Per fare un tampone, non ci vuole il Covid, per fare il Covid, ci vuole poco

Era molto tempo che non scrivevo di mattina. 

Sarà che i miei giorni liberi ultimamente li ho sempre passati rincorrendo questo o quello. 

E ora sono di nuovo a casa, il Ristorante ha chiuso i battenti per mancanza di personale, tutto sottoposto a quarantena preventiva. Un eccesso di zelo, direi, dato che per adesso nessuno dei contatti dei miei colleghi è ancora risultato positivo. I tamponi non si trovano, le asl sono intasate, i medici non rispondono al telefono perché oberati di richieste. Siamo il risultato dei titoli dei giornali di questi giorni: l’economia bloccata dalla quarantena di gente che in realtà sta bene. 

Ieri mattina io e Little siamo partite per farci un tampone. Avevo chiamato la sera prima la farmacia e, dopo sei tentativi, sono riuscita a parlare con qualcuno.

Salve, le faccio una domanda che di rado le faranno in questi giorni. Tamponi?,ho chiesto.

Lei ha riso e ha detto: può venire dalle… alle… senza prenotazioneLa fila è lunga ma scorre.

Esaustiva al punto giusto.

E in effetti la fila era lunga, invadeva tutto il parcheggio, a occhio e croce avremo avuto una sessantina di persone in fila davanti a noi. Io e Little ci siamo messe buone buone ad aspettare, Little cercava di leggere il suo libro, io mi sono trovata a far conversazione con quella davanti e quelli dietro. Dietro di noi c’era una coppia di persone anziane, lui sordo come una campana, lei mite e silenziosa. Dopo poco ho sentito lui dire, Non hai messo la mail sul foglio! Devi tornare dentro (la farmacia, NdR)per prendere la penna

Allora io, che non mi faccio mai i cazzi miei e ho un esercito di penne nella mia super-borsa-arma contundente-che può uccidere all’occorrenza, le ho porto la mia. La signora ha scritto la mail appoggiata al muro, me l’ha resa, l’ho rimessa nella borsa. 

Nel frattempo la ragazza davanti a noi parlava al telefono con mezza Toscana, più o meno. Incazzata come una mina e con un cappottino peloso rosa pastello che lei stessa ha definito da Diva, sentivo che parlava di uscire dalla quarantena.

Ma dai che ho solo avuto un po’ di febbre, ora faccio il tampone ed esco, eccecavolo! Non possono tenerci in galera! Si gira verso di me e fa l’occhiolino. Sorrido forzata e faccio un passo indietro. nessuno mantiene le distanze, nessuno le fa mantenere. Solo in quel momento realizzo che la ragazza davanti a me potrebbe essere ancora positiva. Facendo il passo indietro mi trovo più vicina alla coppia di vecchietti Sordo-Mite. Sordo mi dice che loro hanno tre dosi, ma vogliono essere sicuri, fanno un tampone solo di controllo. Sa, noi vediamo i nipoti, aggiunge. Giusto, gli untori, i no vax non per scelta ma per mancanza di possibilità (per ora), l’anello debole della catena vaccinale. 

Durante l’attesa qualche animo si scalda (scusate la banalità da tabloid), una donna urla contro il personale che fa i vaccini, loro rispondono a tono, ma mi perdo gran parte della baruffa perché sto cercando con Little la traduzione di moose in inglese e non ci torna che un moose (alce) possa entrare nella dispensa di Rapunzel (Sta leggendo un libro in inglese che pare sia la trasposizione letteraria del cartone animato, Rapunzel; o forse è il cartone animato a essere la trasposizione cinematografica del libro, non lo so, non abbiamo approfondito). E mentre le dico che forse gli è scappato un refuso e la parola è mouse (topo), Sordo mi batte sulla spalla e mi chiede: che ha detto?

Non ero attenta, scusi. 

Eh, fa lui, la gente ora è nervosa, non vorrei essere nei panni di quelle infermiere (che forse infermiere non sono, ma vabbè, non puntualizzo). 

E sa quale altro mestiere non farei? Il barista. Essere barista ora…

Eh già, rido sotto i baffi. Lo so bene!

Ah, scusi! Lei fa la barista?

Tra le altre cose…

Ha sbagliato lavoro! Se faceva l’infermiera ora aveva il lavoro assicurato!

Sorvolo sull’illogicità delle sue ultime battute e tocco ferro di nascosto per la gufata sul lavoro. 

Finalmente tocca a noi. Due minuti e siamo fuori entrambe. Ci appostiamo lì vicino per attendere il risultato. 

Nel mentre notiamo uno schema ricorrente: alcuni vengono chiamati a gran voce dall’interno della tenda. Per altri un operatore esce e comunica sottovoce qualcosa con la faccia seria. Anche l’ultimo degli stupidi capirebbe la differenza. Quando chiamano il mio nome a gran voce tiro un sospiro di sollievo. Riprendo la tessera sanitaria e aspetto il risultato di Little. Nel mentre viene chiamato Sordo (non li processano in ordine). Sordo non sente il suo nome, ovvio, Mite lo redarguisce, Sordo esce dalla tenda e dice: olè, sono apposto. Poi esce il tizio compassato e chiama Mite. Le sussurra qualcosa, i due spariscono nella loro utilitaria rossa e sgommano via. 

Little Boss!, urlano da dentro la tenda.

Ok, siamo salve. Per ora.

La penna, mamma, buttala via, dice Little. 

Confesso: mi sono lasciata impanicare per almeno mezz’ora. Poi grazie al cielo il cervello ha ricominciato a girare in senso orario. 

Ma al gruppo whatsapp del lavoro ho mandato un vocale che era più o meno così:

ok, io e Little siamo negative. Ma quella dietro di noi era positiva. Ergo: si rischia più ad andare a farsi un tampone che ad andare a lavorare.

Detto ciò io sono libera da impegni di lavoro e quarantena. Ma in ogni caso stamani non mi decido a uscire…

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Ma che disperazione

 

 

Ho il cervello intasato. Tanto pieno che le idee non si muovono, c’è traffico, la fila, i lavori in corso. E continuo a modellare idee, senza sosta.

Riapriamo il Ristorante tra poco. bisogna rifare tutte le preparazioni. Già. Ma quali? Dopo quattro mesi non ricordo cosa facevo, come lo facevo, quando lo facevo. Con chi lo facevo, invece, sono certa: io e io.

Cosa fare? Il mio campo, uno dei miei campi per l’esattezza, o il campo in cui voglio finire, ancora più esatto, è la pasticceria: siamo in estate: gelati, semifreddi, sono un vomitatoio di nuove proposte. Un tartufo gelato con scaglie di nocciola e cioccolato? Un mignon con una crema anidra al limone autoprodotta? Un semifreddo al tiramisù? Una monoporzione al mango e panna?

Ho TROPPE idee.

E non solo per il lavoro pagato.

Le idee fioccano anche per il lavoro gratis d’amore dei.  La scrittura. Sono nella fase due del mio romanzo, una riscrittura capitolo per capitolo, cercando di migliorare, arricchire e correggere la trama. La notte prima di dormire mi vengono delle frasi e per ogni parola immagino la sua composizione sulla tastiera. Poi accendo la luce, prendo il blocchetto celeste sul comodino, con il nome giusto, Toughts I need to write before I fall asleep (l’ho comprato da Tiger? Da Willy? Maledetto Alzheimer precoce!) e scrivo delle note che al mattino non riesco a leggere. Chi non legge nella sua scrittura è un asino addirittura, dice sempre mia madre.

E poi la mattina alle sei la sveglia suona, mi rigenero con il caffè, metto le dita sulla tastiera e vado. Vado. Vado. Sto correndo come Forrest Gump prima di togliersi le protesi. La speranza è quella di arrivare a ottenere una maglietta gialla da sporcare con lo smile (se non avete riferimenti, guardate/leggete Forrest Gump: ne vale sempre la pena).

Dopo le otto spengo il pc, infilo una tuta e dedico il cervello intasato al lavoro: pulire, sistemare, riorganizzare. Nuovo ricettario (in word, stampato e sistemato), nuovo menù (scritto e organizzato), nuovo laboratorio di lavoro, con 5 macchine in più, tutte da imparare, da studiare, da usare, soprattutto.

Ho il cervello intasato.

Norme HACCP, nuove etichette, nuove procedure, il Covid e le mascherine, sanificare, i fogli per conservare i dati dei clienti, le strisce in terra. E poi la pubblicità: nuovi post sui social da creare, fidelizzare il cliente, prodotti più belli (ma sempre buoni).

Ma questo cazzo di posto è mio?, mi chiedo. Eppure non riesco a farne a meno. E mentre domani i miei colleghi dormiranno beati nei loro letti, io sarò ancora lì, a vedere di sistemare la bilancia, di ordinare il magazzino, di fare la lista per i fornitori.

Mi faranno santa? Non credo.

Mi faranno tonna? Più probabile.

E mentre scrivo tutto questo, il mio unico pensiero va a una carella di Word, nominata genericamente Romanzo. Senza titolo, ancora. Non vedo l’ora di rimettermici. Anche se so che devo cercare di non correre troppo, non troppe parole al giorno, perdi mordente, Moon, dopo le prime 5000 parole.

Il tuo romanzo mediocre. Il tuo piccolo un po’ deforme. Ma il tuo primo piccolo.

Ma che disperazione nasce da una distrazione.

Avere questa gioia nello scrivere… non ha prezzo.

C.A.T.I.: Contenuto ad Alto Tasso di Incazzosità

 

NOTA INIZIALE: SE NON FOSSE STATO PER ADRI CHE MI HA AIUTATO PER UN’ORA E PIU’ A RECUPERARE QUESTO FILE CHE AVEVO CANCELLATO PER SBAGLIO NON AVREI PUBBLICATO NULLA: PRENDETEVELA CON LUI 🙂

(Questo contenuto è ad alto tasso di incazzosità. Vietato alle persone suscettibili, positiviste e anche alle moraliste: a quelle, ai moralisti- o moralizzatori, meglio-, mi sa che tutti i miei contenuti sono vietati. A prescindere)

 

Ho bisogno di fare una pausa 2. La vendetta.

In realtà stavolta non stavo scrivendo, per oggi ho già dato le mie parole. Sul prestino, verso le 5.30 più o meno. Le cose a lavoro stanno ripartendo. Ieri sono stata lì tutta la mattina a lavare i piatti e i pensili, stamani corso aggiornamento HACCP.

Il corso di aggiornamento di solito è una cosa un po’ ridicola, dura tre o quattro re (non ricordo) e per la maggior parte del tempo il docente ricorda: lavatevi le mani. Vista la nostra storia recente e tutti i video della D’Urso ormai metà del lavoro del docente HACCP è vanificato. Così per riempire le ben 12ore di corso ( e non chiedetemi perché sono finita in un corso completo, che lo so che di solito la completezza è un bene, specie se non la paghi, ma stavolta dovrò dissentire), il docente è costretto a: ripetere le stesse cose come un’idiota; allungare i tempi della pausa caffè; fingere che l’audio non vada e che lui debba resettare non so quale impostazione sul pc.

Ora, va da sé che questi corsi sono via Skype (o altre piattaforme similari). Le uniche cose buone di questo Covid sono proprio corsi (inutili) e riunioni (fittizie) fatte via web, le ricette mediche inviate per Whatsapp, la possibilità di non fare cene di classe in stile Fine corso, la possibilità di andare dal dentista con un appuntamento vero, senza dover aspettare ore e ore che sia il tuo turno: ora il dentista gli appuntamenti deve rispettarli.

ma sebbene questi corsi siano tendenzialmente tediosi anche dal vero, via Skype sono peggio. Stamani ho visto e sentito (in ordine): la fidanzata/moglie di qualcuno passare con un baby doll dietro al partecipante ( e dopo gli ha pure vuotato la spazzatura che era sotto la scrivania); la conversazione privata di un altro che parlava del suo problema personale con la figlia adolescente (sempre mentre “faceva” il corso); gli occhiali orribili della mia collega che invece seguiva col telefonino in riva al mare (della Sardegna, quindi pure bellissimo e desertico mare); una donna misteriosa che si faceva gli affari suoi parlando con chissachì: clienti? Amici? Familiari? Era comunque una conversazione concitata; un’altra tizia che si mangiava le unghie come se non ci fosse un domani; l’ultimo, invece, che alla fine è uscito di casa e si è messo pure il casco, infilando il telefono in tasca (immaginate il fruscio) e andandosene via in motorino.

Ora, già ‘sta roba, così, è dannosa al cervello di normale. Se poi aggiungi la modalità in cui è fatta poggi sulle mie spalle anche il famoso carico da 11.

Alle dieci (il corso iniziava alle 9) ero già enormemente scoglionata.

Oltretutto non l’ho seguito da casa (magari mi sarei alzata anche io, come metà della gente, e mi sarei fatta un caffè o mi sarei fumata una cicca), ma dal Ristorante. Il mio Capo ha avuto questa idea geniale: tutti insieme, così chi non ha dimestichezza col pc è a posto. Il docente l’abbiamo messo in modovisione collegando il pc allo schermo della tv.

Siamo solo alle prime 4 ore (di 12, ripeto)e io già non sopporto più il docente. Si dimentica le cose da dire, non carica le slide come promesso, non gli frega una cippa se qualcuno, nel frattempo, ha attivato il frullatore a immersione e disturba tutti, se gli facciamo delle domande gli servono 8 ore per rispondere (ma non era il suo campo? Lui risponde: è tanto che non faccio corsi, sono arrugginito). Fanculo.

Una unica risposta incazzata. Fanculo.

Fanculo al docente che guadagna per non fare un cazzo.

Fanciulo alle linee guida per la ristorazione che non hanno logica.

Fanculo, soprattutto, alle linee guida Covid, che cambiano da una settimana all’altra, impedendoci di abituarci a queste. Oggi plexiglass sì, oggi no; oggi guanti sì, oggi no.

DECIDETEVI.

Eccheccazzo.

Alla fine sull’incazzatura mi sono putre limitata. Come sempre. Deve averci messo lo zampino il mio amicoperlapelle: il Censore.

 

 

Chi ha scelto chi?

post 193

Ho bisogno di una pausa.

E come fare una pausa dalla scrittura se non scrivendo?

Sono diventata la caricatura di me stessa.

Il fatto è questo, e lo dico in breve: sono quasi 4 mesi (4!!!) che sono a casa senza fare nulla; ho passato le giornate a trascinarmi, triste e ansiosa, in giro per casa, in perfetto stile zombie; ho incrementato le mie capacità culinarie (non è del tutto vero: ho messo in pratica, più spesso del solito, quelle tre cose che so fare, eliminando la Fiera del precotto dal frigo- citazione di Venkman); mi sono esercitata davanti allo specchio per riuscire a fare una perfetta Boxer braid (con scarsi risultati); ho consumato la televisione, fatto quasi fuori il Tolino e comprato (sigh!) perfino un paio di giochi sull’Iphone (Room non era poi così male… solo che mi ha fottuto la batteria).

Insomma: quanto tempo avrei avuto per scrivere quel dannato romanzo di cui parlo sempre da anni e anni?

Ma, dicevo a me stessa, perché non ti ci metti adesso, che hai tempo in quantità?

E non è che all’inizio, non ci abbia provato. Mi ero fatta uno schema mooolto approfondito, seguendo il mitico Vogler, cercando di pensare a una storia decente. E si vede che la storia non era poi così decente, perché è naufragata prima di prendere il largo, a pagina 2.

Mi sono data una spulciatina ai file nel computer, oggi: lì dentro ci sono ben 4 romanzi iniziati (una delle cartelle si chiamava Con poca speranza e quindi immaginate il contenuto) , il più lungo dei quali conteneva ben 13 capitoli. Insomma, quello era il mio record, 13 capitoli, poco più di 13 pagine, a tutti gli effetti. Non un granché.

Parlando con il Mentore, non molto tempo fa, mi sentivo piuttosto scoraggiata, affranta direi. Non ricordo se l’ho detto anche a lui, ma di certo l’ho pensato: basta con la scrittura, devo mettere un punto a questa storia, ho scritto dei racconti, è vero, alcuni sono stati pubblicati (gratis) in riviste non poi tanto male, ma si tratta, comunque, di roba scritta più di 5 anni fa ormai. L’ultima mia produzione (finita) era il racconto del disturbo psicologico, mai consegnato alla casa editrice oltretutto. Credo (devo ammetterlo a me stessa) che il colpo di grazia me lo abbia dato l’ultima rivista a cui aveva mandato l’opera, che ha rifiutato il tutto. Ok, non so incassare i rifiuti: vedrò di lavorarci su.

E quindi ok, non ho pensato più a scrivere da quel momento, con la frase classica: meglio utilizzare il mio tempo a leggere buoni romanzi, piuttosto che sprecarne per scriverne di pessimi.

E fin qui tutto ok. Avevo rinunciato. Capita. Insomma, dopo dieci anni se i risultati non arrivano (non a livello di pubblicazione, ma di produzione proprio), allora forse la cosa non fa per te.

E poi è successa una cosa, poco più di una settimana fa.

Una storia ha bussato alla mia porta, così. Senza avvisare. Una storia che in verità non ho scelto (o meglio, una storia che non sceglierei), ma era lì, bellina chiara, limpida e così, per sfida, ho voluto fare una prova. Mi sono detta: tu prova a iniziare, e poi vedi. Se non continui pace, torni a essere quella di prima. Che ci rimetti? Non hai ancora un cavolo da fare!

Ho iniziato. E il primo giorno ho solo pensato. Senza scrivere. E più pensavo e più la storia era definita. Il giorno dopo ho iniziato. Dieci pagine. Bene, mi sono detta. Ma sugli inizi ero già navigata, come ho detto.

Il giorno dopo 12 pagine. E quello dopo altrettante. Insomma, stavo procedendo a vele spiegate, come un treno e la storia (e questo ha dell’incredibile) non stava perdendo forza, non stava sfumando, incasinandomi il cervello per trovare soluzioni. Anzi.

E quindi no, non sono qui a cantare vittoria, ma in una settimana ho scritto praticamente metà romanzo. E so esattamente cosa ci va dopo, per intenderci, la strada per arrivare all’epilogo.

A prescindere dal risultato che sarà, in generale (revisioni a parte, la storia poi magari mi sembrerà banale, i personaggi poco definiti, lo stile scarso?), quello che per me conta è finirlo. E siccome ancora non l’ho finito…

Ma queste pagine mi rendono esaltata, sono entusiasta del lavoro (per ora) e mi rendo conto che se mi vengono delle domande ansiogene in testa (Arriverà la cassa integrazione? Riuscirò a pagare l’affitto? E l’assicurazione della macchina? A cui oltretutto dovrei cambiare la guarnizione di testa, cazzo?) la mia risposta è una sola:

macchissenefrega! Sto scrivendo (e qui ci sta bene uno smile).

Quindi questa cosa che ho sotto le dita, questo romanzo ( o cosa sarà) sta già facendo un buon lavoro, no? E io, beh, mi diverto a scriverlo, sul serio. La schiena si lamenta, a volte, ma torno alla tastiera volentieri e anzi, a volte mi impongo di smettere per non bruciare tutto a causa della stanchezza.

E quindi sì, è davvero da morir dal ridere, come ho scritto a Ale: tra poco rientro a lavoro (la prossima già inizieremo a fare qualcosa) e io ho scelto questo momento per scrivere il romanzo.

Ma forse ha ragione lei, sempre Ale, forse è una manovra di Ispirazione (una dea a cui non credo).

O forse la storia ha scelto me.

 

 

 

Della breve uscita con Little e altre amenità da Covid

post 210

 

 

La candeggina. È tra gli odori che sento di più. Viene dal mio bagno, dove sono costretta a buttarne un po’ negli scarichi tutti i giorni. Viene dalla strada, che gli operai del comune lavano a giorni alterni. Verrà anche dal lavoro, dove saremo costretti a sanificare tutto e, si sa, la candeggina è la cosa che costa meno e può sanificare spugne, piani di lavoro. Ci sono anche altri odori: quelli dei gel per le mani, per esempio. Io e l’Amico Speciale abbiamo fatto una classifica: all’Ipercoop ne hanno uno che sa di gomma da masticare che ti si spiaccica sotto la scarpa, per esempio: è senza dubbio il peggiore che io abbia mai sentito.

Poi c’è l’odore della mascherina: un misto di panno nuovo e… non lo so, non so come classificare l’odore delle mascherine. Io le lavo ogni tanto (fino a che non sono proprio inutilizzabili) e quindi per i primi venti secondi sanno di bucato: ma poi riacquistano quel loro odore di mascherina e il gioco finisce.

Poi c’è la vista. Anche quella è cambiata: esco fuori e c’è un mare di azzurrino attaccato alle facce della gente. Sono talmente abituata a vederle che mi sale il panico se non le vedo.

Ed è il panico (sempre bene precisare: non il panico del virus. È un panico diverso, come quando vedi qualcuno che scavalca un muro di recinsione in modo furtivo: è il panico da stanno commettendo un reato e io assisto)che ho provato martedì quando sono uscita Con Little Boss.

La nostra gita è iniziata bene: a pochi chilometri da casa abbiamo trovato (abbastanza facilmente) la prima cache. E nella scatolina c’era pure una track, qualcosa (mi spiega Little) di ufficiale del gioco, con un numero di riconoscimento rintracciabile on line. Quella che abbiamo preso ( e che avremmo dovuto spostare subito) veniva dal New Hampshire.

Piccolo brivido di felicità, Andiamo alla prossima!, e siamo ripartite.  Ma le cose sono peggiorate. Vuoi perché la cache successiva era praticamente irraggiungibile in auto (avremmo dovuto fare un pezzo a piedi, ma Little non voleva, lei detesta la natura e io mi chiedo se davvero la detesti o non ci sia abituata e basta), vuoi perché Little sembrava davvero infelice. Ho sonno, mi ha risposto, stavo bene anche a casa.

All’ora di pranzo invece che rientrare alla casa base ho allora deciso di portarla in un posticino che conosco molto easy dove avremmo potuto mangiare un panino.

E qui mi è venuto il panico. È stato qui che ho risposto a moon l’altra. Nonostante tovagliette di carta e tutto monouso, i ragazzi del posticino easy non hanno rispettato alcuna distanza di un metro tra un tavolo e l’altro. Gente senza mascherina che faceva capannello, camerieri con la mascherina sotto il naso… la prima reazione è stata questa: ognuno fa davvero come cazzo gli pare. E allora mi chiedo se davvero possono multare il mio capo se al posto della mascherina chirurgica (che lei dovrà fornirmi) io preferirò indossare quella di stoffa con il filtro (quindi ben 3 strati) che ho comprato on line. E penso a quanto tutto sia assurdo. Dall’odore continuo della candeggina all’obbligo della mascherina. Dalla distanza di un metro tra i tavoli a quella di quattro metri tra gli ombrelloni (ma attenzione: tra i due pali: nel mezzo può esserci di tutto).

Ed è forse questo il panico che mi rende così poco incline a uscire. Quello che sale vedendo continuamente regole non rispettate. E che mi fa dire: oddio, sto assistendo a un reato.

Mi ci abituerò: ci si abitua a tutto.

Ma la giornata con Little si è conclusa alla svelta, lei a casa sembrava più tranquilla. E un po’ anche io.

Che brutto modo di vivere, però…

 

Ps nella foto il track in questione (che tra l’altro non abbiamo potuto ripiazzare subito perché le altre cache trovate erano troppo piccole)

Sindrome della capanna

 

post 209

Ho passato il weekend con l’Amico Speciale.

Sabato siamo usciti, abbiamo tentato di fare compere, abbiamo pranzato fuori. Niente di speciale, volevamo solo vedere il mare.

Domenica, invece, non ci siamo spostati da casa. Vuoi perché era a tratti nuvoloso, vuoi perché io non ne avevo voglia.

Ed è questo che inizia a preoccuparmi. Il sentirmi a disagio quando esco. Ieri mattina anche solo andare a prelevare i soldi al bancomat e recuperare Little da suo padre mi è parsa un’impresa. Tornata a casa mi sono sentita subito meglio. Ho dato un’occhiata rapida al frigo e ho rimandato anche la spesa.

Non va bene, mi dico.

Dal canto suo anche Little non se la cava meglio. Pigra già di natura, appena le ho proposto una girata al mare per oggi mi ha rivolto quello sguardo che è a metà tra il Non mi va e il Mi dispiace. E così l’ansia di avere un altro problema (comune, oltretutto) da risolvere ha superato l’ansia di essere fuori casa.

La chiamano Sindrome della capanna. È una sindrome riscontrata negli Stati uniti, una storia di minatori forse, ma se la cercate sul web avrete notizie.

L’Amico Speciale la chiama semplicemente Conseguenza. Sei stata sempre chiusa in casa per tre mesi, non sei l’unica che ha questa reazione, mi dice. Ma io non sono una fan del Mal comune mezzo gaudio. Voglio semplicemente non averla. Voglio sentirmi sicura anche fuori. Non voglio avere problemi quando tornerò a lavorare, non di questo tipo, almeno, già ne avremo di altri tipi.

L’insicurezza, oltretutto, mi riporta indietro di vent’anni. mi riporta a un momento della mia vita abbastanza traumatico in cui ho fatto scelte sbagliate proprio per la paura che avvertivo vivendo.

La mia reazione base alle paure, però, quelle che riconosco come tali, almeno, è buttarmici a capofitto. L’esempio che faccio sempre (forse perché il più chiaro) è quello del paracadute: per sconfiggere la mia paura dell’altezza mi sono buttata con un paracadute da 4000 metri di altezza.

Quindi oggi sveglio Little, preparo due zaini e andiamo in giro tutto il giorno.

Come l’ho convinta? Pigiando i tasti giusti, ovvio. Ama giocare, ancora (grazie al cielo, spero non le passi mai la voglia di giocare) e le piace un gioco in particolare che coniuga il mio desiderio di stare fuori e il suo di divertirsi: qualcuno santifichi l’inventore del Geocaching!

Certo, mi prende un po’ di ansia, ancora, al pensiero di uscire. Ma vedrai che me lo faccio passare.

Sarà una bella giornata.

ps: so che quella nella foto non è proprio una capanna… ma questo avevo nel mio rullino

Sesso, scuole e Covid

post 208

 

 

Di notte il mio telefono, a un certo punto, si disconnette dalla carica. Lo fa spesso. Io lo so che è solo colpa di quella cavità che accoglie il caricabatterie che non mi ricordo come si chiama, ma dentro di me, in piena notte, dico: è esausto.

Non mi sopporta più, sempre lì a consultarlo per ogni cosa, dalla ricetta per i ravioli al (drammatico) conto delle calorie per una banana (in realtà lo so, quante calorie contiene una banana, ma voglio essere rassicurata, come i bambini al buio nel proprio letto).

E se non lo consulto io, è obbligato a chiamarmi lui, con le millemila notifiche che mi arrivano: Facebook, Instagram, Duolingo (povero Duo… non lo cago più dopo che ho gettato la spugna con il tedesco, e lui lì a dirmi: Mi manchi! E lo dice sul serio), Corriere della sera (ognuno ha le proprie debolezze), Yazio per la dieta(hai bevuto? Hai inserito la colazione? Eccheppalle!)… e poi tutte quelle App per il lavoro: Google my Business, Tripadvisor. Messaggi su messaggi: Ma quando riaprite? Fate l’asporto? Vorrei 1 chilo di mignon per sabato… ehi, bella, aspetta!

In una di queste sessioni divertenti mi arriva la notizia del ragazzo che ha abbracciato la fidanzata all’aperto ed è stato multato. 400 euro, mica noccioline.

Chiamo subito l’Amico Speciale e gli faccio: te l’avevo detto? No? Vedi? La gente è folle e se usciamo insieme e non stiamo attenti ci becchiamo pure la multa.

Poi però mi chiedo: ma secondo loro due fidanzati che non si sono visti per due mesi interi causa lockdown, ora che è permesso, come si dovrebbero comportare?

E così apro il vaso di Pandora delle assurdità.

Ci sono decine di articoli (anche se poi mi rendo conto che più o meno è sempre la stessa minchiona a parlare)dove si consiglia alle giovani (o meno giovani, come noi) coppie come fare sesso durante questa emergenza.

La regola aurea è quella del niente baci con la lingua. Solo baci a stampo. Chè il virus si trasmette con la saliva eccetera. Uhhh. Godurioso. Ma andiamo avanti. Solo rapporti protetti. E, udite udite, necessaria l’igiene intima prima e dopo!

Ora. Io non è che voglio far polemica per forza, ma qualcuno mi spieghi che cavolo c’ha ‘sta gente nel capo. Qualcuno mi spieghi cosa c’entrano queste pratiche con la trasmissione del virus. Non è che credono sul serio a quello che dicono, vero? Non è che credono sul serio che due persone che fanno sesso con il preservativo e si stampano solo baci in bocca sono meno a rischio, vero? Ma soprattutto, non è che credono che l’igiene intima prima e dopo sia di qualche utilità, vero? E infine, non è che credono sul serio che due persone che stanno insieme si rivedano in casa a un metro (o un metro e 80, o due metri, dipende, questo) con la mascherina, vero?

Beh, a chiunque abbia letto qualcosa sulla rivoluzione sessuale forse è suonato un campanello d’allarme.

Ma tranquilli. Queste sono solo indicazioni da fonti non costituzionali.

Quindi facciamoci una grassa risata e finisce lì.

Quello che a mio avviso sta iniziando a costituzionalizzarsi, invece, è l’istituzione scuola come parcheggio.

Certo, certo, ci sono solo ipotesi, adesso, sulla ripresa della scuola a settembre. Ma in una di queste dichiarazioni-ipotesi, è stato suggerito di far tornare sui banchi i ragazzi fino alla terza media, lasciando a casa (o in didattica mista, ancora peggio) i ragazzi delle superiori. Il motivo? Beh, i ragazzi delle superiori sono grandi e sanno gestirsi da soli la didattica a distanza, inoltre possono essere lasciati a casa da soli se i genitori devono tornare a lavorare. Inoltre, aggiungono, i ragazzi sotti i 14 anni hanno bisogno della socialità.

La cosa mi sgomenta. In nessuna di queste dichiarazioni (ipotetiche, ok) viene messo al primo posto l’unico scopo della scuola: insegnare. E se è vero che lo sapevamo tutti, che la scuola non è un granché in linea generale (fatte salve alcune eccezioni, certo), adesso ce lo dicono proprio in faccia.

Sì, stamani mi sono svegliata nervosetta. Sarà che lo stress aumenta in proporzione ai giorni in cui non lavoro (e non porto a casa la pagnotta intera, ma solo mezza pagnotta), sarà che sono stufa di essere presa per i fondelli, sarà che sono seriamente preoccupata per il nostro futuro (in generale) e il nostrofuturo (mio e di Little, in particolare), sarà che guardo troppa televisione e troppe notizie e troppi approfondimenti (una cosa che avevo smesso di fare per non farmi saltare i nervi, e ora eccomi qui, quasi costretta a farlo).

Sarà che forse ha ragione il mio telefono, a essere esausto.

Padri fantastici e dove trovarli

post 207

 

 

Ieri è stata una giornata particolare. Per la prima volta, dopo tanti giorni, mi sono svegliata fiduciosa. Almeno per un momento.

Finalmente è arrivata la fatidica cassa integrazione. Beh, una miseria, ma c’era da aspettarselo. Se ho dovuto aspettare tanto per questi tre spiccioli, immagino che i prossimi mesi saranno duri. Ma non mi lamento, ho la forza dei contributi straordinari e alcuni ultimi appelli che posso fare se proprio sono nella merda.

Subito dopo aver constato l’arrivo della CIGD, ho mandato un messaggio al mio Capo, che, poverina, iniziava a struggersi anche per noi dipendenti. Anche lei c’è rimasta male per la cifra. Quindi ho passato un quarto d’ora buono a consolarla. Finché non mi ha detto che secondo i suoi calcoli riusciremo a riaprire a Luglio. Luglio?, credo che i miei occhi abbiano fatto un salto in avanti. Eh, i lavori di ristrutturazione vanno avanti lentamente

Ma, nonostante tutto, ho tenuto botta, e senza scoraggiarmi ha infarcito la conversazione di nuovi discorsi motivazionali: dai, non è così grave, anzi! Sarà meglio per noi, tutti avranno già riaperto e noi avremo il tempo di orientarci nelle nuove misure, no?  

Ci ho quasi creduto anche io.

Vabbè, vado dal dentista, dopo. Questo dentista credo mi abbia preso per il pozzo di San Patrizio. Ogni volta che ci vado (e questa è la terza) se ne viene fuori con qualcosa in più: prima devitalizzazione del dente, poi pulizia (altri 80 euro), ieri ha iniziato a parlare di Bite e di capsule. Al che ho detto: ma io ho già un Bite! (che non porto quasi mai). Portamelo che lo guardiamo e al limite lo correggiamo. E immagino che non lo farà gratis perché sono gentile.

Nel frattempo ho saldato il conto (temporaneo, mi sa) e comunque esco tranquilla.

Dopo pranzo iniziano i messaggi del gruppo del lavoro: chi ha ricevuto la CIGD? Io sì, io no, Ma è una miseria! Come faremo? Ma quando riapriamo? Il panico ha iniziato a dilagare. Al che, niente affatto scoraggiata, ho rifilato i discorsetti motivazionali che avevo fatto al Capo anche a loro. Evvai, teniamo duro che ce la faremo!

Ero talmente soddisfatta che poi mi sono messa a fare i biscotti. Un piccolo regalo per mio padre che, incredibile ma vero, ha deciso di venirmi a trovare in serata. Incredibile perché lui, da quando è iniziata questa pandemia, non ha fatto altro che rifilarmi mega pipponi su quanto sia pericoloso il Coronavirus, su quanto lui fosse spaventato e su cosa dovevo o non dovevo fare (vai a passeggiare in mezzo al nulla? Ma sei matta? Fai la spesa senza i guanti? Ma sei matta? Fai dormire lì l’Amico Speciale? Ma sei matta?). Quando mi ha detto che sarebbe venuto, da bravo congiunto, ho provato timidamente a invitarlo a cena. La risposta? Non mi sembra il caso, io vengo con la mascherina e tengo la distanza.

Poi in realtà si è sciolto, una volta qui, e si è addirittura azzardato a dare un abbraccio. Si vede che alla fine si sentiva ridicolo se avesse fatto diversamente.

Passare un’ora con mio padre, di recente, non è mai facile. Si distrae con tutti i messaggi che gli arrivano da mille gruppi diversi, gli viene in mente di fare una telefonata proprio quando è qui e se inizi un discorso qualsiasi cambia subito argomento. Ve lo dico con onestà: è stata una tortura a livello nervoso. E quando finalmente è arrivata Little, verso le sette e mezza, e lui se ne è andato, ho tirato un sospiro di sollievo.

Mio padre non è mai stato un buon padre. Ma non è una critica soggettiva. È talmente oggettivo che spesso qualcuno mi chiede come faccia a parlargli ancora. Io do la risposta più semplice del mondo: perché è mio padre. E se devo sopportare un’ora di conversazioni interrotte e di vacuità una volta ogni tanto, beh, direi che ci posso stare. Certo, l’incontro con lui ha fatto evaporare del tutto il senso di fiducia che sentivo dalla mattina.

Ma per rifarmi, dopo, mi sono mangiata un mega cheeseburger home made.

Strafalcioni da Covid

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L’altro giorno Little Boss mi leggeva alcuni messaggi sul suo gruppo di classe. Strano ma vero, questi tredicenni discutevano di politica.  Un Ragazzino in Particolare criticava aspramente Conte e agognava la riapertura di tutte le attività commerciali per evitare la povertà, visto che i soldi promessi non sono arrivati. Un altro ha risposto che ci doveva essere un equilibrio tra riaperture e sicurezza. Insomma, difficile non leggere in queste parole quelle dei genitori dei suddetti ragazzini, che io conosco. Ma vabbè, funziona così, si sa. Se adesso Little non è una fan di Salvini un motivo ci sarà. Ma il discorso non è questo. Il Ragazzino in Particolare a un certo punto ha scritto che per evitare il contagio basta che non siano assemblamenti. Little rideva come una matta, io pensavo a qualcosa come le mie Barbie da piccola, che mutilavo e decapitavo solo per poi rimetterle di nuovo insieme. Ok, dura da digerire che alle soglie di un esame di terza l’italiano ancora tentenni, ma dopotutto sono certa che anche io abbia spesso scivolato sulla lingua, in quel periodo.

Ma il caso italiano distrutto e strafalcione detto non si limita certo ai tredicenni. E così a Roma appare un cartello ai cancelli di un parco dove, anche lì, si vietano assemblamenti. Forse non vogliono che i ragazzini ci portino le Barbie suddette o, chissà, la Lego.

C’è anche l’altro tema, quello del C’è la faremo. Che se (purtroppo) si vede a qualche finestra o sulla bacheca di Facebook del dirimpettaio, allibisce leggerlo sulla bandiera di Razzi. Ora… se è vero che il correttore automatico del nostro telefono predilige il c’è al ce, innescando a volte qualche errore involontario, se lo scrivi su una bandiera ci devi mettere dell’impegno, ci devi pensare. È lo stesso discorso dell’hanno e dell’abbiamo: se in un messaggio ti può scappare una h e scrivi anno è sì certo grave, ma può essere una distrazione; se scrivi habbiamo, cacchio, ci hai pensato! Ignorando il correttore, a questo punto.

Ma gli strafalcioni da Covid non finiscono qui. Il più famoso a questo proposito è il sindaco di Boscoreale, il cui video avrete sicuramente visto. Un concentrato di ilarità! Si parte dal Coronarovirus, si passa dalle Fuck news (era forse un messaggio in codice?)e si approda parlando di sieropositivi riferendosi ai pazienti Covid. Io questo tizio lo amo già.

Ma non ci sono solo gli errori di lingua. Molti politici, virologi, filosofi e chi più ne ha più ne metta si sono lanciati verso il complottismo, il negazionismo e hanno messo in campo strane ironie. Di Trump avevo già parlato, del suo rimedio del disinfettante in vena (ironia, dice, ok, prendiamola per buona), ma sullo stesso piano ci si è messa la signora Bruni, che dopo aver finto un attacco respiratorio, si è poi messa a ridere dicendo: scherzavo! Beh, davvero di pessimo gusto, questi scherzi. Ma io dopotutto non ho il senso dell’ironia.

Concludo con qualcosa che fa male al cuore, e che ha fatto male soprattutto ad Ale. Lo scrivo per te, Ale.

A causa del Coronavirus è morto, come sapete, Sepulveda. Quando Little era piccola credo di averle letto tutti i suoi libri con sincero divertimento. Per me, lettrice grande, forse erano un po’ troppo ripetitivi (tutti questi animali insieme, uff), ma la morale era semplice e mai tropo scontata (certo, parliamo di bambini). Insomma, mi è dispiaciuto tanto. Ma mai quanto sentire che aveva scritto Cent’anni di solitudine. Come si fa a confondere Sepulveda con Gabo? Mah, ai posteri l’ardua sentenza.

Ma non mi stupisco più di nulla. Ieri sera cazzeggiando sul web ho incontrato un sito di recensioni. C’era una pagina su L’isola di tesoro. Di Henry James! Mi sono chiesta da dove diavolo potessero aver tirato fuori questa info. Forse James ha scritto un libro dal titolo simile (che io non conosco)? L’isola del giorno dopo? Perché l’isola del giorno prima è di Eco. Poi, aguzzando la vista, ho capito l’inghippo: l’edizione Mondadori del suddetto romanzo ha in copertina la scritta: con un saggio di Henry James. E ok… magari quello è stato solo un errore del sistema. Spero.

(Anche loro avranno riso a crepapelle:

 

Ho solo bisogno di allenamento?

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Ci sono cose di cui non ci stanca mai.

Tarantino, per esempio. Ho passato il weekend riguardando tutti (o quasi) i suoi film insieme all’Amico Speciale.

La musica in generale. Rientra nella categoria.

Il caffè. Se non lo bevo come fosse acqua è solo per salvarmi da un futuro fatto da un braccio sinistro dolorante prima di cadere al suolo. Morta.

Poi ci sono cose che stancano, dopo un po’. La pasta al pomodoro, per esempio, che Little non mangerebbe altro per pranzo. La tv solo per guardarla. Anche stare a letto oltre una certa ora (ok, questo forse vale solo dopo i 30 anni). La quarantena.

Dopo due mesi ero davvero stanca di non essere stanca. Di andare a letto alla stessa ora (improponibilmente presto, ma sono abituata così) e di rigirarmi nel letto senza sosta, di alzarmi dal divano solo per fare pipì, di passare buona parte della giornata a cucinare (provate a dire un piatto: l’ho fatto senza dubbio, a meno che la materia prima non fosse troppo cara).

Il weekend appena trascorso con L’Amico Speciale è stato una serie di interventi chirurgici alla mia abitazione mentre io sfornavo cose: cheesecake, Piadine Romagnole alla Toscana (PRT, in gergo, è una cosina inventata sul momento), risotto ai porcini… insomma, l’ho già scritto, credo che il suo intestino sia stato lieto di aver lasciato questa abitazione. L’Amico Speciale forse no, giusto ieri sera mi diceva che il weekend è volato. E poi ci va messo che ho fatto la parte della geisha (anche se l’ho avvisato: goditela ora, bello, non ricapiterà fino alla prossima pandemia). Sono stata felice di fare qualcosa per lui. O forse solo di fare qualcosa. Avere uno scopo nella giornata è una cosa sottovalutata.

E poi oggi ecco che arriva il lunedì. Per me il giorno di festa per eccellenza, anche se questa pandemia ha confuso un po’ le acque. Settimana nuova? Regole nuove.

E no, non sono tornata a lavorare, ci vorrà ancora un mese, ma mentre sono lì che mi martorio il cervello per vedere di non chiedere prestiti in banca (sì, dai, Moon, puoi farcela, basta che fai economia…prima o poi arriverà la maledetta cassa integrazione in deroga!), che anche se la mia banca è a chilometro zero e mi piace tanto come il direttore e tutti i cassieri mi trattano, come una di famiglia, diciamocelo: una banca è sempre una banca e quindi sarebbe come pensare che i Vigili giurati li assumano per la loro intelligenza (qui lo so, forse offendo qualcuno e di sicuro sono di parte, visti i miei trascorsi con la categoria, ma il Censore non è arrivato), insomma, perché costringersi a patire più del dovuto?

Quello che mi ci voleva era solo fare una passeggiata.

Uff, che palle Moon, quante cazzo di parole per dire che ti sei fatta due passi!

Eh, lo so, ma faccio così sempre. Parto da un punto A per arrivare a un punto B e passo da lettere di un alfabeto perduto. Quando poi il punto B non è che sia poi così interessante…

Beh, però va detto che siccome il mio corpo era quasi immobile da due mesi non mi sono accontentata di fare un giretto. Mi sono percorsa tutto l’anello che gira intorno al mio paesello passando dallo sterrato e godendo della vista bellissima di questi posti a cui, devo dirlo di nuovo, non mi abituerò mai. Solo guardare mi ha fatto bene al cuore. Vorrei potervi prestare gli occhi per farvi vedere (no, le foto non rendono, fidatevi).

Da moto zero, quindi, a 8 chilometri in un’ora e mezza (salite e discese comprese nel prezzo). Tornata a casa avevo l’aria di chi è stato schiacciato da un elefante in corsa (e secondo me un elefante ha davvero camminato sul mio petto per farmi espellere tutta la nicotina pigramente accumulata), le braccia tremanti (l’ultimo chilometro è stato duro) e una gamba che ancora adesso mi dà dei problemi.

Sfinita.

Ma felice.

Mi sono convinta di aver solo bisogno di allenamento.

Magari è davvero così.

Ma stanotte vedrai che dormo.

p.s. la foto l’ho modificata per non far vedere il nome del mio paesello… lo so che ho fatto un troiaio (ma il mia coulisse di fragole per il cheesecake era buonissima: a ciascuno il suo!)