Stanotte ho sognato TDL

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Stanotte ho sognato il Tizio della Luna. Mi stava sorridendo, con quel suo mento sbruffone e l’occhio sinistro che trema solo un pochino quando si ferma a guardarmi. Alzava una mano, l’altra sul cuore, come sempre, come se si dovesse difendere dal mio sguardo. Faceva dei buffi passi di danza, e io ridevo, ferma, le gambe inchiodate dalla paura, quella morsa allo stomaco che mi prende quando si avvicina, e lui lo faceva a passo di danza, Lifeline, mi diceva, balliamo insieme, ti prego, come una volta, come quella notte, e poi leggimi ancora le poesie della Kristof, leggimi ancora Con un abbraccio. Stenditi sopra di me ed eclissa ancora la luna, Moon. 

E io alzavo la testa, le nostre bocche a sfiorarsi, i nostri respiri mescolati, le sue mani sui miei fianchi, le mie nei suoi capelli, Vieni più vicina, Moon, non ti farò male. So che è una bugia, me ne farà tantissimo e nessuno riuscirà a vederlo, ma il bene, il bene che ora voglio, non riesco a trattenermi, mi sollevo solo un po’, ci fondiamo, ci scambiamo l’anima in un continuo passaggio, e intanto tutto il mondo si è fatto più scuro, c’è solo la luce della luna, gli rischiara solo una guancia, fa brillare le sue palpebre socchiuse e poi. 

E poi i sogni se li porta via la sveglia. 

Il fatto è che fino a questo momento, cioè, fino a ieri, solo ieri, stavo pensando che scrivere questo blog e tutto il resto facesse davvero la differenza. Solo ieri, ripeto, mi dicevo: vedi? Già stai meglio! TDL sta sprofondando nel tuo inconscio, insomma, te ne stai dimenticando, brava Moon, vedrai che è stato solo un fuoco fatuo. Ti riprendi in poco tempo, altro che 300 giorni, ah ah! 

Ah.

Ed ecco che stanotte arriva e mi fa sentire come quel benedetto giorno di primavera e io mi chiedo: ma cosa ho che non va? Ma perché non ti rassegni? Ma che ti frulla in quel cervello atipico? Nulla, ecco cosa. Non ho nulla nel cervello, sono diventata mononeuronale. Non ho altre spiegazioni. 

E intanto la vita prosegue lenta, i giorni sembrano mattoni che non riesco a mettere uno sull’altro per farci delle buone fondamenta, sono tutti sparsi lì, a terra. 

Mi sono ripromessa che dopo le ferie (lavorando al Ristorante ho le ferie quando tutti rientrano a lavorare: una bella fortuna) dovrò mettermici con impegno, fare cambiamenti, prendere decisioni da persona adulta quale l’età mi dice che sono. Darmi una deadline mi ha sempre aiutato. Quindi aspetto. Aspetto e intanto sogno. E non dirò bugie: stanotte, di sicuro, cercherò di tornare lì, con lui. Se esiste un momento perfetto per credere ai sogni lucidi è questo. 

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Il GA e il Viaggio

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Ho passato altri momenti della mia vita durante i quali avevo Grandi Progetti. Sono sempre stata una Donna da Grandi Progetti. Appena me li comunicano salto di gioia come fossi una bambina con lo zucchero filato. Poi l’entusiasmo scema appena arriva quella vocina a dirmi: Grandi Progetti? Non fanno per te. Sei una mediocre. Non ce la puoi fare. Keep calm and Porta i piatti al tavolo Uno. 

L’ultimo non è da meno. La proposta? Scrivere testi per un Grande Artista. Lui mette la musica e io le parole. Funziona così, il Grande Artista è amico di amici di amici. Gli amici all’inizio della lista mi dicono di andare a conoscerlo. Guarda che G.A. è un uomo alla mano, bravissimo. Io ascolto la sua musica e in effetti mi incanto, mi piace, sento che ha qualcosa che ribolle nel sangue ed è simile alla benzina che ribolle nel mio.  Passo ore a sentire le melodie, penso a una selezione di parole che possano andar bene, e una domenica mattina mi faccio dare un turno di riposo e prendo un treno. 

Credo che la migliore cosa che possa capitare all’uomo sia fare un viaggio. Il viaggio, come dice Magris, è tutto per l’uomo. Mi godo ogni minuto sul treno, perché non lo so cosa hanno i treni, ma mi piacciono da morire, mi sembra che siano un covo di vite, e in effetti lo sono. La gente, mentre viaggia, si rivela. È come se la guardassi seduta sul divano di casa sua, in un certo senso. 

Osservo una ragazza in piedi in fondo al vagone, è altissima e bellissima, ha i capelli di Arnorld (Che cavolo stai dicendo, Willis?), non so perché non riesco a staccarle gli occhi di dosso, ha un’eleganza anche nel restare ferma che invidio da morire.

Il treno si ferma. La ragazza con i capelli di Arnold scende in due passi. Quasi mi dimentico che devo scendere anche io.

Il GA abita vicino alla stazione. Solo quando imposto sul navigatore l’indirizzo esatto mi rendo conto di cosa sto facendo: un grosso buco nell’acqua. Mi si sta aggrovigliando lo stomaco, le gambe non sembrano voler procedere un granché e quando busso alla sua porta ormai sembro già il fantasma di me stessa. Con i capelli che sono un casino.

Il GA è un omone sudato e spettinato quasi quanto me. Ha la presa forte e un sorriso buono. Mi fa sciogliere in poco tempo il nodo che ho nello stomaco, mi offre del vino, inizia a parlare dei suoi progetti, mille progetti, talmente tanti che non ce la faccio a seguirli tutti, mi capisci? Certo, certo che ti capisco, GA, tu sei un GA e tutte le piccole Moon come me bussano alla tua porta chiedendo quello che ti sto chiedendo io, e tu sei stanco, vorresti solo essere lasciato in pace, ti capisco GA, non credere, e infatti dopo poco ti faccio parlare di altro, ti faccio raccontare delle piccole cose, che lo so come ci sente, da stanchi, e io alla fine sono contenta così, solo per averti conosciuto, perché ascoltare la tua musica, quella domenica, e poterti chiedere le cose, e ascoltare le tue risposte, mi basta. 

Il viaggio, mi ripeto andando via. 

E nonostante i reciproci contatti scambiati e tutto il resto, so che con GA non si farà nulla. Me lo sento sotto pelle. Ma chissenefrega. È sempre stato il viaggio, Moon, mai la destinazione. 

E io ho ancora un sacco di strada da fare. 

Intanto ho iniziato a scrivere un racconto. Su una ragazza bellissima che ha i capelli di Arnorld. 

L’unico modo che ho per pensare è scrivere

Post 11

Sono passati più o meno venti giorni da quando ho iniziato il count down del tempo che ho stimato mi ci sarebbe voluto per dimenticare TDL. Mi sono scontata la pena, diciamo, ma il traguardo è ancora lontano. Va detto che la prima a non semplificarsi la vita sono io: ascolto una playlist su Spotify così deprimente che devo tenere i Kleenex accanto al pc, quando mi fermo un attimo sul divano mi perdo a ricordare le sue parole, rileggo messaggi e mail. Ma sopratutto controllo. Controllo i suoi accessi su Facebook, Twitter, Google+, Instagram, LinkedIn. Guardo se qualcosa cambia nella sua vita, sono una spiona, aspetto che distrugga i miei sogni impossibili con qualcosa di possibilissimo e realistico, come la foto in bianco e nero (che fa più figo) del famoso anello di fidanzamento. Oppure un post con un centinaio di faccine felici che annuncia il matrimonio. Ma nulla. TDL è un riservato, nonostante tutti i suoi maledetti social. 

E poi c’è questo valore aggiunto, i messaggi che mi manda, dove non dice mai assolutamente nulla, è quasi una spam, ma quando leggo TDL sul telefono sento che, sì, il giorno zero è ancora lontano. 

Nel frattempo passo questo mio giorno di festa dal lavoro bighellonando, dormendo, leggendo, scrivendo, guardando serie tv con mia figlia, andando al discount a fare la spesa. E nulla mi appare più superfluo del far scorrere i giorni così, senza di lui. Sento che la vita la sto proprio sprecando, e l’unica cosa buona che ho è la scrittura, questa forma folle di vivere dentro le parole, quelle vere e quelle no, quelle oneste, sempre. Perché solo l’onestà vale qualcosa, ché la verità non esiste, è solo una forma di bugia che raccontiamo a noi stessi, ma l’onestà sta proprio qui, nel capirlo. E le parole riescono a farmi questo, riescono a farmi sentire più onesta (certo, se le scrivo con la pancia) e quindi in un certo senso migliore. E poi mi fanno pensare. Sono l’unico mezzo che ho per riflettere su qualcosa senza avvitarmici (ormai ho rubato a TDL questa parola e la uso non guardando al copywrite). Peccato che tutte le parole che butto in giro, qui o su carta, non servano a nessuno se non a me. 

Credo che il Censore abbia annusato questo la prima volta che ha bussato alla mia porta. Sapeva dove colpirmi per fare male e l’ha fatto. Ha visto che la mia debolezza è il giudizio degli altri e mi ha gambizzato. Io ho provato a scrivere racconti che potessero avere un valore sociale, all’inizio. Ma non c’era pancia, solo belle lettere una dietro l’altra. E, insomma, l’italiano mica lo so solo io ( e poi nemmeno quello, so davvero) e tutto quello che ho scritto era banale, e già scritto. Già detto. Un mio vecchio compagno d’armi, un giorno, mi disse qualcosa a proposito. Ci rigiravamo tra le mani una lattina di birra scadente parlando di racconti, scrittura e stili,  e lui si fermò, mi guardò e mi disse: insomma, Monica, se hai qualcosa da dire, dilla! Credo che conti solo questo. 

Non ha mai avuto torto. Ma io ho perseguito la strada del bello stile, della bella parola, della bella immagine per anni, facendomi sanguinare le mani anche cinque ore al giorno. I risultati che ho ottenuto, nonostante impegno e fatica, non sono poi granché. 

Questo blog, invece, libera le parole scritte con la pancia, che non sono ugualmente nulla, ma almeno mi fanno stare bene. E dico quello che voglio dire, anche se non so quanto gliene freghi alla gente. Che poi, cosa importa davvero alla gente? Ma chi lo sa.

E allora dico quello che ho da dire, come disse il compagno d’armi, urlo (ma a bassa voce, sia mai che i vicini mi sentano) che questa vita mi sta stretta e che sono troppo codarda per fare qualcosa in proposito. Se non, appunto, scriverlo. 

L’Amico Speciale

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Mi rigiro tra le mani uno di quelle casette da turisti, una palla di vetro con dentro una Mont San Michel in miniatura su cui piovono finti fiocchi di neve quadrati. È un regalo di una amico. Amico. Insomma. Diciamo un Amico Speciale. Un amico con benefits. Da due anni a questa parte l’Amico Speciale è stato spesso una spalla su cui piangere. E ho pianto un casino. È stato spesso un posto caldo dove rannicchiarsi nelle sere d’inverno. È stato spesso anche solo una presenza solida sul divano accanto a me, guardando film e documentari sulla seconda guerra mondiale (ognuno ha i suoi difetti). Cosa ci sia davvero tra noi ancora non lo so. C’è. Mi fa bene. E non mi voglio fare altre domande. 

L’Amico Speciale è tornato dalla sua vacanza ieri sera all’ora di cena e ha bussato ala mia porta. Occhiaie profonde, una bottiglia di vino in una mano, la palla di vetro nell’altra, un sorriso appena accennato che non necessita di altre parole. Ho messo su un po’ d’acqua e ho cucinato della pasta. In bianco. Lui si accontenta di tutto.

L’ho aggiornato sulle novità, gli ultimi messaggi folleggianti del mio ex, il progetto con il Grande Artista, il lavoro. Trenta minuti di chiacchiere ininterrotte (mie) e di lento masticare la pasta scotta (lui). Siamo in armonia per questo: io parlo e lui finge di ascoltare. E poi finisce sempre anche la mia porzione di pasta, che io non mangio per negligenza. 

Ho sempre detto più o meno tutto all’Amico Speciale, ma non so perché non riesco a dirgli di TDL. Non riesco a parlarne davvero con nessuno, come se fosse solo un parto della mia immaginazione o che so io, qualcosa che voglio tenere al caldo, solo per me. È un amore così fragile che mi sento in dovere di proteggerlo dal mondo. 

Comunque, dopo cena l’Amico Speciale ha iniziato a sbadigliare e mi ha chiesto se poteva restare a dormire. Viaggio lungo, sono tante ore che sono sveglio, una doccia e poi dormiamo? 

Mi sono stesa sul suo petto che profumava del mio bagnoschiuma mentre lui mi pettinava i capelli, ho chiuso gli occhi e mi sono addormentata subito. È stato un bel dormire. 

La mattina davanti al caffè gli ho detto: dovremmo farlo più spesso, di dormire insieme. Lui non ha detto nulla, mi ha dato un bacio sulla fronte e se ne è andato. Tornerà. Torna sempre. Di sicuro non torna per la mia cucina. Credo sia un po’ come stringersi l’una all’altro per non cadere nel precipizio. Ma senza tutta quella roba sulla disperazione. Ci teniamo stretti perché siamo lì entrambi e non c’è nessun altro. 

E ora che se ne è andato, io mi rigiro la piccola Mont san Michel tra le mani, bevo il terzo caffè della mattina e penso che alla fine tutta questa sfortuna non ce l’ho davvero. Guardo attraverso la palla di vetro e penso al mio futuro. 

La sfiga è sempre in agguato!

post 8

Oggi è venerdì 17. Superstizione, cari miei, superstizione a go-go. Non credo in nessun dio, ma ho una cieca fiducia negli oroscopi e nella sfiga. Specchio rotto? Sale rovesciato? Cappello sul letto? Maledetto gatto nero che attraversa la strada e mi blocca lì anche per un quarto d’ora prima che passi un’altra macchina in senso inverso? Le ho tutte, dalla prima all’ultima, messe in ordine  e incollate come figurine in un album Panini. 

Oggi è venerdì 17. Mi aspetto grandi cose da questa giornata, tanto che dovrei uscire con l’armatura. 

Cerco invece di essere positiva, vado a lavoro cantando i Muse a squarciagola (i Muse mi danno sempre la carica, sono una donna inversamente proporzionale), lavoro sodo non pensando a nulla (o quasi) sorrido ai clienti del Ristorante, che è la cosa che amo fare di più. Perché vedete, lavorare in un ristorante è come andare in scena: un po’ di trucco (e io ne metto il minimo indispensabile), un vestito adatto (la divisa) e il copione imparato a memoria: c’è qualcosa di più facile? Certo, ci sono giornate in cui devi improvvisare, ma quando vai in scena 250 giorni su 365 (ma forse sono di più, ho fatto solo un conto approssimativo) conosci bene i trucchi del mestiere. Insomma, lavorare per me è una liberazione quasi artistica. 

Sempre che non ci sia di mezzo TDL, ovvio. Perché con lui ho delle difficoltà fisiche da superare. Una volta mi è scivolato un piatto dalle mani. Un’altra sono inciampata in una sedia, rovesciandola. Un’altra ancora ho portato del vino al tavolo di una signora che voleva solo acqua e dell’acqua al tavolo di una coppia che voleva solo vino (divertente il fatto che entrambi i tavoli non mi abbiano fatto notare l’errore…). Insomma: combino casini. Ma non rinuncerei mai a vedere gli occhi di TDL, nemmeno per un secondo. 

Venerdì 17, ripeto. Ma TDL è in ferie, come ho detto (lido bellissimo e romantico con DSV, vedi post precedente) e quindi non corro rischi. Forse.

Il Forse arriva alle tredici in punto, sala piena di gente, nemmeno un buco in piedi, io che corro con oliere e cestini di pane, la cucina che sputa letteralmente fuoco (anche dalle narici). E lui. Da solo. Con l’aria spettinata. 

C’è un tavolo per me? 

Cavolo, io per te lo fabbricherei sul momento, un tavolo, vorrei dirgli. Datemi del legno, vi prego!

Ma no. 

Non ce l’ho.

Forse se aspetti una decina di minuti, dico guardando il tizio che è ancora all’antipasto. 

Ho fretta, mi dispiace. 

Cazzo. 

Ed ecco che arriva a darmi una mano il dio delle piccole cose, mi fodero la faccia con un sorriso, quello che indosso senza problemi 250 giorni su 365, tiro fuori dal taschino della camicia un biglietto da visita del locale e gli dico: la prossima volta chiama, così il tavolo ce l’hai assicurato. 

Lui se na va lo stesso. E io devo farci i conti. 

Magari dopo aver servito tutte queste persone, però.

Quando finisco di lavorare trovo due messaggi sul telefono. Il primo, alle dodici, mi chiede se ho un tavolo per una persona. Il secondo, alle tredici e trenta, è solo un punto interrogativo. 

Forse la prossima volta chiamerà il Ristorante, invece di mandare messaggi a me. E forse, dico forse, io sentirò una fitta allo stomaco, come se gli avessi tolto anche quell’ultima scusa per mandarmi un messaggio. 

Ma almeno sarò sicura di vederlo. 

Messi Male del mondo, cercate di capirmi…

Il Tizio della Luna e la Donna della Sua Vita

post 7Il fatto è che TDL mi manca da morire. Mi manca quel quotidiano scambio di banalità che avevamo, mi sentivo completamente nella sua vita, mi comunicava ogni suo spostamento, ogni opinione sui fatti di cronaca, erano milioni di messaggi scritti, vocali, telefonate, mail. Ero come una compagna virtuale. Ma nella realtà, nella realtà vera, quella reale, ero solo una conoscente, qualcuno da salutare se incontri al supermercato limitandosi a un Ciao, senza nemmeno prendersi il disturbo di aggiungere Come va. Credo sia stata questa dicotomia a farmi sbroccare. Il suo (e mio) tenere segreta questa specie di intesa era necessario (giustificazionista), indubbiamente la DSV non avrebbe capito. O avrebbe capito pure troppo, se avesse visto il mio sguardo da pesce lesso. Insomma, le cose sono andate così. Mettiamoci una pietra sopra e andiamo avanti. 

Già.

Andare avanti.

Mi chiedo dove diavolo dovrei andare, adesso, dato che mancano ancora ben 288 giorni alla fine di questa agonia. 

Nel frattempo cerco di non pensarci, mi sforzo di non notare la sua assenza in questa settimana che è in ferie, e quindi niente pranzi al ristornate per TDL, se ne starà sbracato al sole in un posto tipo Corfù, con le eleganti e abbronzate braccia della DSV attorno al collo, la sera usciranno a passeggiare al tramonto mano nella mano, lei con indosso solo un abitino bianco trasparente, lui con quell’aria spettinata che si ritrova sempre, con quel look non curato curatissimo e il berretto calato sugli occhi, la mattina faranno colazione con croissant deliziosi seduti su un balcone che si affaccia sul mare, guardandosi negli occhi, e forse sarà in un posto come quello che finalmente le chiederà di sposarlo, visto che rimanda da una vita, dice, per un motivo o per l’altro, tirerà fuori l’anello dalla tasca dei suoi pantaloni, un anello semplice ma bellissimo, si metterà in ginocchio, una cosa che fa con molto rispetto, e non dovrà aggiungere altro, saranno per sempre TDL e DSV, la coppia perfetta. 

Come ho detto, cerco di non pensarci. 

Intanto i giorni passano lentamente, io mi sono buttata in un progetto di reportage di storie vere che non ho idea dove mi porti (presumibilmente esattamente nello stesso punto di ieri, qui)con un Grande Artista, cerco di uscire a cena con altri uomini (deludenti), aspetto in gloria il ritorno di mia figlia dal mare, abbronzatissima e ingrassata di quattro chili (le ferie hanno sempre fatto male alla sua dieta), cerco di evitare gli incessanti inviti a cena di mia madre e della sua nuova compagna (che di solito cominciano con acerrime dispute politiche e terminano con accuse da parte di mia madre e recriminazioni da parte mia: la solita solfa), lavoro like a dog, per dirla con i Beatles. 

Ma la notte resto da sola. Mi rigiro nel letto cercando di scacciare i pensieri, mi assopisco per pochi minuti, poi mi risveglio, tocco con la mano la metà del letto alla mia sinistra, sempre vuota, intonsa, nemmeno una piega delle lenzuola. Allora apro la finestra, se ho fortuna il cielo è libero e stellato, lo scruto per cercare una stella cadente, prima o poi ci riuscirò, e nel mentre i miei occhi vagano a destra e sinistra, la mia mente si perde nel buio. E finalmente il mio corpo crolla, esausto. 

Moon e il suo Ego

Post 6

So di essere particolarmente autoreferenziale in questo blog. So anche che con molta probabilità resterò un granellino di sabbia sepolto sotto ad altri mille. Ma la mia è questione di Ego e di scrittura, tra le altre cose.

Qualche tempo fa pensavo a cosa mi manca davvero per fare la scrittrice. Insomma, conosco l’italiano meglio di altre persone, sono abbastanza precisa nella scelta delle parole, ho studiato a fondo interi manuali di scrittura creativa, conosco le storie degli scrittori che più ho amato, riconosco uno stile creativo da uno classico, so cosa occorre a una storia perché sia tale… eppure. Eppure mi sento bloccata. E non è il blocco dello scrittore, perché io non lo sono. È il maledetto Censore. Ora, questo essere infimo, brutto come il peccato, infingardo e traditore, riesce a far presa su di me perché non ho un’ Egosfera che staziona sopra la mia testa come l’astronave madre di Indipendence day. Il mio Ego è ridotto ai minimi termini per i motivi più vari e che non mi metterò certo qui a elencare. Ho il tatuaggio di Loser sulla fronte come la povera Drew Barrymore in Mai stata baciata. Me lo sono tatuata da sola, in tanti anni di perversa autodistruzione e qualcuno ha sempre contribuito a rendere visibile l’inchiostro. 

Quindi sto tentando di rimpolpare il mio Ego, vomitando a caso la mia vita, esternato quello che sono, mostrando al mondo che sì, Moon ce la può fare! È un po’ autoconvincersi e un po’ ingannarsi, che poi sono la stessa cosa.  

Certo è che il mio Ego (lo tratto con le maiuscole, che se lo merita, oppure io mi sto autoconvincendo che se lo merita) viene stroncato quando, come ieri, il mio TDL viene a mangiare al ristorante dove lavoro con la DSV (Donna della Sua Vita). Che gesto infimo. Che delicatezza ridotta allo zero assoluto. Che infamia. Che… non ho più Che da aggiungere. Mi chiedo come abbia potuto farmi questo. Insomma, oggi sei un TDL diverso, un Testa Di Legno. Ma non ci hai pensato? Immagino di no, e questo mi fa pensare di essermi innamorata proprio dell’uomo sbagliato. Ma siccome sono una giustificazionista, lo sono da sempre, ho sempre giustificato anche il mio ex, che dopo due anni continua a mandarmi messaggi di minacce, giustifico mia madre che se ne è andata di casa quando ero piccola, giustifico il mio primo datore di lavoro che mi faceva lavorare al nero e non mi pagava gli straordinari, come non posso trovare una giustificazione al TDL, di cui sono follemente innamorata? 

Ed ecco come ho ragionato (più o meno): ho conosciuto TDL perché è un cliente (più o meno) fisso del ristorante dove lavoro come cameriera; viene a mangiare lì quando è a lavoro, da solo o con alcuni colleghi; sicuramente avrà detto alla DSV che mangia spesso proprio in questo ristorante; e altrettanto sicuramente avrà giustificato questo fatto con cose tipo Si mangia benissimo, cibo ottimo, prezzo onesto, magari tralasciando il servizio eccellente tra le qualità, per non destare sospetti; magari DSV avrà pensato, Se è così eccellente perché non ci porta anche me? E avrà detto così anche a TDL, che, alle strette, non ha potuto dire di no a una cena intima con lei nel ristorante di cui dice meraviglie. Il ragionamento torna. È stato costretto dagli eventi. Non voleva ferirmi. Perché che mi feriva lo doveva sapere, dopo che io gli ho detto Quello Che Gli Ho Detto. Perché io a vederlo così, carino, con i capelli spettinati del tipo Mi sono appena svegliato anche se sono le otto di sera, proprio non riesco a tollerarlo senza che le gambe mi cedano, perché vedere lei, bellissima, elegante, al seguito, mi ha staccato quell’ala di farfalla che credevo di possedere e ora devo ricompormela da capo, come se sapessi come si fa, a farsi ricrescere un’ala! 

E l’estate sta finendo. E la leggera brezza sulla mia pelle in questa sera estiva mi fa rabbrividire. E il mio Ego sprofonda di nuovo nelle viscere della terra, spaventato, annichilito dagli eventi, turbato da una parola che stenta a capire davvero: amore. 

Acronimi

post 5

Diciamo che a questo punto avete un’infarinatura della mia vita, una base da cui partire, anche se non mi sono ancora presentata. Mi chiamo Moon che non è, ovvio, il mio vero nome. Mia madre è strana, ma non fino a questo punto. Questo nome me l’ha affibbiato TDL quando, un giorno, parlavo di acronimi per acronimi. Gli ripetevo la solita tiritera sul Novecento, che è il secolo degli acronimi: O.N.U., N.A.T.O, E.U.R. e chi più ne ha più ne metta. E così via gli ho snocciolato tutta una serie di acronimi che uso ogni tanto, il P.D.V. (Punto di vista) del narratore, F.S.F. (Francis Scott Fitzgerlad), D.F.W.(David Foster Wallace) e altri. Non so perché, ma gli acronimi fanno proprio al caso mio, che non ho mai tempo da perdere quando parlo di qualcosa che mi appassiona. E così lui ha risposto: tu sei M.O.O.N , Molto Ostinata O Nevrotica, oppure sei Moon, come luna, e il tuo lato in ombra non me lo mostri mai. 

Forse ora capite perché mi sono innamorata di TDL. Le donne si fanno fregare da cose come queste. Almeno. Io mi ci faccio fregare alla grande.

Il fatto che io non stia insieme a TDL, cantando canzoni mentre facciamo la doccia insieme o scrutando il cielo di Agosto per beccare una stella cadente(che io, tra l’altro, non ho mai visto in vita mia e quando la vedrò la prima volta sono certa che urlerò come una bambina, oppure diventerà il mio più grande rimpianto)  invece che scrivere su questo blog non è facile da spiegare. Oppure sì: lui ha un’altra. E non un’altra a caso, ma un’altra donna di cui è innamorato. Fine del lieto fine, tutti a casa, sarà per la prossima volta, Moon. 

Ma. 

Ma. 

Ma. 

E la vita è tutta una serie di Ma uno in fila all’altro, tipo locomotiva e vagoni.

Ma al mio cuore non gliene importa un fico secco.

Mi ero sempre chiesta come si potesse amare un uomo e non essere ricambiata. Credevo che l’amore fosse un flusso continuo tra due persone, uno scambio etico e solidale, come i prodotti della Coop, io ti amo, tu mi ami e il mio amore cresce grazie al tuo e viceversa. E poi ho scoperto che non funziona così. Funziona che tu incontri una persona che ti piace, ci parli e ti piace ancora di più, lo sfiori e senti della roba che se non avessero abolito l’elettroshock saresti convinta di essere al manicomio, lo vedi da lontano e le gambe iniziano a tremare, ci parli e il respiro fatica a uscire. E ti ritrovi al sera sotto le coperte a pensare che vita magnifica sarebbe la tua al suo fianco, che no, con una persona così la quotidianità, killer di ogni rapporto di coppia, non riuscirebbe nemmeno a fare un graffietto, che vorresti fosse il padre dei tuoi figli, che ne vorresti ancora, di figli, solo per dargli lui come padre, che una sera a casa a guadare la tv con lui seduto accanto a te sul divano potrebbe essere come scoprire che esiste Shangri-La. Insomma. Capite la follia? Capite come sono messa, maledizione? E chi non vorrebbe disfarsi di pensieri così, dopo una militanza di quarant’anni nel Partito dei Cinici? 

Ho ancora 292 giorni, mi dico. Forse qualcosa meno. Poi il mio cervello andrà automaticamente in blackout, il sistema si riavvierà, e io potrò tornare a essere una militante perfetta.

40 anni: resocontiamo

La prima cosa che posso dire è che ho 40 anni. Non so perché da un po’ di tempo a questa parte sia diventato così rilevante, avere un’età, fino a poco fa non me ne curavo, mi potevo curare del rotolino di ciccia attorno ai fianchi, del primo capello bianco, delle smagliature sul seno dopo l’allattamento, e nemmeno poi un granché, in effetti. Non sono mai stata un’appassionata del Fuori. Ho sempre preferito curare il Dentro. E in effetti non ho mai fatto uno sport, mai palestra, fumo come una ciminiera, mangio a caso, ma adoro studiare, leggere, conoscere persone nuove e stimolanti, vedere posti, abbracciare culture, qualsiasi cosa nutra il mio Dentro è pollice in su, tutto ciò che ha a che fare con il corpo è pollice verso. Non l’ho scelto, è un’attitudine di vita. E so che sbaglio eccetera, mens sana in corpore sano, correre scarica il corpo e dà sollievo alla mente, avessi un centesimo per ogni volta che me l’hanno detto sarei alle Canarie ora, a godermi il sole foreverandever invece di stare chiusa qui, nella stanzetta, a vomitare parole sulla tastiera. 

Ho tentato qualche cambiamento. 

Ho passato un periodo “Cibo salutare”. Scelte biologiche, a chilometro zero (vivo in un posto dove farlo non è così impegnativo come in città), sei pasti al giorno con i quali ero anche dimagrita. L’impegno di questa ricerca, in effetti, ha avuto i suoi lati positivi: occupava costantemente il mio cervello. La mattina mi alzavo e pensavo già a cosa avrei cucinato, dove avrei comprato le verdure o il formaggio, mi facevo spuntini sani da portare a lavoro, insomma, un sacco di tempo speso solo per il cibo. Mi sono annoiata alla svelta. Perché a me, fondamentalmente, il cibo, non interessa. Non mi piace mangiare. Lo faccio solo perché devo, sennò non starei in piedi, ma non ho gusto, sebbene poi sappia che un buon pecorino stagionato risulta in bocca migliore rispetto a un primo sale. Ma se c’è il primo sale…

Non è passato molto tempo dal mio periodo “Sforzati di muoverti”. Due, tre volte a settimana mi sono fatta sette chilometri a piedi, passo veloce (la corsa per una come me potrebbe essere come il pane per i celiaci), ascoltando musica, concentrandomi sui miei piedi (osservavo le mie scarpe da ginnastica e pensavo che in fin dei conti il numero delle scarpe da ginnastica comprate nella mia vita si contano sulle dita di una mano), sudando moderatamente, rientrando a casa un po’ più stanca. I primi giorni ha funzionato benino. Mi impediva di pensare troppo, di avvitarmi nei pensieri, come dice il Tizio della Luna. Ma l’effetto è durato poco e mi sono annoiata alla svelta. 

Quello che non mi annoia mai, invece, è leggere, a mano che il libro non sia scritto con i piedi. Quello che non mi annoia mai è imparare cose nuove, specie se riguardano la scrittura. Quello che non mi annoia mai è scrivere, ed eccomi qui, invece di iscrivermi a un corso di Taekwondo. 

Ma ho divagato, torno a quella cosa dei quaranta. Non so se sia una scalino sociale che mi influenza psicologicamente, non so se sia la disparità che inizio a vedere tra me e i ragazzi di vent’anni, non so se sia un termine che mi sono data, che so, quando avevo dieci anni per fare resoconti della mia vita: fatto sta che in questa estate 2018 è quello che sto facendo, sto resocontando la mia vita, sto cercando, ancora, di capire chi sono, cosa voglio, cosa faccio. Ma sopratutto, cosa farò. 

E io che credevo di essere a posto con la mia vita, di averla ormai programmata tutta, fino alla pensione (sì, lo so, sto usando parole vetuste, che cadranno in disuso), mi ritrovo in questo limbo di incertezze cosmiche che mi crea non poche angosce. 

Magari è solo una classica crisi di mezza età. 

Saluto quindi con poco rimpianto la mia mezza età andata e vediamo cosa mi riserva l’altra metà.