Dell’Amico Speciale e altre delizie (?)

Sta tornando a casa l’Amico Speciale. 

Entrerà dicendo: che giornata di merda (lo avevo detto che tornavo senza censura, no? Quindi ho tolto gli asterischi: faccio pregressi, vero?). Ma poi annuserà l’aria, dirà Che profumino, che si mangia?  E andrà diritto al forno dove stanno cuocendo le lasagne. E io avrò una notte di sesso. Quindi direi che le cose si prospettano bene. 

Mi chiederete come lo so, se leggo il futuro. E invece no, è la solita solfa della profezia che si autoavvera, Watzlawich, il mio amico di sempre. Ma stavolta mi sa che ci guadagno.

Sono talmente sicura che ci scappi una seratina che, dopo la doccia, mi sono messa a fare una maschera (che mi ha dato la mia estetista per i miei capillarini, così dice lei, che sul viso si notano un po’ troppo). Poi mi sono data il tonico e la crema Super blu (quando me la do, sembra Puffetta, ma meno carina). Sempre per i miei capillarini, sempre crema super cara dell’estetista. Poi mi sono data la crema corpo elasticizzante (quella della Coop, stavolta). Mi sono lisciata i capelli con la piastra, che sennò sembro Merida (Ribelle, presente?) e mi sono lavata i denti. Poi siccome il mio dentista ci tiene (io ‘nsomma), mi sono passata il filo. 

Tutto per dire che prima, forse un prima di tanto tempo fa, non avevo bisogno di tutte queste manutenzioni. Facevo la doccia, al limite il deodorante, niente ceretta, solo rasoio, il parrucchiere una volta ogni sei mesi… ora è un turbine di appuntamenti: estetista una volta al mese, parrucchiera ogni mese e mezzo, ginnastica posturale una volta a settimana. Sembro proprio la mia vecchia Winny, che mi fa vedere il meccanico più di quanto veda mia madre, e per quanto la compagnia del mio meccanico sia più piacevole di quella di mia madre, fa battute splendide e mi fa ridere un sacco, il mio portafoglio non è così felice quando vado via dalla sua officina. Mi sa quindi che ho raggiunto i 150.000 chilometri. 

Ma l’Amico Speciale, per fortuna, è un amante del vintage, quindi tutto ok. Inoltre, come sopra, conosco il suo punto debole: il cibo. Nutrilo e ti ringrazierà come meriti. 

Va detto che non è neanche così difficile accontentarlo in cucina. non è come Little che non mangia i gamberetti perché gli dispiace o i fagiolini perché Sono piena, grazie. E poi si abbuffa di riso. Lui mangia tutto. Ma tutto tutto.  

L’altro giorno, tornando a casa, l’ho trovato con un bastoncino Findus in bocca. Guardo il forno: spento. Tocco il forno: freddo. Guardo l’A.S. Lui fa finta di nulla.

Quello da dove lo hai tirato fuori? 

Dal congelatore.

E quando l’hai cotto?

Tocco il bastoncino: congelato. 

Stai mangiando un bastoncino ancora congelato? (mi trattengo dai conati)

No, sto mangiando gelato di pesce!

Ho iniziato a imprecare e a dire che se poi sta male io all’ospedale non ce lo porto e tutto il repertorio. Ma poi non ho resistito e ho iniziato a ridere talmente tanto che la pancia mi faceva male. 

Quindi posso permettermi di essere pure una pessima cuoca: tanto tutto quello che faccio sarà buonissimo. 

p.s. Ho sbagliato di poco, la sua battuta, entrando, è stata: Sono stanco morto, che giornata di merda. Poi tutto come sopra, finora. Aspetto di aver finito le lasagne per sapere quanto sono brava.

p.p.s. ovvio che non comprerò più i bastoncini Findus

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Grice-comunicatrice

La mia gestione di questo blog è alquanto squilibrata. Nessun articolo per giorni e giorni e poi due di fila. So che non si fa così, che dovrei cadenzarli, ma io mi sento piena di libertà, qui, quindi me ne sbatto. 

O meglio, me ne sbatticchio.

Dopo aver incontrato, per caso, durante la bellissima iniziativa del mio piccolo comune di pagare la metà dei libri comprati sotto l’albero, Vera Gheno. Non l’ho incontrata dal vivo (avrei potuto se solo fossi andata il giorno prima, ma si vede prima dovevo leggerla e poi allora vorrò vederla e ascoltarla), ma ho incontrato, con enorme piacere, i suoi libri. Per ora due, Potere alle parole e Le ragioni del dubbio. Ma dubito (ho imparato subito, visto?)che resteranno da soli sullo scaffale della libreria. 

Era tanto che non provavo entusiasmo per un libro. Mi ha ricordato il buon vecchio D.F. Wallace che in effetti cita a profusione. 

Ma i contenuti mi hanno fatto vacillare alquanto. 

Leggendola mi sembra di dover camminare sulle uova ogni volta che prendo la penna in mano. Io, che qui sono la regista del mio piccolo mondo lunare, che scrivo non correggendo i refusi, che improvviso, che butto qui e là acronimi incomprensibili e neologismi improbabili, che, insomma, sono una scrittrice confusionaria, mi sono sentita colpita nel vivo. Sebbene io creda di essere comprensibile ai più, il dubbio, che finora avevo ignorato, mi morde le caviglie. 

E quindi ecco che torno, grazie a Vera, alla mia elletta Pragmatica della comunicazione, che tanto mi aveva dato ai tempi del caro Watzlavick. Ma oggi arriva a gamba tesa Grice (Herbert Paul), di cui ignoravo l’esistenza. Il che mi fa riflettere sulla marea di cose che ancora non so e mi sgomento perché so che non riuscirò mai a colmare un cavolo, sono troppe e io non ho la capacità cerebrale (complice il mononeurone) per contenere tutto. Già contengo moltitudini, citando Walt, non Disney, ma Whitman, e qui lo spazio non è accogliente. 

Comunque, tornando a bomba, ci sono quattro massime conversazionali enunciate da Grice. Le analizzerò con voi e le riferirò al Moon World.

  1. La massima del modo. Ovvero, ricerca la maggior chiarezza possibile, trova la parola giusta, un po’ come fa fare Murakami a tre quarti dei suoi personaggi (che sono gli unici che hanno il tempo di star lì a cercare le parole giuste prima di parlare: a voi capita mai? A me di rado. Al limite se mi viene un attacco di afasia). Beh, ne ho già parlato: uso acronimi senza ragione (TDL, AS, per esempio), sono prolifica di forestierismi non necessari, uso a volte parole desuete (ma lo faccio per amore, non per posizionarmi). Scelgo le parole come faccio i sorpassi: a istinto. Quindi? Bocciata!
  2. Massima della relazione. Occorre imparare a stare sul pezzo, a non scrivere strabordando. Occorre selezionare ciò che serve e ciò che non serve. L’unica inerenza che vedo nei miei scritti è quella che sono usciti dalle mie dita… Bocciata!
  3. Massima della quantità. Forse mi salvo, almeno un po’? non essere né troppo stringati né troppo prolissi. Una giusta via di mezzo. Beh, se ci rientro è un caso. Riesco a concentrarmi al massimo per due paginette. Poi mollo. Una mezza vittoria? Mah…
  4. La massima della qualità. Ovvero Sii sincero. Credevo di vincere almeno sul punto quattro. Ma poi, pochi giorni fa, ho parlato con il Mentore (vi rimando qui se non ve lo ricordate, perché non lo vedevo e sentivo da tanto). E lui mi dice: Moon, manchi di sincerità nel tuo blog, devi rompere il vetro. Non sei tu, continua. Vero. Questo blog è solo una parte di me. Me differenti per momenti differenti. La totale sincerità è possibile? In ogni parte della giornata e della vita? Dove con Sincerità non si deve leggere banalmente dire o non dire bugie. Cosa significa essere se stessi? Cosa significa rompere il vetro? Dirvi il mio nome e cognome? Il mio profilo social? O farvi vedere anche tutti gli altri lati di me, anche quelli più oscuri? Oppure scrivere qui, per me, è come darmi una visione di ciò che vorrei essere sempre e non solo quell’oretta che mi metto a pesticciare sulla tastiera? Questa è una versione edulcorata di me o la versione che voglio disegnarmi? 

Se io fossi una brava comunicatrice, una Grice-comunicatrice direi, mi capireste di più. Ma soprattutto, io mi capirei di più? Non è che manco di comunicazione interiore, fallisco alla fonte, quindi? Non mi so comunicare? 

Non mi faccio queste domande a caso. Sono frustrata a livello comunicativo di recente. Forse perché parlo molto ( o provo a parlare) con il mio collega Osaro, che ancora non sa l’italiano e non capisce un tubo; parlo con mio padre che dopo una visita geriatrica ammette: non c’ho capito un tubo di quello che ha detto; parlo con la badante nigeriana di mio padre che, anche se l’italiano lo sa, a volte qualcosa gli sfugge. Mi manca essere capita al volo, mi manca la facilità. E quindi non vorrei farlo a nessuno, questo torto: essere contorta. 

Ma mi piace così tanto giocare con le parole… 

Magari il corso della Holden mi farà, tra le altre cose, tornare in carreggiata. 

O magari posso rinunciare a essere una Grice-comunicatrice e mettermi nell’angolo, dietro la lavagna, sopra i ceci. Rinunciando all’idea di aver fatto il mio dovere a livello comunicativo, ovvero di sviluppare circostanze che sono utili per l’altro. La grande legge che regola la vita nel cosmo è quella della collaborazione tra tutti gli esseri viventi, scrive Roberta Covelli.  

Con questo articolo ho fallito anche la massima numero 3: bocciata! Sto arrivando!

Fantasticare

Ho appena fatto la salsa guacamole e siccome ne sono davvero golosa sto cercando di distrarmi in qualche modo per evitare di finirla con una bella dose di tortillas e arrivare a cena con Little che mi rimprovera perché mangio fuori pasto. 

Nella frase sopra mi rendo conto che qualcosa non va, non crediate. 

Oggi ero in macchina e la macchina è, da sempre, il mio pensatoio (se qualcuno di voi ha masticato qualche Topolino, da piccolo, saprà che la parola non è uno dei miei soliti neologismi, ma l’ho rubato a Paperone). E fantasticavo.

Ora, questa parola, appena l’ho scritta, mi ha fatto venire in mente castelli, boschi, nuvole, draghi, principesse, valorose battaglie e tutta quella roba lì. In realtà fantasticare significa, per me, semplicemente toccare realtà parallele, cose che potrebbero accadere o che potrebbero essere accadute. È una sorta di E se… Kinghiano (un concetto che King esprime benissimo nel suo On writing e che lui definisce alla base di tutte le sue storie), ma con la mia vita che la fa da protagonista. 

Detto così sembra splendido. 

In realtà a volte non lo è affatto e difficilmente riesco a controllarlo. 

Alla base delle mie fantasticherie ci sono i disastri. Esco da casa per andare a prendere Little da suo padre (viaggio di andata+ritorno più o meno 15 minuti) e lascio la lavatrice accesa. In macchina non mancherò di pensare che la lavatrice si romperà, l’acqua finirà prima sul pavimento del bagno, poi inonderà il parquet in soggiorno e scenderà dalle scale, allegando la strada. Ok, questa fantasticheria prende spunto da una cosa che mi è successa davvero, in una delle mie vecchie case. Però io ero in casa e me ne sono accorta troppo tardi perché dormivo. 

Oppure. 

Sto, di nuovo, andando a prendere Little. Immagino di avere un incidente grave. Penso a chi potrebbe avvisarla senza farla morire di paura perché non sto arrivando. 

Oppure.

Penso che ci sarà una pandemia e ci saranno milioni di morti in tutto il mondo e io… ops. Questa è vera.

In ogni caso queste ipotesi di disastro immagino mi servano per prepararmi. Mi preparo al peggio, così non mi stupisco se accadono. Così ho un piano. Così posso fingere di controllarle. Ma so che in realtà non è poi del tutto vero. Watzlawick dice al contrario che così metto in moto una profezia che si autoavvera.  Che se ciò non vale per una casa che va a fuoco perché ho lasciato il fornello acceso per sbaglio, potrebbe valere per, che ne so, una litigata con Max (l’Amico Speciale): io mi pongo, psicologicamente, in una modalità da litigio, se così posso dire. E la cosa accadrà. Ma questa è solo un’ipotesi. Molto lontana a dire il vero. Perché io e Max non litighiamo mai. Mai. 

In ogni caso mi chiedo: queste mie strane fantasticherie non controllate che avvengono in auto mi fanno bene, tipo i sogni, oppure no? 

Un tempo il pensatoio era il posto in cui producevo tutte le idee per i miei racconti. Che poi non è che è cambiato molto, nei miei racconti ci sono sempre un sacco di tragedie. Come mi disse una volta mio padre: Io capisco, tesoro, che la vita dell’Ingegner Taldeltali che aspetta fuori dalla scuola sua figlia e che la abbraccia felice prima di andare con lei a mangiare un gelato non interessa a nessuno, ma tutte quelle morti che metti nei tuoi racconti…

Caro papino, in realtà oggi la storia dell’Ingegner Taldeitali sarebbe una storia rivoluzionaria. Una storia da post Covid. Ecco la trama: dopo due anni di pandemia, dove sono morti alla piccola entrambi i nonni (uno era in una Rsa), e la madre ha avuto danni neurologici post virus, finalmente la bambina torna a scuola (in presenza), ritrova tutti gli amici che non vede da mesi e mesi, li abbraccia (perché può), sorridono e i loro sorrisi riescono a vederli, non li immaginano e basta da sotto la mascherina, l’insegnante fa una lezione commovente sulla società che è cambiata, sulla responsabilità che hanno loro, i piccoli studenti, di fare in modo che una tragedia simile non si ripeta, su tutto ciò che non è andato bene, ma anche su tutte le piccole cose che invece hanno messo speranza nei cuori delle persone. Poi la piccola (chiamiamola Alice) esce da scuola. Suo padre, l’Ingegnere Taldeitali, è lì fuori che la aspetta (in mezzo a decine di altri padri e madri)e allarga le braccia. Alice gli corre incontro e lo abbraccia. Come è andata, piccola?, chiede il padre.  Come se fossi nata oggi, risponde la piccola , anche se  magari potrebbe non essere così piccola, sennò questa risposta è un po’ troppo, che ne dite. Va beh, mica era una storia perfetta. Era solo per dire a mio padre che sì, anche la vita dell’Ingegner Taldeitali che aspetta fuori dalla scuola sua figlia può interessare a qualcuno. 

E nel frattempo un paio di tortillas con la guacamole me li sono fatti fuori.

Merda. 

Il mattino ha il caffè in bocca

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Il mattino ha il caffè in bocca.

Se ripetessi questa frase all’infinito qui sarei la versione caffeinomane di Jack in Shining, ma nella versione italiana non originale. Sarebbe un buon modo per scrivere un romanzo…

Era un sacco di tempo che non dormivo tanto come stamani. Da una parte mi sento un po’ in colpa, dormire è poco funzionale al mio periodo di super attività, dall’altra mi ci voleva, dopo il week end di fuoco che ho appena passato. Mi sono goduta la compagnia della mia Ale, un po’ di shopping venerdì (una cosa che credo sia la prima volta che facciamo insieme), una spettacolare conferenza sabato sui neuroni specchio. I conferenzieri, il neuroscienziato che li ha scoperti e un filosofo della scienza, sono stati davvero in gamba, hanno parlato in modo semplice, hanno spiegato il meccanismo dell’empatia. E mentre loro parlavano io riflettevo, di nuovo, su quella cosa che dico spesso: io sento. Dopo aver letto il libro di Watzlavick che mi ha regalato l’Amico Atipico su come rendersi infelici la certezza che le mie sensazioni siano corrispondenti alla realtà delle emozioni altrui ha un po’ ceduto: riconosco che spesso l’uomo parte per percorrere un circolo di paranoia senza fine che crea solo dolore. Ma all’origine di queste sensazioni (che io poi continuo a chiamarle così, in realtà sono vere e proprie esperienze che noi facciamo osservando gli altri)c’è qualcosa di fisico, c’è un vero e proprio meccanismo nel nostro cervello che si mette in moto e ci fa comprendere, grazie al nostro modello interno degli stati affettivi, ciò che vediamo provare agli altri. È stato ad esempio dimostrato che se vediamo qualcuno che ha un’espressione di disgusto dipinta in faccia il nostro cervello attiva un’area che attiverebbe allo stesso modo se fossimo noi in prima persona a provare disgusto. Quindi questa parte del nostro cervello ci mette nello stesso stato degli altri. Ciò implica che ci fa capire le emozioni degli altri.

Perché per me questo è molto importante: perché spesso mi sono affidata a queste sensazionie altrettanto spesso mi è stato detto che erano sensazioni fasulle. E questa è stata sempre una cosa che mi ha mandato in bestia, un po’ come dire: ciò che provi non va bene. Perché è di questo che si tratta, una continua svalutazione delle emozioni provate e percepite. E sarà che per me le emozioni sono l’unica cosa che conta, in fin dei conti, e questa tendenza alla svalutazione mi ha portato tante volte a essere fredda, distaccata, controllata.

Quindi questo piccolo pacchetto nuovo che ripongo nella sacca della mia ben limitata conoscenza mi fa molto comodo.

Sarà poi che ieri, invece, mi sono fatta un giro al Museo della Follia. Attraverso quelle stanze buie ti rendi conto che per alcune persone le emozioni sono amplificate. Certo, la mostra è stata strutturata per farti provare il senso di solitudine, di abbandono, per farti vedere quella parte di realtà che è solo interna, senza volto, non sempre triste o terrificante, a volte è invece consolante e rassicurante. Ma un eccesso, senza dubbio. Quello che ho capito camminando per quei corridoi è che la follia è un eccesso di emozioni e sensazioni, qualcosa che straripa, incontrollabile.

E ho messo anche questo pacchetto nella sacca.

Nella mia sacca, di recente, metto un sacco di pacchetti nuovi, è il risultato del movimento, che però devo sempre controllare (sennò non sarei io) affinché abbia un senso.

Quindi è tutto un continuo provare emozioni e definire senza sosta, fare tentativi e progettare, pensare e scrivere, anche qui, del resto.

C’è la volontà di risolvermi, forse, e tentare di risolvere gli altri.

L’Amico Speciale negli anni addietro ha sempre criticato bonariamente questo mio atteggiamento, concludendo sempre con la domanda: ma perché vuoi capire? Io invece, da brava ostinata, sto solo cercando la strada giusta per arrivare alle mie conclusioni.

Mal di spazio

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Ecco come è andata: mi metto qui a scrivere circa un’ora fa. Voglio buttare fuori delle cose, come sempre, per definirle, per capire.

Ma scrivo della merda.

Sarà la compilation Un the e un libro di Spoty. Che in effetti è un po’ poco incisiva, un po’ moscetta, un po’ intonata più alla me di questo fine settimana che alla me che voglioessere ora. E c’è una versione di Brown Eyed Girl che è molto dolce, certo, ma mi fa venire il latte ai ginocchi.

E invece la musica del momento è l’originale di Van Morrison. Così la metto. Assolutamente. Mentre il libro del momento è del mio idolo Watzlawick, Istruzioni per rendersi infelici.

E allora ecco che non ho bisogno di definire delle cose ora. Stasera. Ho già definito troppo. Pensato troppo. Seghementaleggiato troppo. E allora Rossella docet: maana, ragazza.

O magari anche dopo le ferie, che ci siamo, eh, domani è la mia domenica, ma poi inizia l’ultima settimana. E poi ho due settimane e mezzo di stop.

E stamani sono entrata a lavoro con trentacinque minuti di anticipo. E il mio capo, quando mi ha vista mi ha detto: come farai ora, con le ferie? Una cliente ha invece chiesto: ma non hai da fare a casa? Un altro ha scosso il capo e ha riassunto: hai dei problemi.

Come se non si fosse capito.

Quindi per me le ferie, specie queste, a Febbraio, non sono proprio una manna dal cielo. Little Boss ha la scuola e non la vedo per tutta la mattina. E poi, per poter avere almeno i fine settimana interi con lei, devo concedere al mio ex i pomeriggi, o le notti. Il che si risolve in: tanto tempo libero. Troppo. L’anno passato ho quasi finito un romanzo. Bella cosa se il romanzo non fosse stato il peggior romanzo della storia del romanzo.

Non ripeto l’errore.

E per ora ho programmato solo tre dei lunghissimi 18 giorni. Una gita fuori porta. Fuori parecchio. Vado in Giappone.

E sarà quel che dio vorrà. O chi per lui.

Intanto penso a come è buffa la vita che sceglie i momenti più sbagliati per bussare alla porta e per fare la voce grossa. Tutto si concentra sempre. In pochi giorni arrivano le bombe d’acqua e ti annegano. Ho scritto buffa, è vero, ma in questo caso dovrei dire stronza. O la stronza sono io, che ho fatto Rossella per troppo tempo. Ce l’ho di vizio di rimandare i pensieri scomodi. E la stronzaggine si paga sempre.

Pagherò anche quella di stasera, ho idea.

Intanto, pensa pensa, a una conclusione ci sono arrivata.

Non posso tornare indietro e non posso stare ferma.

Il Moonverso si sta muovendo veloce e mi fa venire un po’ di mal di spazio.

Devo prenderne atto.