un giorno qui e una settimana là non assottigliano affatto la fetta) ho deciso di prendermi tre giorni per me. Me ne vado via, anche se sono ancora indecisa sulla destinazione. 

(E siccome sono solo le nove di mattina di un lunedì e mia madre mi ha chiamato tre volte e mio padre mi ha mandato quattro messaggi, direi che scappo in una terra dove non esistono ripetitori).

Quando l’ho detto a mia madre mi ha chiesto: e l’Amico Speciale cosa dice che vai via da sola?

E che deve dire? Mi deve forse autorizzare? L’ho chiesto a Little, se per lei andava bene, e tanto basta, no?

Quella sua semplice domanda, fatta senza pensare, mi ha però fatto capire delle cose. Che poi ho scritto parzialmente in un commento qui in giro. 

Essere nati e cresciuti dentro la mente del patriarcato a volte ti rene difficile capire che ci sei dentro. Cerco di spiegarmi. Mi sono sempre ribellata all’idea che dovesse comandare qualcuno in famiglia, salvo poi rendermi conto che avevo una famiglia esattamente così. Dove eri già fortunata se tuo marito ti permetteva di, che ne so, fare un corso di scrittura (pagato con i tuoi soldi) o riprendere a studiare (sempre con i tuoi soldi). Queste sono state le parole esatte del padre del mio ex quando l’ho lasciato. Ma dopotutto il suddetto padre ha i suoi anni, insomma è di un’altra generazione. Peccato che anche il mio ex al tempo se ne uscì con una frase simile. E lo stesso fece mia sorella. In quel periodo credevo di essere pazza, nessuno la pensava come me, tutti mi dicevano di restare con mio marito perché alla fine lui non mi aveva mai picchiato e mi aveva permesso di fare quello che volevo. Nessuno che mi chiedesse se l’amassi ancora o lo rispettassi o lui rispettasse me. Addirittura, un conoscente una mattina mi chiese perché avessi la faccia lunga. Dopotutto, disse, hai un bel lavoro, una bella casa, una bella famiglia. Non risposi. Ma mi riproposi di non fare mai quello che stava facendo lui, giudicare una vita senza conoscerla. 

Forse sono stata sfortunata, forse mi sono cercata quello che mia madre mi aveva sempre detto tra le righe di cercare, non saprei. Resta il fatto che ora, purtroppo, sono invece passata sull’altra sponda (o bianco o nero, Moon, giusto?) e non tollero più che mi si dica quello che devo fare. se ho imparato qualcosa dalla storia con il mio ex è stato essere autosufficiente. E lo sono. Non solo, ho cresciuto praticamente da sola Little, per anni l’ho tirata su solo con il mio stipendio e sono arrivata al punto di essere io la donna e l’uomo di casa. 

E quindi l’Amico Speciale perché dovrebbe autorizzarmi a prendermi una vacanza di tre giorni? 

Ora, lui, l’A.S., ovviamente mi dice che esagero. Di lasciar perdere mia madre. Ma io sono approdata all’altra sponda. E a lasciar perdere ho paura di tornare indietro. 

Forse arriverà anche il giorno in cui riuscirò a stare con i piedi in mezzo al fiume, né su una sponda, né sull’altra. Sì. Forse un giorno imparerò. 

C’ho l’ansia

Ho quasi finito questa settimana di ferie che è giunta del tutto all’improvviso. Il sabato mattina il mio Capo mi fa: Allora martedì sei in ferie fino alla fine della settimana, ok?

Ok… giusto il tempo di organizzarsi qualcosa, penso. 

Ma vabbè, godiamoci questo tempo rubato (che poi è ampliamente dovuto).

Mi faccio una lista di cose da fare: sistemare l’armadio, andare dal parrucchiere, cose così. Mercoledì ho già finito di fare tutto. a allora: cucino.

Io non amo affatto cucinare, è tra gli obblighi quotidiani in assoluto quello che più detesto, ma mi rendo conto che a volte mi serve. Metto in moto le mani, è un lavoro che distrae la mente. Così inizio: ragù, tagliatelle fresche, salsa di fegatini, una torta cioccolato e pere (vegana) per me, una per mio padre, i nuggets di pollo fatti col pollo vero, la pizza a lunga lievitazione (che non so perché ma non vuole riuscirmi come3 cristo comanda, sono una frana con i lievitati, sarà che ho poca pazienza?). Finisco ieri sera con una crostata che l’Amico Speciale spolvera in quattro bocconi. Quell’uomo è un pozzo senza fondo. 

In realtà ho cucinato tanto perché sono impallata con il romanzo. Ho iniziato venerdì il corso di scrittura della Holden (sul romanzo, appunto) e il mio compito per la prossima settimana è scriverne il soggetto. Già sapevo che sarebbe stato quello il compito, così ho iniziato a pensarci già mesi fa. 

Conclusione? 

Voglio scrivere una storia autobiografica che non lo sia troppo però, qualcosa che sento, qualcosa che conosco, ma che non mi faccia troppo male rinvangandolo. Insomma, una tragedia. Il soggetto più confuso di tutti i tempi. 

Ma non demordo. Appena finita la lezione mi metto giù di brutto a scrivere e scrivere. Butto lì tre righe, cerco la Domanda Drammaturgica Principale, ok, ce l’ho, mi dico, può funzionare. Rileggo. Di una banalità allarmante. Ok, ci metto un po’ di pepe? Vai, ce lo metto! Riscrivo. Rileggo. Deboluccia, ‘sta trama, ma l’idea di fondo c’è. Ok. Può andare. 

Iniziano ad arrivare sulla mail gli altri soggetti, quelli degli altri 25 iscritti. Li leggo. Cazzo. Praticamente uno specchio del mio. Cazzo. 

Perfetto, cambiamo tutto. Inizio la riscrittura del soggetto (la decima?). Finito. Rileggo. Ok, così ci può stare. Arriva un altro soggetto sulla mail. Cazzo, cazzo! La prima cosa che mi viene in mente è: ma siamo tutte Desperate Housewife qui?

Pare di sì. 

Ok che alla fine, come diceva Forster, le trame sono solo due (Un uomo parte per un viaggio e Uno straniero arriva in città), ma insomma…

Rileggo il mio soggetto: ci sono entrambe le trame e questo mi sa che non va bene. 

Ma non demordo. Sarà il modo in cui racconto la mia storia a cambiare tutto! Sarò super originale, ci so fare con queste cose, no? Scriverò il mio romanzo come se fossero tanti generei diversi a seconda dell’argomento che tratterò capitolo per capitolo. Per intenderci: la mia idea è quella di scrivere un capitolo come fosse un romanzo rosa, un altro come fosse un giallo eccetera, mescolando i generi. 

Rileggo la mia super idea geniale. 

Evvabbè, Moon. Tu NON SAI come si scrive un romanzo di genere. Mi sa che è un progetto un po’ ambizioso, eh? 

Però l’idea era carina. 

Cazzo!

(Scusate il turpiloquio, ma c’ho l’ansia. Credo che andrò a fare le lasagne)

E sì che ero brava a scuola con i riassunti…

Bene bene bene.

La mia idea era di riassumere questi sei mesi, ma si sa, un riassunto è sempre una questione personale, di PDV, direi io. E di immagini, di fotografie, quelle che restano impresse nella nostra pellicola mentale. Avrei voluto solo belle foto, o foto belle. Vediamo cosa ne esce.

Febbraio:

C’è un furgone stipato di roba smontata: un letto contenitore dell’ikea, una cucina intera, rossa, di buona fattura, specchi, lampade, una scala con scalini di vetro fatta su misura, materassi, zanzariere comprate on line. No. Non è il mio furgone del trasloco. Io ho traslocato con la mia macchina, Winny, le scatole con i libri e tutto il resto occupano poco spazio. È la roba che viene portata via dalla mia vecchia casa: viene svuotata per motivi terzi ed è inutile che ve li dica: troppo lungo e complicato. Ma soprattutto non sono affari miei. Ci sono io, in piedi sopra il parquet, guardo le stanze tinteggiate da me sei anni fa completamente spoglie: la casa che mi ha accolto, il mio rifugio dalla tempesta, la spettatrice della mia rinascita ora è nuda, inerme. Le dico addio in silenzio.

Ale di fronte a me. Dall’altra parte del tavolo. È lì con me, allungando una mano la posso toccare, la vedo, con la sua nuova aria da folletto, come a dimostrarmi che è lì, nel paese dei folletti, che vuole stare. E io lo so che sebbene ci provi fino all’ultimo giorno, sebbene pensi pure di sabotarla, non posso fare a meno di amarla tanto da lasciare che se ne vada. Così da dimostrarmi che l’amore non è sempre egoista, dopotutto. 

Marzo:

I colori dell’arcobaleno volteggiano sulla mia testa. E sul mio lavoro. Vai a lavoro? Stai a casa? Ormai è solo una questione di scelte, non di obbligo. Mi dico: vai a lavorare almeno ti distrai. Credo sia la prima volta che lo penso. 

Aprile: 

Una Pasqua tutta per me. Nella mia nuova casa le vocine delle mie nipoti, i regali, il sole, i sorrisi. Un pranzo in famiglia che ho organizzato io, finalmente, senza stress. Ogni tanto essere in zona rossa è un bene.

Per l’occasione sto friggendo i supplì. Le polpettine di riso saporite sono dorate quando le scolo, finalmente lo scettro è passato dalle mani di mia madre, la Regina dei Supplì, alle mie: continuo così la tradizione di famiglia, con una ricetta, il riso e il pangrattato. 

Maggio: 

A Maggio nemmeno una foto. Né mentale né fisica… deve essere stato un mese pieno di lavoro.

Giugno: 

Io che guardo il carroattrezzi portarsi via la macchina di mio padre mentre mi scuso con i vigli urbani per lui, Si deve essere dimenticato l’assicurazione, scusate, ripeto. Ma so che c’è qualcosa di più. Decido di fare una cosa non proprio etica ma salvifica per il momento: nascondere la testa sotto la sabbia in stile struzzo e rimandare tutto a dopo l’estate.

Luglio:

Un castello stregato, un pranzo pieno di leccornie, una bella giornata di sole. Io e Little Boss ci prendiamo una giornata di respiro e ce ne andiamo a Fosdinovo con tanto di visita guidata, sulle tracce del fantasma che respira. O così dicono gli esperti fantasmologi… spettrologi? Occultisti? Ma come si chiamano? Ah: ghostbuster! Pranzo poi a Colonnata: slurp! E basta, solo slurp. 

Agosto: 

io e Little Boss al mare, a fare le signore, con pranzo al ristornate sulla spiaggia, lettini e tutto il contorno del mare che per una giornata spedi 100 euro. Semel in anno…, dicevano. Anche se il riferimento era per il Carnevale, se non erro.

Agosto però è anche la mia foto su un altro lettino, quello del Tizio che Che mi Scrocchia (T.C.S.) come diceva una mia collega (che non nominerò con nomignoli, tanto è già sparita: è durata come un gatto in tangenziale al Ristorante. Così va la vita). Al TSC ho lasciato un bel mucchio di soldi per nulla. ma va detto che in quell’ora di sedute da lui dormivo che era un piacere. Insomma tra Luglio e Agosto iniziano i miei problemi che portano, oggi, le mie papille gustative a tentare il suicidio: la dieta vegana! (ma la mia dieta non è solo vegana: ha altre restrizioni. Pure!). 

Agosto mi vede anche poco insieme all’Amico Speciale: quando io dormo (ogni volta che non lavoro in pratica) lui è sveglio; quando io sono sveglia, lui è a lavoro; quando io lavoro… bhe, lavoro. Quindi un gran casino. 

Settembre: 

Ahhh ( di sollievo). Le ferie. 

Le ferie mi vedono in Sicilia. Porto io lì la zona gialla. Ma chi se ne frega, Palermo è bellissimissima. Un clima rilassato, giornate perfette (né caldo né freddo, mai pioggia), chili e chili di fritto (panelle e crocchè, arancine), cannoli come se non ci fosse un domani, acqua talmente limpida che potevo vedere i pori del mio piede, edifici come la Cattedrale, il Palazzo dei Normanni… insomma: è stato un antipasto, cara Sicilia. Tornerò per il primo, il secondo e pure il dessert!

Settembre mi vede però anche impegnata in tutto quello che ho voluto tralasciare nei mesi passati. Mio padre è in cima alla classifica. E quindi un’altra foto di me mi vede in macchina fare su e giù due volte a settimana tra il Paesello sperduto dove abito e la Grande città di mare dove invece abita lui (3 ore di auto tra andata e ritorno). In questa immagine io guido la macchina come Fred dei Flinstone: avete presente, no? 

Il mese finisce con me una Moon disagiata, stanca e dolorante, che nel frattempo, oltre a una dieta, ha iniziato anche una cura farmacologica che spera funzioni (le altre cure provate? Acqua fresca. Sennò non tentavo il TSC o la dieta). 

Ottobre è appena iniziato. Già si preannunciano tuoni e fulmini, reali e metaforici. 

Certo, se viene giù metaforicamente l’acqua come realmente è venuta giù qui ieri sera… affogherò di sicuro! 

Un riassunto un po’ lunghetto, questo. La prof di italiano di Little mi darebbe un due. Spero che WP non dia i voti…

Storia di Wonderland

post 186

 

Ho passato un inverno piuttosto duro. Da settembre (mi) ero oberata di impegni e ho passato intere settimane a lavorare (anche dieci ore) e passare il resto della giornata a scorrazzare su e giù con Little Boss: corso di chitarra, yoga, canto, palestra due volte a settimana, il club del lettore… insomma, non avevo tempo per niente, ma soprattutto vivevo la mia vita come una maratona che dovevo vincere per forza.

Verso Gennaio ho cercato di staccare un po’ la spina, riuscendoci certo, ma lo stress e il nervosismo non sono passati del tutto. Aspettavo le ferie, che di solito facciamo a Febbraio. Ma quest’anno il mio Capo ha deciso di regalarci(mi) Wonderland, ovvero un laboratorio più grande dove lavorare. La storia di Wonderland è presto detta:

C’era una volta un Capo che aprì un Ristorante e si creò un laboratorio su misura. Lavorandoci da sola non aveva bisogno di molto spazio, senza contare che sapeva di poter fare solo alcune cose in autonomia. Passarono gli anni. Il Capo vide che i suoi prodotti andavano a ruba e decise di ampliare la gamma dell’offerta. Ma iniziò ad essere stanca di fare tutto da sola (giustamente). Ecco che in quel frangente arrivo io. Io e il Capo avevamo già lavorato insieme anni prima, ci conoscevamo ed eravamo piuttosto amiche. Nonostante le difficoltà del momento (mio)che forse un giorno racconterò, decide di assumermi. Almeno così mi riposo un po’, disse. Ma il Capo non è fatto per riposarsi, non ce l’ha nel DNA la parola riposo, e assumermi non fece altro che farla provare a fare sempre più prodotti, sempre più cose in autonomia. Io e il Capo riuscivamo ancora a destreggiarci nel vecchio laboratorio, nonostante lo spazio ridotto. Ma il lavoro, menomale, aumentò. C’erano giornate in cui era quasi impossibile per noi due riuscire a soddisfare la richiesta. Ed ecco che arriva il nostro amico Osaro. Osaro impara in fretta, riesce quasi a sostituire il Capo, che adesso può dedicarsi (manco a dirlo) a nuovi prodotti in autonomia. In pochi mesi riusciamo a distribuirci i ruoli: ognuno di noi si occupa di una gamma di prodotti con risultati davvero soddisfacenti. Ma. Ma, ovvio, nel piccolo laboratorio non c’entriamo più. Ora siamo in tre e si gioco da una parte al contorsionismo (abbassati che butto la teglia nel forno!), dall’altra ci litighiamo le attrezzature (ehi, l’abbattitore serviva a me, ORA!). Il Capo si rende conto che andare avanti così è impossibile: non abbiamo posto per stoccare tutta la roba che produciamo ed è impossibile farla giorno per giorno (anche se alla fine è proprio quello che facciamo). Per il mio compleanno, un po’ scherzando un po’ no, chiedo al Boss, il marito del Capo, un banco tutto mio sul quale lavorare. Il Boss dice che butterà giù lui il muro, Tranquilla, mi fa, piano piano la convinciamo, il Capo. Beh, alla fine il Boss ha potuto fare poco perché il Capo aveva già deciso. E allora ecco i pomeriggi passati con il progettista, tutti e tre chini sul nuovo progetto di Wonderland. Io lo vedo e già sbavo: nuove attrezzature, tanto spazio che puoi pure pattinarci lì in mezzo, ma soprattutto,un banco tutto per sé (scusate la citazione Woolfiana). Passano due mesi e le cose si fanno complicate: permessi, ordini, il prezzo finale lievita, non c’è modo di abbassare i costi se non riducendo i macchinari, tutti indispensabili. Il Capo sta pensando di rinunciare. Troppi soldi, devo pagare dieci persone che lavorano qui, ho paura di non farcela. Io la capisco, sul serio, ma penso a quanto potremmo guadagnare riuscendo a ottimizzare il lavoro, cerco di farle capire (con la diplomazia che mi contraddistingue) che è un investimento che vedrà nel tempo, ma un investimento giusto, ma il Capo ancora tentenna. Ed ecco che arriva l’esercito che cambierà tutto: i cavalieri dell’ASL. Un bel controllo a sorpresa, una mattinata a guardare gente con tutte e mascherine (un presagio di quello che accade adesso) che infila il naso in frigoriferi, scatole eccetera. Ovvio che tutto il casino lo trova nel minuscolo laboratorio. Fate troppi prodotti in uno spazio ristretto, decretano. Non credevo che i cavalieri dell’ASL fossero persone assennate, li ho sempre visti come vampiri sputamulte, ma stavolta li amo, li adoro. Così il Capo gli mostra il progetto. I cavalieri annuiscono felici, Ok, fate i lavori e poi torniamo a dare un’occhiata, Niente multe, nemmeno uno scappellotto. E ora il Capo è costretto a fare Wonderland. Siamo però già a Gennaio. Dopo un paio di giorni veniamo a sapere che prima di fine Febbraio non riusciremo a iniziare i lavori. Ok, ferie a Marzo, penso. Poi si passa a inizio Marzo, poi si va al dieci. Queste ferie non arrivano più. Ed ecco che in questa fiaba arriva l’Apocalisse. Incredibilmente riusciamo a chiudere solo un giorno prima del decreto, giusto in tempo con l’inizio dei lavori. Che fortuna. Per il lavoro, dico.

E quindi nulla, ora una schiera di muratori sta costruendo Wonderland, proprio mentre scrivo, subiranno qualche ritardo, credo, ma i tempi erano comunque lunghi. Riapriremo in piena crisi (di turisti, con i quali lavoravamo molto), con i debiti e una moltitudine di persone spaventate. Ma sono ottimista, io. Credo nel progetto. Sono sicura che Andrà tutto bene, anche senza fare striscioni.

Certo, all’inizio mi girava un po’ perché sono costretta a passare le mie uniche ferie dell’anno confinata in casa. Avevo anche già un biglietto per questo venerdì per andare da Ale, nel paese dei folletti, mi ero organizzata con amici per andare a Torino qualche giorno con Little Boss, avevo detto all’Amico Speciale che avremmo sfruttato quel buono alle terme che mi hanno regalato per il compleanno. Dopo un inverno duro avrei tanto voluto godermele, queste ferie, staccare un po’…

Ma va detto che, dopo una settimana, me ne sto facendo una ragione. È proprio vero che ci sia abitua a tutto

Dejà vu

post 160

 

 

È una specie di dejà vu.

Ultimo giorno di lavoro prima delle ferie, ovviamente il più terribile dell’estate, clienti come se piovesse, ci manca una persona, dieci minuti prima della chiusura della cucina arriva un gruppo di 15 (!) spagnoli: dieci pizze. Chiamo Osaro, Help me, please! It’s my job, fa lui, e corre. Siamo come la Juve, dice il mio Amico Cacciatore che ogni tanto compare in questi articoli (e lo chiamiamo Gipo, diamogli un nome, a questi amici), lui inizia a stendere, io condisco poi faccio Finish! E lui inforna. Siete una bella squadra. Io non mi intendo di calcio, ma in effetti pare che lo sia, a parte ciò che dicono gli Interisti.

E beh, alla fine saluto tutti, Buone ferie! Divertitevi! Bacio sulla guancia anche Micro(bo), un abbraccio a Sbiru, a Lù, alla Cuoca, a Osaro.

Corro a casa a prepararmi per la festa di mia nipote.

E ormai io e Little Boss siamo d’accordo: le ferie non possono iniziare senza la festa di compleanno di mia nipote, ormai cinquenne.

Il tema di quest’anno? Indiani e cowboy.

La differenza dall’anno passato? C’è anche l’Amico Speciale a godersi i bambini urlanti. Mi chiedo come si troverà, mica è abituato a queste cose, lui, e invece mi sorprende: sempre a suo agio, l’Amico Speciale, chiacchiera con i miei, chiede ai bambini di fare una gara di urli, prende un po’ in giro Little Boss, che quest’anno non si schioda dal mio fianco, forse si sente troppo grande ormai per giocare. Trovo a un certo punto la ragazza dell’anno passato, quella incinta di sei mesi: lei e Woody hanno sfornato proprio un bel pargoletto. È più vispo di suo fratello, dice, e io rabbrividisco per lei, visto che l’altro suo figlio, quello grande, è di nuovo attaccato alla casetta, urlante: forse c’è dall’anno passato, chissà.

E di nuovo (sembra quasi incredibile) mi trovo di fronte a una conversazione sulla differenziata che vede partecipi mio padre e mia madre… davvero non capisco. So che non possono parlare di politica, so che non possono parlare del loro privato, ma è possibile che non si rendano conto che parlano sempre e solo di spazzatura? Non potrebbero discutere, che ne so, di cucina?

Meno male che poi arriva l’Amico speciale e inizia a raccontare del suo anno di militare: una conversazione nuova per la mia famiglia, né mio padre, né mio cognato, né il mio ex avevano storie da naja nel loro repertorio.

Taglio della torta e, come da copione, tutti a casa, domani si parte per le ferie io e Little Boss, Riviera romagnola quest’anno, ho prenotato in anticipo e trovato una super offerta (io ho il radar per le vacanze cheap). Stavolta l’Hotel (con mezza pensione) è talmente cheap che ho paura che la sera mi chiedano di fare un paio d’ore di lavoro al ristorante… speriamo bene.

Inoltre il meteo pare che non sia dalla nostra. Una settimana di acqua piena, dice, ma si sa, i Bernacca di questi tempi non sono poi così attendibili, forse qualche ora si salverà.

E poi, come ogni anno, l’importante è cambiare aria, e stavolta cambio pure mare. Ho almeno un paio di cose in programma: fare un selfie con Little Boss a San Marino (per rendere noto al mondo che abbiamo lasciato l’Italia durante queste vacanze, disobbedendo all’ordine imperativo del mio ex che non mi permette di farla espatriare), e un’alba dal mare.

Quasi pronta alla partenza, non mi resta che finire le valigie e saltare in macchina.

Ah sì: devo svegliare Little Boss!

Ci risentiamo tra una settimana.

E ora Via! Verso l’infinito e oltre!

Le cose che vuoi ma non vuoi

post 101

 

Ancora ferie.

Ne parlo come fosse una condanna e in fondo c’è una parte di me che lo pensa. Questi giorni fatti di nulla mi costringono a fare (è la mia natura), a pensare a cosa fare per la precisione, e sono stancanti. In ferie in questo modo io mi stanco.

Ieri alla fine mi sono fatta una gita, ho preso il treno e sono andata a Firenze. Una mostra di Bansky, un giro alla Piccola Farmacia Letteraria, il mercatino di San Lorenzo, il Duomo. C’era il sole, una giornata splendida per camminare, che alla fine è quello che ho fatto, ho camminato, le cuffie nelle orecchie come un’adolescente, il sorriso stirato in pasticceria. Mentre passavo da Ponte Vecchio ho rinunciato al racconto. Quello del narcisista covert, quello per la raccolta sui disturbi patologici. Pensavo ai lucchetti, ma non ho guardato se ce ne erano, non so perché. Eppure me lo ero riproposto. Pensavo ai lucchetti dell’amore, a una promessa chiusa a chiave e messa lì, su un ponte che ha mille anni come minimo. Mi sono detta che le promesse hanno bisogno di simboli, qualcosa di materiale a cui attaccarsi.

Anche io avevo promesso. Certo, non in modo solenne, ma avevo detto che ce l’avrei fatta. E poi invece no. Invece no. Lo Shogun mi manda un messaggio e mi chiede se sto bene. Incazzata? Triste? Ma no, sto bene, alla fine è la verità. Non mi pento di aver rinunciato, l’ho fatto per motivi giusti, mi pento di aver mancato alla promessa con me stessa. Un altro Se vuoi puoi mancato, ma forse mi dico che non lo volevo.

È strano pensare alle cose che vuoi ma non vuoi. Mi sembra il riassunto della mia vita. O magari è una scusa che mi do in perfetto stile La volpe e l’uva. Non ci arrivo. Ma tanto non la volevo. E allora la domanda che mi faccio è come si fa a scavalcare i trucchetti delle nostre menti, le piccole trappole in cui cadiamo per giustificare le nostre azioni? Come si fa a capire quello che davvero vogliamo?

Che forse non me lo chiedo nemmeno per me, alla fine, ma me lo chiedo per altri. Per mia madre (Ma tu, dalla vita, che vuoi?), per l’Amico Speciale (Devi capire cosa vuoi). Sarebbe tutto più facile se capissi all’istante e decidessi fermamente (questo aggettivo è orrendo: non dovrei permettermi di usarlo).

E invece ci sono delle cose che voglio ma non voglio. Forse perché magari ne voglio solo un pezzo, dell’intero così com’è non me ne faccio di nulla. Magari voglio solo pezzi di realtà perché tutta insieme mi investirebbe. O magari è solo il mio modo per non stare nella Zona confort, un auto sabotarmi continuo. Come si decide qual è la verità?

E allora ecco che torno sempre lì, torno sempre a pensare che non esiste La verità, ma solo Una verità, una delle tante possibili, una che sia accettabile per farci andare avanti per la nostra strada o per decidere di tornare sui propri passi. E in questo stato di relativismo cosmico mi rendo conto che però tutto è possibile e accettabile o al contrario, tutto può essere inaccettabile e impossibile. Quindi la mia teoria ha una falla. Tutto non può essere il contrario di tutto.

Torno al punto e mi chiedo: perché hai rinunciato? Lo volevi o non lo volevi? Il mio cervello risponde che non lo sa. Ho deciso con la pancia. Ho deciso pensando ai lucchetti. E ora mi sento più libera.

 

Mal di spazio

post 96

 

Ecco come è andata: mi metto qui a scrivere circa un’ora fa. Voglio buttare fuori delle cose, come sempre, per definirle, per capire.

Ma scrivo della merda.

Sarà la compilation Un the e un libro di Spoty. Che in effetti è un po’ poco incisiva, un po’ moscetta, un po’ intonata più alla me di questo fine settimana che alla me che voglioessere ora. E c’è una versione di Brown Eyed Girl che è molto dolce, certo, ma mi fa venire il latte ai ginocchi.

E invece la musica del momento è l’originale di Van Morrison. Così la metto. Assolutamente. Mentre il libro del momento è del mio idolo Watzlawick, Istruzioni per rendersi infelici.

E allora ecco che non ho bisogno di definire delle cose ora. Stasera. Ho già definito troppo. Pensato troppo. Seghementaleggiato troppo. E allora Rossella docet: maana, ragazza.

O magari anche dopo le ferie, che ci siamo, eh, domani è la mia domenica, ma poi inizia l’ultima settimana. E poi ho due settimane e mezzo di stop.

E stamani sono entrata a lavoro con trentacinque minuti di anticipo. E il mio capo, quando mi ha vista mi ha detto: come farai ora, con le ferie? Una cliente ha invece chiesto: ma non hai da fare a casa? Un altro ha scosso il capo e ha riassunto: hai dei problemi.

Come se non si fosse capito.

Quindi per me le ferie, specie queste, a Febbraio, non sono proprio una manna dal cielo. Little Boss ha la scuola e non la vedo per tutta la mattina. E poi, per poter avere almeno i fine settimana interi con lei, devo concedere al mio ex i pomeriggi, o le notti. Il che si risolve in: tanto tempo libero. Troppo. L’anno passato ho quasi finito un romanzo. Bella cosa se il romanzo non fosse stato il peggior romanzo della storia del romanzo.

Non ripeto l’errore.

E per ora ho programmato solo tre dei lunghissimi 18 giorni. Una gita fuori porta. Fuori parecchio. Vado in Giappone.

E sarà quel che dio vorrà. O chi per lui.

Intanto penso a come è buffa la vita che sceglie i momenti più sbagliati per bussare alla porta e per fare la voce grossa. Tutto si concentra sempre. In pochi giorni arrivano le bombe d’acqua e ti annegano. Ho scritto buffa, è vero, ma in questo caso dovrei dire stronza. O la stronza sono io, che ho fatto Rossella per troppo tempo. Ce l’ho di vizio di rimandare i pensieri scomodi. E la stronzaggine si paga sempre.

Pagherò anche quella di stasera, ho idea.

Intanto, pensa pensa, a una conclusione ci sono arrivata.

Non posso tornare indietro e non posso stare ferma.

Il Moonverso si sta muovendo veloce e mi fa venire un po’ di mal di spazio.

Devo prenderne atto.

Sognare non costa nulla

Post 51

Il campanello d’allarme è suonato oggi: sono stanca. Molto stanca. Troppo stanca. Ci saranno persone che mi diranno che essere stanche dopo turni di 10 ore di lavoro quattro giorni su sei, andare a prendere Little Boss a musica, portala alle lezioni di yoga, stare(seppur poco) dietro alla casa, alla macchina, scrivere, vedere gli amici eccetera forse alla fine porta a un po’ di stanchezza. Mio padre mi ha sempre detto, sin da ragazzina, che pretendo troppo dal mio corpo. Ma il mio corpo ci è abituato. Quello che voglio dire è che ci sono cose che ho sempre fatto e ora, invece, sono stanca da due settimane sole. E non può certo essere che la stanchezza corrisponda al compimento dei 40… sarebbe la cosa più assurda del mondo. 

Quindi mi devo trovare un’altra spiegazione. 

All’Amico Atipico ho detto che forse ho tirato troppo la corda. 

Il mio capo mi ha detto che se campo a sigarette e caffè non posso aspettarmi altro.

Mia madre dà colpa a quel famoso esame che non va.

Fatto sta che non riesco a fare molto di più che lavorare (e a fatica), gestire la piccola, tornare a casa, cercare di scrivere due cazzate, e dormire. Stasera avrei voluto essere a Pistoia (L’anno che verrà), o in alternativa a un evento teatrale a casa di un amico, o in alternativa pure al piccolo concerto rock che ha organizzato la Proloco proprio sotto casa mia(talmente proprio sotto che gli sto anche dando la luce per le casse). Ma sono appena le quattro e mezzo del pomeriggio e io sono distrutta. Ho fatto la doccia, e nemmeno alla cena riesco a pensare: vorrei andare a letto subito. E so già che anche domani sera sarò knock out. E quindi salterò anche la presentazione del libro di un altro mio amico. 

Vabbè, dice il moon neurone solitario: è un periodo. Il problema è che non so proprio dove tagliare le energie per poterle recuperare. O come farmene venire di nuove. 

Quindi navigo a vista, come sempre, facendomi girare le balle per le cose che non posso fare e incolpandomi di essere una mammoletta. 

Per le prossime ferie devo aspettare Febbraio. E devo ancora decidere dove andare. Ho in progetto Torino, a casa di amici di mio padre. Milano, a casa di mia zia. Ma i progetti per partire sono sempre inversamente proporzionali ai soldi che avrò. 

Ma sognare è concesso, no? 

Quindi sogno di poter fare entrambe le cose, e poi di prendermi altri tre giorni per vedere un posto che non ho mai visto qui in Italia, e poi portare Little Boss al famosissimo museo della scrittura e magari farci un salto di nuovo a un parco giochi, e perderci un giorno intero in una libreria, che io e lei, se entriamo in libreria, ci sta che ne usciamo pure con il proprietario, e poi portala a mangiare il tartufo, che le piace tanto, e poi sogno un week end da sola, magari alle terme, che adoro, basta che non mi facciano i massaggi, che quelli li voglio solo da mani che conosco, e poi sogno un giorno intero in un bosco, solo io e io, di nuovo, ascoltare i suoni della natura, perdermi (non letteralmente, ovvio), sedermi sotto a un albero per risposare, ascoltare il mio cuore in silenzio, lontana da tutto e tutti. 

Sì, sognare non costa nulla…