Da Montenero con furore

Torno qui come sempre di lunedì, il mio giorno libero, anche se oggi di libero non vedo neanche il cielo. È grigio, preannuncia pioggia, è in linea con la giornata, forse.

Oggi è il gran giorno, si parte per Montenero, ma non per accendere un cero, come ho fatto per gli esami di maturità (insieme a: andare a buttare il sale in mare e toccare la lucertola in piazza dei Miracoli). 

Dopo una lunga lotta interiore e giornate e giornate di ripensamenti, alla fine ho deciso che una struttura sia la cosa migliore per mio padre. Lì avrà tutte le cure che servono, persone che lo assistono ventiquattro ore su ventiquattro, e pure un bel giardino dove passare un po’ di tempo e prendere aria. Adesso è piantato in mini appartamento che non è neanche casa sua, lo è solo da un anno, da quando l’ho portato qui vicino a me, non può uscire perché non ce la fa a muoversi e l’appartamento ha le scale, sta tutto il giorno con un’estranea che non parla neanche la sua lingua (dice ancora Martini invece che Martedì) e che a occhio non sa cucinare, visto che, come dicevo al mio nuovo amico Kas, sta attaccando a mio padre la sua fissa di non mangiare. 

Per l’occasione ho chiamato anche mia sorella, che ha una macchina più spaziosa e dobbiamo caricarci tutto, dalla sedia a rotelle al deambulatore. L’Amico Speciale pure viene con me, si è preso un giorno di ferie. Ho deciso di mandare a quel paese la mia reticenza nel chiedere aiuto, ricomincio domani, eh, oggi voglio tutto l’aiuto possibile. 

E quindi fra due ore andiamo. Sono un po’ nervosa, ma so di aver fatto la scelta giusta. È strano come a un certo punto della tua vita ti ritrovi a dover decidere della vita di un altro essere umano. E neanche lo hai chiesto. Anche con Little in effetti a volte l’ho fatto: la decisione di metterla al nido, per esempio. Ma socialmente non fa la stessa impressione, vero? Tutti ti dicono che non è un parcheggio, il nido, che fa bene al bambino, socializzare. Mentre nell’opinione comune una Rsa è una discarica. Ma su questo ho lavorato e sto lavorando con la mia nuova Psi (lei è Unabrava) e ho deciso di fidarmi. L’altra settimana mi ha dato un compito: scrivere. Quando l’ha detto sono quasi scoppiata a ridere. Mi chiede: lo hai mai fatto? E io, timida: sì, a volte. Ma delle decine di quaderni che ancora conservo, in perfetto stile Natalie Goldberg (Scrivere zen, ve ne dovrei avere già parlato), non ho fatto parola. Forse ci vuole un po’ di mistero potrebbe fare bene alla psicoterapia. In ogni caso sto cannando il compito a casa, come potete vedere anche dalla frequenza dei miei post. Certo, ho buttato giù qualche riga nell’ennesimo quadernetto, ma lo sento che non sta funzionando. Troppe cose da fare. l’Inps che mi richiede un documento per la domanda della 104, l’avvocato che me ne chiede cento per la pratica di amministratore tutelare, l’Rsa che mi chiede un foglio firmato dal medico e l’etichettatura con nome e cognome di tutti i vestiti, la sanitaria che mi chiede il collaudo del busto ortopedico che indossa, il neurologo che mi chiede l’appuntamento per il controllo. Meno male che, come diceva (ora non dice quasi più nulla) mio padre io, con questi ditini, sul cellulare e sul pc so muovermi bene, sarei una perfetta Badante Digitale. E in effetti quando Badante 3 ieri mi ha chiesto di ricaricarle il telefono ho ringraziato il cielo di avere Satispay che mi ha permesso l’operazione in due secondi. Lei si è messa a ridere e mi ha scritto un messaggio in georgiano che, buttato su Google traduttore suonava così: ti voglio bene buona zucca. Mah. Il concetto comunque è quello, immagino. 

L’Amico Speciale si è alzato. Stamani canta Sei un mito, degli 883. Io spero sia per me e ne esco lusingata. È comunque meglio del Lady Oscar che cantava qualche mattina fa, soprattutto perché non ricorda mai le parole e poi mi tocca correggerlo vanificando, come lui stesso dice, l’effetto liberatorio del canticchiare appena sveglio. Sarà che io appena sveglia voglio solo il caffè. E al limite scrivere qualcosa qui.

Me lo dico da sola: in bocca al lupo, Moon, per questa settimana. 

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Riordinando

La settimana passata è venuta mia zia a trovare mio padre. Pure lei si è resa conto che la situazione ormai è al limite della disperazione. Come è arrivata mio padre ha avuto una crisi, il che non mi sorprende. Pure Badante 3 ha avuto una crisi, povera donna, torchiata perché la tovaglia non era pulita e i vetri sporchi. Io non guardo a queste cose, capisco che passare tutto il giorno con una persona malata che non dorme possa un pelino accasciarti e pulire i vetri lo metto all’ultimo posto.

Come una meteora, il giorno dopo se ne è andata, con grande gioia di tutti. Dietro di sé ha lasciato una scia di numeri di telefono di Rsa, così, per ripulirsi la coscienza, si vede, ma ha lasciato a me la decisione finale, ovviamente, il suo aiuto è stato decisamente marginale. Anche se è stato sempre più di quello di mia sorella che, avvisata del peggioramento ormai da tre settimane buone, ancora non si è vista e, quando l’ho chiamata per dirle dell’Rsa ha risposto: ah, ok ok. Punto.

Ma qualcosa di buono c’è sempre, credo. Tutta la pesantezza della condizione personale svanisce quando sono a lavoro e mi permettono di fare quello in cui sono più brava: il lavoro al banco. 

Questa settimana il mio collega, il Nuovo Micro(bo), come lo chiamo io, era in ferie e ho preso il suo posto. Il lavoro al banco del bar scorre fluido e veloce, non ci sono mai tempi morti, devi stare sul pezzo, non perdere il passo e questo richiede molta concentrazione, ma è una concentrazione buona perché io so quello che devo fare e ottimizzo ogni passaggio. In più c’è la componente sociale, al banco, anche se il tempo è poco, puoi conversare con i clienti che, solitamente, se vengono a fare colazione al bar, sono ben disposti, felici. Insomma, non sono mica in fila alle Poste. 

Devo dire che, nonostante voglia licenziarmi ormai un giorno sì e uno no (letteralmente), mi piace il mio lavoro. Mi piace perché sono brava, sono brava perché mi piace. Ma, c’è un ma. L’ambiente di lavoro a volte, con i colleghi, ma soprattutto con il Capo e la Figlia del Capo, è insostenibile. Il clima è pesante, carico di critiche per le piccole cose, mentre per le grandi non c’è alcun occhio. L’unico rifugio sono, appunto, i clienti. Adoro stare in mezzo a loro e adoro renderli felici, perché immagino sia quello che cercano. Questa settimana faccio il turno serale, come cameriera al Ristorante. Non amo lavorare la sera, soprattutto ora, che ho problemi a dormire e questo turno mi costringe ad andare a letto tardi, incasinando la mia regolarità. Ma almeno avrò poco a che fare con Capo e niente a che fare con Figlia del Capo. Non vedrò l’Amico Speciale fino a sabato, immagino. Così non litighiamo, mi dice lui sorridendo. In realtà mi mancherà tantissimo, è di grande aiuto negli ultimi tempi, riesce sempre a sdrammatizzare tutto, mi aiuta molto nelle cose pratiche, mi abbraccia forte quando ne ho bisogno. 

Questo post è stato un post più per me che per voi. Come ai vecchi tempi, mi è servito per rimettere in ordine il cervello. Parlare non mi fa questo effetto, parlare mi confonde ancora di più, scrivere invece ha quella forma particolare, sono in silenzio, posso farmi trascinare nella direzione più consona, senza distrazioni. Posso rimettere tutto in ordine con i miei tempi. 

Nei periodi bui scrivere mi è sempre stato di conforto. Nel caso specifico oggi ho capito alcune cose. E quindi ringrazio anche voi, che siete qui a leggere le mie elucubrazioni. 

Sempre nella speranza di tornare a una vita pressoché normale, 

vostra Moon

Un settimana alternativa

Lo so che siete lì che pensate: guarda Moon, con i suoi programmi per le ferie, se ne è andata via tre giorni e non scrive più nulla perché si diverte tantissimo e non ha tempo. 

Ma, ahimè, no.

Questa è stata una settimana alternativa, come ci sono a scuola, ma molto meno divertente. 

Lunedì. Arrivo da mio padre alle 8.15 per portargli la colazione e prepararlo per la visita dell’invalidità. Lo trovo a terra. Caduto non si sa come. Lo tiro su, ma non è molto presente. Dice che non si è fatto male, in effetti sembra così, quindi decido di portarlo alla visita e vedere come va in giornata. 

In giornata sembra riprendersi. In serata mi dice che è stanco, ma cammina da solo. La mattina dopo mi dice che gli formicolano le gambe e decido di portarlo al pronto soccorso. 

La giornata al pronto soccorso è stato un vero incubo, il pronto soccorso è un perfetto girone dantesco dal quale, da qui in avanti, cercherò di tenermi lontana il più possibile. Dalle 7.45, ora in cui ho chiamato l’ambulanza, siamo tornati a casa alle dieci di sera. Senza alcun risultato. Anzi, gli hanno pure rotto gli occhiali durante il periodo in cui non mi hanno permesso di stare con lui. 

Mercoledì. Il giorno in cui avrei dovuto partire. La badante che viene la mattina, badante 2,  mi lascia a piedi perché la macchina l’ha lasciata a piedi. Devo per forza andare nella città dove mio padre viveva prima perché devo recuperare dei fogli importanti. Inoltre Little si è svegliata tardi e gli è venuta una crisi isterica. Io ho dormito solo 5 ore, prendo un caffè con gli occhi chiusi, carico Little in macchina, porto la colazione a mio padre e lo lascio lì. Lui mi assicura che sta bene. Ma dopotutto io non ho scelta. Porto Little a scuola, mi faccio 3 ore di macchina andata e ritorno, prendo i fogli che mi servono, vado al supermercato per fare la spesa per mio padre e quando sono alle casse mi chiama l’altra badante, badante 1, quella che arriva alle 11.30. è cascato di nuovo e lei non riesce ad alzarlo. Corro a casa sua, lo alziamo in due. dico alla badante 1 che mi devo prendere almeno due ore di riposo, vado a casa e faccio l’inevitabile: inizio a cercare una badante fissa. Mi dico che in un mesetto dovrei farcela. Ma ho sottovalutato la rete sotterranea delle badanti. Nel giro di un pomeriggio la super rete mi ha trovato una donna georgiana di 50 anni. mi chiamano in cinque per le referenze, parlo mezz’ora con la signora che l’aveva in casa finora, mi tranquillizza e mi dice di chiamarla per qualsiasi cosa. La sera torno da mio padre, gli do cena, lo metto a letto.

Giovedì. Badante 2 è sempre a piedi. Resto da mio padre fino a mezzogiorno, che arriva badante 1. Vado a finire di fargli la spesa (che il giorno prima, dalla fretta, ho dimenticato della roba), e poi mi chiama la rete delle badanti per dirmi che la signora georgiana, Nata, badante 3, arriva il giorno dopo. Quindi mi viene in mente che il letto c’è, ma non ho le lenzuola e la coperta, corro a prendere anche quelle. Vado a prendere Little, che ha preso un’insufficienza a italiano e quindi piange (anche se chi è causa del suo mal…ma non posso dirglielo, è troppo suscettibile in questo periodo), ha fatto casino sull’orario della lezione di canto e ora è a piedi. La porto a casa, preparo cena e torno da mio padre.

Venerdì. Badante 2 stamani viene. Me lo ha scritto ieri sera a mezzanotte, quindi l’ho visto solo stamani alle 5.30. mi alzo e mi preparo già, non si sa mai visti i giorni passati. Poi mi metto qui a scrivere, giusto per dirmi che sono ancora una persona. Normale no, ma persona almeno…

Ho finito il tempo. emergenze non ci sono, per ora. Badante 2 è lì, anche se lui oggi non cammina. Ora devo andare a cercare un cuscino per il letto, prendere i soldi per pagare badante 2, che è il suo ultimo giorno, e poi resto lì con lui fino a mezzogiorno. Nel pomeriggio vado a prendere Badante 3 alla stazione. La porto a casa. E se Dio mi aiuta, inizierò a vedere la luce in fondo al tunnel…

Intanto le mie ferie sono finite…

Moon, explained

Stasera Little mi fa: a che ora si cena?

Non so, volevo scrivere un po’, ti scoccia se ceniamo più tardi?

Mette una manina (gelida) sulla mia.

Ceniamo quando ti pare, l’importante è che tu riesca a ritagliarti un po’ di tempo per te stessa.

Di nuovo, stavo per mettermi a piangere.

Mi sono resa conto, altresì, che dopo un periodo, anni fa, in cui non potevo più guardare la tv perché piangevo per qualsiasi cosa, dal tg a un film comico, sono passata a un periodo in cui non potevo più guardare film da sola perché li trovavo senza senso. E quando li guardavo con l’Amico Speciale spesso lui si commoveva (davanti a film commoventi) e io no. Dopo questo periodo la Coronaquarantena ha di nuovo dato una svolta: ho ricominciato a guardare film in solitaria con mucho gusto. Dopotutto c’era ben poco da fare in quei giorni.

Poi sono tornata normale: ora guardo film in solitaria con mucho gusto e, se il film è commovente, piango. Questo non può che significare che il mio comparto emotivo ha ricominciato a lavorare in maniera efficiente. Sono cose che danno soddisfazione, che diamine!

Anche la mia efficienza è tornata ad essere il top di gamma come un tempo. Anche se ora so che devo tenerla a bada per evitare eventuali crolli che potrebbero compromettere il comparto emotivo di cui sopra. 

Di recente ho visto insieme all’A.S. una serie su Netlix, La mente in poche parole. O meglio, Mind, explained. In inglese non fa più figo, ma io vorrei sapere perché devono travisare ogni titolo in traduzione, dal celebre caso di Se mi lasci ti cancello ( Eternal sunshine of the spotless mind) al film che ho visto l’altra sera, The invention of lying, tradotto in Il primo dei bugiardi. Comunque, polemiche di traduzione a parte, il terzo, se non erro, episodio parlava di personalità e test della personalità. 

In pratica, riassumi riassumi, hanno costruito un modello che si chiama Big Five:  ogni essere umano ha in sé questi cinque tratti che possono essere presenti in maggiore o minore percentuale e che ci caratterizzano. I Big Five sono: 

  1. Coscienziosità 
  2. Amabilità
  3. Nevroticismo
  4. Apertura mentale
  5. Estroversione

Ora, se volete sapere in dettaglio ogni tratto e come funziona (in teoria, ovvio) dovete guardarvi la serie. Non perché Netflix mi paghi, ma perché non sono capace di spiegarvelo come loro.

Io sono rimasta colpita dal punto 1. Perché quando mi guardo allo specchio, da anni, non vedo altro che coscienziosità alla massima percentuale. Certo, pure una certa dose di nevroticismo mi caratterizza. Oggi come oggi, 30 novembre, entrambe emergono con prepotenza. Alla bravura con la quale mi prendo cura di mio padre e cerco di risolvere i suoi casini causati durante gli anni (alcuni sono impossibili da risolvere e ne sto prendendo atto), si affianca l’incapacità di affrontare la situazione con la giusta stabilità. Il che mi porta a non dormire, a essere distratta sul lavoro, a sbagliare a fare conti semplici, a dimenticarmi le cose, a dimenticarmi le parole. Questa mia instabilità mi ricorda con mio grande terrore ciò che affligge mio padre (l’altro giorno per fare 320 più 200 aveva aperto la calcolatrice). E la domanda nasce spontanea: Moon, è lo stress?  O quello che ha mio padre è una specie di virus? Che il Corona ci fa un piffero, va detto. 

In ogni caso con lui oggi sono stata chiara, visto che sto con tutta me stessa trovando la via veloce (che lo so, non esiste) per fargli avere l’invalidità. 

Babbo, quando ci sarà la visita in commissione per la tua invalidità cerca di non vederlo come un esame da superare, ma come uno da fallire: chiaro?

Che è vero che non sa fare più 320 più 200, ma le versioni di latino di Little le traduce ancora perfettamente e velocemente senza vocabolario.  

Non voglio sorprese…

Insonnia

Sto facendo una cosa mentre ne faccio un’altra, e mi ero ripromessa di smetterla, di piantare in asso questa storia di ottimizzare i tempi. La notte non dormo. Una cosa dura per me da mandare giù, io che Toglietemi tutto, ma non il mio sonno. Sono settimane che mi sveglio in piena notte (di solito le tre, l’ora del diavolo, dicono, o sbaglio?) e poi eccomi lì inchiodata nel letto con gli occhi a fanale. Mi giro e mi rigiro e nel frattempo il cervello gira sulla ruota come un criceto. Domani devo fare, Sarà meglio che chiami, Quanti biscotti avevano ordinato?, Compilare il modulo, assolutamente!

Insomma, rumore, rumore, rumore. Riprendo una parvenza di sonno tre minuti prima che suoni la sveglia. 

Al Ristorante L’Amico Speciale trangugia la zuppetta di mare che gli ho appena portato e mi dice: 

Tutto normale, cara, forse se tu non avessi il pensiero di un uomo di 150 chili che ti cade dalle scale rischiando di rompersi l’osso del collo ogni due giorni forse dormiresti meglio.

Di poco aiuto. Ma ha ragione. E la scena di mio padre incastrato in fondo alle scale è una di quelle che mi tormentano la notte. La fortuna? Che non si è rotto nulla (un miracolo, direi) e che c’ero io. La sfortuna? Che c’ero io e l’ho visto. 

Poi lui mi dice che due giorni prima è caduto anche in camera. 

Quest’uomo cade di continuo, penso. 

Il medico che gli ho trovato qui è decisamente migliore di quello che aveva laggiù, ma i miracoli non sono tra le sue specializzazioni. 

Sono specializzato in pediatria, dice il Doc a mio padre quando lo vede per la prima volta.

Perfetto per me!, risponde lui ridendo. Dopotutto è un malato pacioso e ogni tanto sfodera il suo senso dell’umorismo. 

Che poi non ha nemmeno tutti i torti. È come un bambino extra large. 

La mancanza di sonno, in ogni caso, si ripercuote su tutto, come è ovvio, ma principalmente sull’umore. Arrivo a lavoro a testa bassa, sorrido impacciata e cerco di ritirarmi in laboratorio il prima possibile, per non scambiare parola con nessuno. Converso invece con le mie amate sacher o con gli ovis mollis. Ma sono talmente rigida che ogni messaggio che mi arriva sul telefono scatto manco fossi un giocattolo per bambini. 

Ogni tanto chiamo mia zia, la sorella di mio padre, che vive a Milano, per aggiornarla. Mia zia è una brava donna, per carità, ma una di quelle persone che tendono più a parlare che a fare, avete presente? Tante parole spese in questi mesi, ma fatti zero. Lei mi ripete che non devo essere io a occuparmi di lui, che devo trovare un aiuto. L’unico che ho trovato viene quattro ore a settimana (per ora di meglio non sono riuscita a trovare). Ma in ogni caso il pensiero c’è. Ed è quello che mi tiene sveglia. 

Vorrei poter prendere una vacanza dalla mia vita, concedermi più spazi per scrivere e leggere (neanche l’ultimo di King riesce a farmi evadere abbastanza, e sì che è una lettura leggerina, adatta a momenti come questo), concedermi un giorno di vera vacanza… intanto mi accontento di questo: scampoli di tempo rubato alla cena per sfogarmi un po’.

Speriamo che stanotte vada meglio.

Guida a un cervello sotto stress

Avevo bisogno di un’ora per me. Ecco perché sono qui.

Il mio momento zen, il mio bagno con bomba Lush, la mia Yankee Candle, la mia coperta di lana merinos, il mio prato fiorito, la mia cioccolata calda…

Avete capito, no?

le mie settimane si stanno ingolfando (tutto prevedibile e previsto) dal trasloco di mio padre dalla Città di mare al mio piccolo paese in mezzo ai lupi (attenzione: i lupi ci sono davvero, lo ha detto il comune limitrofo con un messaggio WhatsApp a tutti i cittadini. Perché qui, sì, si può fare di un intero comune un gruppo WhatsApp, tanto sono pochi i residenti).

Il trasloco è stato carino. Un inferno Dantesco nella versione Disney (non so se avete presente: Paperino/Dante e Paperoga/Virgilio). La ditta che avevo chiamato ha fatto un ottimo lavoro, i ragazzi erano solerti e simpatici, nonostante la tragicomicità della cosa (un anziano un po’ rinco che deve traslocare in fretta e furia e nemmeno riesce a decidere cosa portare e cosa lasciare), alla fine mi sono fatta anche qualche risata e due foto buffe con i traslocatori. 

La padrona di casa di mio padre è decisamente più rinco di mio padre stesso, nonostante abbia 20 anni meno. E quindi ha rischiato (da parte mia) il linciaggio per cose tipo questa:

GIORNO PRIMA DEL TRASLOCO- ORE 11.00. CONVERSAZIONE WHATSAPP.

IO: Scusa, E., ma la caldaia non funziona. Ma l’avevi provata?

LEI: Non funziona? Oh, ok. chiamo il tecnico.

IO: sì, ma domani c’è il trasloco, sono 2 settimane che lo sai. Potevi provarla… e poi dov’è il termostato?

LEI: oh, ok. quello non c’è.

IO: …

LEI: ma domani si fa tutto, tranquilla.

La gente affitta senza sapere cosa cazzo sta affittando. 

Alla fine della fiera (locuzione credo interamente locale) la mattina del trasloco c’era tecnico della caldaia che faceva la revisione e l’idraulico che installava il termostato. Mettici i due ragazzi del trasloco, io, la padrona di casa e mio padre…beh, quell’appartamento non vedrà mai più tutta quella gente in una botta sola. 

Comunque mia sorella è stata di grande aiuto, alla fine. Le ho chiesto di fare solo una cosa, ovvero staccare il televisore e porgerlo ai ragazzi. Lei lo ha fatto. Dimenticando di staccare anche il cavo dell’alimentazione e non prendendo il telecomando. 

Sono felice che sia passata già una settimana. Sennò avrei continuato questo articolo inveendo per tutto il resto dello spazio virtuale contro di lei. Ma io sono fatta così: mi incazzo, mi incazzo, ma alla fine mi passa sempre. Solo che faccio delle tacche. Non è che dimenticherò, niente affatto. 

Mio padre si sta ambientando alla riduzione delle sue possibilità. Tutto è più piccolo, intimo e silenzioso, qui. 

Da parte mia sto disperatamente cercando un sistema per non dovermene occupare day by day come se fosse un terzo figlio (prima figlia: Little, secondo: l’Amico Speciale). Quindi ci passo, almeno un’ora, tutti i giorni (suona contradditorio? La frase non torna? Marzullianate, gente, Marzullianate).

Quello che trovo devastante è la mia incapacità di difendermi dalla mia mente. Nonostante il triste tentativo Mindfullness non ho imparato un cavolo. E mi ritrovo sveglia alle una di notte a pensare a milioni di liste di cose da fare, possibili soluzioni da trovare. Per cosa? Per tutto: dalle cose pratiche che riguardano mio padre alle cose morali che riguardano me e la mia Little Family con Little Boss, dall’Amico Speciale al lavoro, dagli amici che non sto più chiamando a mia zia, che quando chiama ci vogliono 3 ore di tempo…

Staccare la spina mi risulta sempre più difficile, pena (secondo la mia mente contorta) l’inefficienza che tanto viene vantata di questi tempi quasi da tutti (questa ragazza è un treno!, Ma tu sai tutto! Ma sei bravissima!). Poi, ovvio, ci sono i detrattori, come mia sorella: ma che credi, che ti faranno santa se ti prendi cura di lui? (mio padre, ndr).

Quindi, nel cuore della notte, mi attanaglia anche questo quesito: 

per chi sto facendo tutto questo? Per me stessa? Per non avere rimpianti o rimorsi? O per lui, che sembra un bambino di 150 chili? Lo faccio per dimostrare agli altri qualcosa? O perché so che moralmente è giusto farlo?

Vi ricordo che mio padre non è mai stato uno dei migliori, di padri. Me ne ha combinate tante, mi ha incasinato la vita da quando avevo meno di 20 anni. 

Ma dopotutto, come dico sempre, è sempre mio padre…

Anche io ho sbagliato e sbaglierò come madre. E vorrei che Little Boss fosse un po’ come me, una di quelle che si arrabbia, si arrabbia, ma alla fine passa tutto. 

Allora lo faccio anche per questo? Per mandare un messaggio a Little? 

Sì.

Forse sono un po’ stressata…

Un passo per volta

Come al solito, le cose che devo ancora fare superano le cose già fatte. È una maledizione, stile criceto che gira sulla ruota e gira e gira e non arriva mai. 

Certo, due traslochi in un anno non me li sarei mai aspettati, nemmeno da me, la Ragazza con la Valigia in mano. Eppure. 

Ok, ok, non devo traslocare di nuovo io, ok. devo traslocare mio padre, dichiarato ufficialmente in sofferenza ischemica e rispedito a casa con due raccomandazioni: smettere di fumare e stare a dieta. Seriously? Basta così? Nel senso, pure a me, che sto bene e non soffro di perdite di memoria casuali, non confondo le persone e non sono incontinente, il medico mi raccomanda le stesse cose: dieta, movimento, smetti di fumare. 

Sarà più dura del previsto se questo è il meglio che offre il SSN. 

Inoltre in questa causa sono sola. 

Oggi chiamo mia sorella (che ok che è ok, come direbbe Little, e ok che non ha un buon rapporto con mio padre, ma finora non si è mossa di un millimetro: io le visite mediche, io la casa nuova, io la casa vecchia, io tutto, in pratica) e le chiedo come fare per il trasloco.

Ah, boh, mi dice. 

Nel senso, io non posso alzare pesi, ho l’artrosi cervicale, al lavoro neanche i cestelli della lavastoviglie mi fanno alzare, non posso fare il lavoro sporco, dico. 

Silenzio. 

Nel senso, insisto, magari troviamo qualcuno che lo fa per una cifra onesta, un paio di uomini con il furgone, le cose non sono mica tante, non ci sono mobili… 

Ah, perfetto! Informati!, dice lei.

E attacca. 

Nel senso, penso io, nemmeno questo? Nemmeno una mano per il trasloco?

Mi verrebbe da ricordarle che ha gli stessi doveri che ho io, in quanto figlia pure lei, ma poi sto zitta e chiamo Pronto Pro. 

Intanto sono riuscita a fare l’impensabile: prendere due giorni di permesso a lavoro. Oggi e venerdi. E forse anche un altro giorno, chissà… il futuro appare roseo. Se non fosse che per prendermeli devo lavorare a tutta velocità nei giorni in cui ci sono.

Il Capo mi dice: ok, Moon, se mercoledi non ci sei allora oggi, martedì, devi fare: gelato, sacher monoporzione, sacher torta, mignon al cocco, che sono finiti, i biscotti decorati, che stanno finendo…

Ehi! Ma ho solo 3 ore!, dico allarmata (poi devo trasferirmi al Ristorante, per il mio turno da cameriera). 

Appunto! Inizia! , fa lei.

Il risultato è che martedì pomeriggio esco da lavoro con il collo in fiamme (tipo ora, dopo una mattinata a fare scatole) e la voglia di iniziare a farmi di eroina. Ma invece devo fare altro, tipo i contratti di luce e gas per mio padre, trovarmi con l’agente immobiliare per il contratto. E poi c’è Little. Dentista, lezione di canto, rivedere un testo per italiano… 

Il fatto è che sono stufa di essere sempre da sola per tutto. e, oltre a lamentarmi, non so che altro fare.  

Sono tornata in modalità Moon Brontolo. Pentolina, appunto. 

Eppure se c’è qualcosa che è vero è che Barcollo ma non mollo

Quindi, in modalità Barcollo, per ora, faccio l’unica cosa possibile: un passo per volta. 

Intanto continuo la mia impossibile dieta, che prevede un’assidua presenza di Moon in cucina. E tanta fantasia. Il farro con zucchine e zafferano? Che ne dite? Potrebbe andare, no? In cima alla classifica però c’è lui, il salmone (che due volte a settimana posso mangiare). Quindi la mia cena preferita resta la piadina di farro con crema tartufo e funghi, salmone e spinacini. La versione Moon del fast food. 

Alla fine aprirò un blog con sole ricette per poveri malati di artrosi che non possono prendere medicine (tipo Aulin o morfina) e sono costretti a curarsi con la sola dieta. 

Potrebbe essere un business. 

Non ridete. 

Prendiamola a ridere

Notare che non mi fido e mi faccio mandare la foto della pressione di mio padre…

È un’ora tarda per me, le nove e venti.

Conscia del fatto che non terminerò stasera questo mio scritto, sento comunque la necessità di scrivere. Bene, mi dico. Stai tornando umana. 

È che sono fissa a risolvere un problema, quello di mio padre. Un uomo relativamente giovane per i tempi odierni (73 anni, non vi sembra giovane?) che si comporta come un novantenne senza speranze. Un uomo vitale, molto attento a se stesso, attaccato alla vita, egocentrico fino all’estremo limite ( tanto che spesso ha messo la sua vita di fronte a quella delle sue figlie, causando non pochi problemi di botta o di rimbalzo), un uomo vivo, insomma, trasformato in un Dead Man Walking in poco tempo, un anno per lo più. La causa ancora parzialmente sconosciuta. 

Una figlia non può che intervenire in maniera decisa in questi momenti. Facendo da genitore, insomma. Programmando visite, prendendo decisioni difficili… insomma, il solito tour dei Figli Di Genitori Malati (FDGM). 

Ma resta che sono anche Madre, vera, di un’adolescente. 

Insomma, mi trovo in quell’età bastarda in cui mi devo preoccupare sia dei figli che dei genitori. Tempo per sé pari a zero. Con resto. 

Oggi mi chiama Little a lavoro. Chiama di rado, quasi mai. Si affida a Whatsapp più che latro.

Mami, dice, c’è una lente a contatto nel cesso.

Lo so, dico, l’ho buttata io stamani perché era finita (le porto anche più del dovuto, Ndr, prima o poi divento cieca per un’infezione sconosciuta dovuta al portare troppo una lente a contatto).

Sì, ok, ma ti serve?

In che senso Bambi? (nomignolo che le affibbio random, quando per lo più voglio chiederle qualcosa oppure dirle che le voglio bene oppure, come nel caso, farle capire che non sto capendo)

Nel senso, posso farci sopra la pipì o vuoi recuperarla?

Che dire. 

Non diciamo nulla. 

E poi, più tardi, chiamo mio padre. 

Ciao, come ti senti?

Bene! Perché?

Sì, ok, la pressione la hai misurata?

Sì, la massima è 190. Non male vero? 

Come non male???? È alta! Babbo, dovresti tenerla sotto 160 almeno!

Ah sì? E chi lo dice? 

Tipo il tuo medico?

Ah, ok, ok. me lo dice sempre anche Moon.

Babbo…sono io Moon…

Ahahaha. Fa lui. Ahahaha. 

Ma io dico? Che te ridi?

Che poi, sì, lo ammetto, ci rido anche io. 

Ridiamoci su, che è meglio. 

Intanto la mia artrosi cervicale si fa sentire. Quella che un tempo chiamavo la Carogna. Da qualche parte l’ho già scritto, ma non so dove. 

Il mio ortopedico mi dice che peggiora con lo stress. E quindi ci provo a non stressarmi, tra i messaggi del Poeta (il mio ex ora lo chiamo così, il Poeta, anzi Er Poeta, dato l’ermetismo dei suoi scritti che neanche Ungaretti), mio padre con l’arteriosclerosi e mia figlia con le crisi di adolescenza e il lavoro con le crisi sempre e la mia cervicale con le sue crisi cicliche. 

Ci provo. Eh.

Intanto sono riuscita a finire di scrivere qui. 

Un traguardo. Sono le nove e quarantacinque. In ritardo di un’ora sulla tabella di marcia di Morfeo. 

Morfeo mi scuserà. Spero.