La follia che viene dalle ninfe 2 (la vendetta)

post 93

 

La mattina di solito sono un bradipo.

La mattina sono lenta, ho sonno, la caffeina deve entrare in circolo per benino prima che il neurone si attivi.

La mattina non è il momento migliore per scrivere, per me.

Ma questa mattina è diverso.

Perché devo dire come ha funzionato ieri.

Dopo gli strani e contraddittori comportamenti dell’Amico Speciale del fine settimana, gli mando un messaggio e chiedo: come devo comportarmi, quindi? Ci salutiamo e basta? Posso mandarti messaggi? Posso invitarti a cena se mi va? O sono di nuovo la kriptonite eccetera?

Fai come vuoi, risponde.

E siccome come voglio è che nella mia vita, nel mio Cerchio, lui non ci esca, lo invito a cena se non ti crea disagio.

Va bene,risponde.

Sono di nuovo fuori piazza. Chiedo ancora: hai capito che ti sto invitando qui a cena e che la serata non prevede sesso o altro, vero?

Sì, ho capito, risponde.

Quindi vieni a cena?,insisto.

Avevo già detto di sì. Vuoi una conferma tramite Pec?

Ma no, mi basta la doppia affermazione.

Quando mi chiama per sapere se può salire ha una voce che riconosco bene. E quando sale le scale riconosco pure la camminata. È incazzato. Lo conosco da quasi vent’anni, mi preparo a un’altra dose di merda. Penso che se è venuto a cena solo per questo dopotutto lo posso accettare, ma non potrò farlo per sempre.

Il mio istinto non sbaglia e iniziamo a discutere. Non litigare come venerdì, niente toni alti, ma non sono nemmeno le sette che quasi quasi lui decide di andare via. Penso che posso accettare anche questo, e glielo dico: per me va bene se resti, ti ho invitato io, per me va bene se ci vediamo, ti voglio bene, devi decidere tu, però. Sai come stanno le cose. Sai che vedo un altro. Sai anche che se vedo un altro tra noi non può essere come prima.

E qui gli scatta il nervo:prima pensavo che tu fossi mia.

E su questo in effetti abbiamo sempre avuto visioni diverse. E il bello è che non ce lo siamo mai chiarito, questo punto. E il buffo è che siamo costretti a farlo ora, che le cose tra noi finiscono.

E per la millesima volta cerco di fargli capire il mio punto di vista e lui di farmi capire quanto male gli abbia fatto.

Parliamo ancora un’ora.

E poi.

E poi non lo so.

E poi non lo so come le cose siano cambiate.

Ma cambia tutto. In un attimo. Lui inizia a ridere. Mi prende in giro e mi dice: sai come ti ho messo in rubrica? Monica Merda. Mi faccio mandare lo screenshot, non ci credo, ridiamo ancora, alla fine abbiamo fame e mangiamo e dopo cena siamo sempre lì a scherzare, come abbiamo sempre fatto, gli racconto di Ale, del lavoro, lui mi racconta di suo fratello, del lavoro, e siamo di nuovo noi fino a che poi non dice: ho capito.

Cosa?

Tu non preoccuparti, ho capito. E poi: grazie.

Ma no, non mi basta, anche io voglio capire. Insisto.

Voglio far parte della tua vita, mi dice. Non riesco ad essere incazzato con te. Non mi fa bene.

Per una volta pare che concordiamo.

Ma poi aggiunge: digli al tizio con cui ti vedi che se però ti tratta da schifo vado lì e lo schiaccio con la macchina.

Ok.

E se ti vedo con un occhio nero lo stesso, vado lì e lo schiaccio con il pullman.

Beh, se mi vedi con un occhio nero sei autorizzato a farmi nero l’altro perché ho permesso che qualcuno mi facesse l’occhio nero, rispondo.

Ma è un controsenso, dice.

Lo so.

Io sono un controsenso.

E io non lo so cosa ha davvero capito. Non lo so se domani tornerà ad essere incazzato. Ma lo vedo che stasera è felice e me lo dice. Mi ringrazia altre mille volte, se ne va sorridendo.

Penso che vedrò come vanno le cose. Ma se vanno così sarà perfetto.

Alle 6 stamani mi manda un messaggio: giorno 1: nessuna tempesta in arrivo. Ci sentiamo più tardi.

Allora forse non è impossibile, mi dico.

Allora forse c’è ancora Speranza.

Allora forse non sarò costretta a perderlo.

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L’immagine (Baciami ancora)

post 94

 

 

Stasera ho messo su una compilation d’amore. Che cosa strana, per me, non ascoltare, che so, i Nirvana, o i Blink, o i Muse, o… vabbè, è chiaro. Invece qui c’è De Gregori, i Tiromancino, tutte canzoni che conosco, intendiamoci, ma che di solito non cerco. Chissà cosa mi ha portato, stasera, in questi lidi estremamente romantici e, sì, anche un po’ tristi, ammettiamolo. Perché le canzoni d’amore sono sempre tristi? Ma l’amore non dovrebbe essere felicità? O magari è solo una percezione, quella della tristezza delle canzoni d’amore. Una percezione di assenza, dico. Qualcosa che c’è solo in alcuni attimi e poi magari quando ascolti la canzone ti ricorda la felicità che hai provato e in quel momento non c’è.

Ma mi sto attorcigliando nei miei pensieri.

E in realtà c’era una cosa che volevo dire, scrivere, cioè, qui, che mi frulla in testa da questa mattina (o forse era ieri sera? Non riesco a definire il Tempo esatto, stavolta, perché il mio weekend con lo Shogun è stato come essere in una bolla, una cosa che ho conosciuto solo per la scrittura. Parlo della bolla. Spesso quando scrivo sono in una bolla, senza Tempo e senza Spazio, ma nella vita vera, nella vita reale, dico, non è cosa comune, che io dimentichi dove sono e quando sono).

Dicevo.

L’immagine.

Ne parlavo allo Shogun in un momento indefinito di questo weekend. Ma ricordo il luogo preciso e la luce precisa del luogo in cui l’ho detto. Conta?

Comunque l’immagine prevede una me che cammina lungo una strada piena di negozi (che magari io devo proprio andare in un negozio a comprare, che ne so, una sciarpa. O una pochetteper un matrimonio. Ma non è affatto significativo, questo). E mentre cammino, a lato, appoggiati a un muro, ci sono due persone che si baciano. Io non è che li fisso, continuo a camminare. Mica sono una guardona. Faccio pochi passi e dall’altro lato ecco altre due persone che si baciano. E la strada a un certo punto è costellata da coppie che non fanno altro che baciarsi, ferme ai lati, mentre cammino.

Tutti che si baciano.

E io penso che questa sia l’immagine della felicità. Camminare in una strada ricoperta d’amore. Meglio delle illuminazioni natalizie, no?

E questa bella immagine mi accompagna da stamani. O era ieri sera. E ci sono cose che a volte non puoi ignorare, cammini e loro camminano con te, pieghi il bucato e sono ancora lì, fai la doccia e non ti si lavano via. E quello che non posso ignorare è la sensazione che mi dà questa immagine, perché ora la sento mia, la riconosco, la sento, e va di pari passo con le oreche passo a parlare con lo Shogun, quegli occhi dentro gli occhi, quel vizio di perderci dentro alle parole, interromperle e ricominciare, quel bellissimo tradimento della coerenza, del filo logico di ogni cosa, dello Spazio, e del Tempo, delle nostre vite. Del mondo.

Mi lascio ancora solo questa notte. In cui spero di sognare di camminare lungo una strada piena di negozi…

 

Sì, ok. La musica ci mette del suo

La follia che viene dalle ninfe (cit.)

post 93

Ecco come ha funzionato ieri.

Dopo avermi dato della kriptonite e aver cancellato il mio numero, l’Amico Speciale si presenta al Ristorante. Tranquillissimo, scherza e ride come sempre. Fa le sue battute, mi prende un po’ in giro, mi chiama per cognome (non lo fa nessuno) e mi offre anche una sigaretta. Poi mi fa: hai da fare, oggi?

E io sì, ho da fare, ho un appuntamento con l’avvocato per la definizione delle linee guida d’attacco.

Vengo con te, mi dice. Ti devo parlare, così parliamo durante il tragitto.

Ok, rispondo. Penso che ci siamo già detti tutto, ma magari ha cambiato idea su qualcosa? In ogni caso non ho tanto tempo per pensarci, la sala è pienissima (la legge del Menga vuole che se io ho un appuntamento nel pomeriggio e devo scappare subito dopo il turno, la sala si riempie come se fuori ci fosse scritto Oggi si mangia gratis) e io devo cercare di non lasciare troppo del mio lavoro a Micro(bo). Alle tre in punto scatto come una lepre e mi precipito fuori. Lui è già lì che mi aspetta, monta in macchina, parto a tutto gas, chè devo fare anche benzina e intanto il silenzio è carico, mi deve dire delle cose, ma non parte, allora chiedo e lui dice: c’è anche il ritorno, no? Chè magari sennò mi lasci a piedi laggiù. E ride. Vabbè. Aspetto e guido.

Poi si toglie gli occhiali alla Chips e mi chiede: ma per esempio che succede se ti bacio?

Beh, che succede, mica implode l’universo, ma bisogna anche definire, no?

E allora che sono, io?

Sei quello che sei sempre stato, un Amico Speciale. A cui voglio bene, non si mette in dubbio. Con cui non ho avuto coraggio di fare un passo avanti per mille motivi e con cui iniziavo a stare male, in una mezza storia.

E io però non glielo chiedo cosa sono io. Perché non so se ho voglia di sentire la sua risposta ora. Perché questa domanda gliela ho già fatta, in passato, molte volte, e non c’è mai stata una risposta, così io mi sono fatta la mia idea, certo, forse ci è mancata un po’ di comunicazione.

Stiamo arrivando a destinazione e non è che siamo detti nulla di nuovo. Ma lo vedo che si sta incazzando. Gliela sento la rabbia che sale, come se gli uscisse fuori dal naso.

Mi dice che si è beccato tre anni di merda.

E io lo so, sono stata io a dirglielo.

Dice che con me ha chiuso con le donne.

Ah.

Dice che non doveva venire con me a mangiare il sushi, quella sera.

Ah. Ah.

Io ci provo a non piangere, ma mi fa male. Mi becco tutto la sua rabbia in silenzio.

Appena parcheggio lui vuole andarsene, Prendo un treno.

Resta, per favore. Non abbiamo finito, mento. Mento perché non voglio che finisca così. Io che lo lascio a piedi e lui che si smazza per tornare a casa.

E allora resta.

E io continuo a frignare fino a che non arrivo davanti alla porta dell’avvocato, ma poi basta. Poi stop. Poi mi sforzo di farmi crescere le palle, di stare concentrata. E mi becco il culo pure dall’avvocato, perché non ho mai fatto nulla finora, nulla di legale, dico: niente diffide, niente denunce. Ho un sacco di merda che mi sono subita (e, a questo punto, ho fatto subire all’Amico Speciale) che non ho mai pensato di mettere all’evidenza di avvocati o forze dell’ordine. E lo so, ma io l’ho fatto per lei, per Little Boss. Gli hai reso la vita facile, al tuo ex, dice l’avvocato.

Lo so.

E ora sono cazzi per te, insiste.

Lo so.

Dovrai avere testimoni, prove

Lo so.

Sarà difficile.

Lo so.

Ma ci proviamo, ok?

Ok.

Esco bastonata. Ma le bastonate non sono finite, ovvio.

L’Amico Speciale non chiede nulla quando risalgo in auto. Parto ed è un silenzio assordante. È così fino quasi all’arrivo. Fino a che non esplode. E si incazza di brutto e allora anche io mi incazzo e finisce che litighiamo. Ed è la prima volta che alziamo i toni in tre anni e allora scende sbattendo lo sportello, Buona vita, dobbiamo stare lontani.

Lo so.

Ok.

Pare che oggi non abbia altre risposte nel sacchetto delle risposte.

Serata in cui di nuovo penso che dovrei smettere di relazionarmi con le persone se il risultato è sempre questo. Insomma, routine.

E poi ecco che oggi l’Amico Speciale si presenta di nuovo. Tranquillo. Sorridente. Mi mima qualcosa da lontano, ma io non capisco e faccio il gesto del dito rivolto all’orecchio. Solo che ho in mano un coltello e mi va di lusso. E no. Non ho capito cosa mi ha detto. Sorrideva quando è andato via.

E va beh.

Se me lo chiedete, no.

Io nella vita e con le persone, nonostante il vivo interesse, ancora non c’ho capito nulla…

 

 

Vivere nella paura

post 92

 

 

Stamani mi sono svegliata e mi sono affacciata alla finestra: stava nevicando, gran bei fiocchi ciccioni e piccoli fiocchi che sembravano cenere. Sveglio Little Boss, Guarda, rospa, nevica! Ce ne restiamo diversi minuti in silenzio ognuna con la sua tazza in mano e il naso in su. Poi non attacca e via, andiamo, a scuola tu, a lavoro io, e siccome ancora sfiocchetta, lei in macchina mi dice che sembra di fare un viaggio nello spazio col Millennium Falcon e allora eccoci lì a cantare il theme di Star Wars come due deficienti. E ok, mi sembra tutto meno drammatico, così, anche pensare che l’Amico Speciale mi abbia definita la sua kriptonite fa meno male. Almeno finché non lo rivedrò. Il che accade esattamente un’ora dopo, ovvio. E allora l’imbarazzo tra noi è talmente palpabile che se accorge pure la mia collega, e la considerazione di essere una persona orribile si riaffaccia prepotente. E così per tutta la mattina non faccio che pensare a quanto male ho fatto, proprio nei momenti in cui pensavo al male che mi facevano gli altri. E nel calderone ci infilo tutti: il mio ex, il Mentore, mia madre, TDL, e, ovvio, L’Amico Speciale. Ci infilo anche le possibilità che avrò di fare male: l’Amico Atipico, lo Shogun. Dopotutto se sono stata paragonata a Luna e kriptonite si vede che di umano ho ben poco…

Ne esco svuotata e stanchissima.

A pranzo arriva un amico che mi dice che ho la faccia che fa schifo. Tu pensi troppo, aggiunge. Già, questa cosa non la riesco a pilotare, il pensiero, ho provato con un sacco di trucchi, ma alla fine falliscono tutti.

Oltretutto è un periodo in cui c’è poco lavoro, pochi clienti, tanti tempi morti e le giornate non passano mai. In queste condizioni il pensiero prolifera come una colonia di batteri.

E alla fine concludo che il mio problema è la paura, maledetta lei. E io ci provo, sul serio, a scacciarla, ma alla fine sono sempre terrorizzata da tutto. E sono lì che penso a questo e faccio il count down alle due e mezza, ora della chiusura della cucina, quando arrivano due ragazzi. Sfogliano il menù, mi chiamano e uno dei due mi fa: ok, guarda, iniziamo con le allergie, poi ti dico le mie intolleranze. E praticamente mi elenca tutti gli allergeni esistenti tranne molluschi e crostacei e poi tira fuori il siringone di adrenalina. Giusto per farmi capire meglio. Panico in cucina. Qui si rischia di mandare all’ospedale una persona per una distrazione minima. Siamo quasi sul punto di dirgli di cercarsi un altro ristorante, ma è lui a convincerci, in realtà, confrontandosi con noi sulle modalità di preparazione e sugli ingradienti. Il panico diminuisce, ma credo di avergli chiesto almeno mille volte l’elenco delle allergie, fino a che non me le sono segnate sul foglio e via. La cuoca cambia griglia, taglieri, cucchiai, pentole. Poi mi fa: esci a guardare se è ancora vivo!

E sì, è ancora vivo alla fine del pranzo, e pure felice della tagliata ai porcini. Mi mostra due foto in cui ha la faccia gonfia come una palla. L’ultima volta che sono stato all’ospedale,dice.Mi hanno fatto una puntura di adrenalina nel cuore. Fa molto Pulp Fiction…

E poi glielo chiedo:scusa, ma non hai paura a magiare fuori? E  la domanda vera che vorrei fargli è : ma sei pazzo a andare al ristorante con il tour di allergie che hai?

E il mio Segno oggi è lui. È la risposta che mi dà e che mi risolve un pochino la giornata.

Non si può vivere nella paura.

Ecco. Sono queste le cose che mi capitano nei momenti in cui mi devono capitare e che davvero faccio fatica a capire. Nel senso, forse vedo le cose che voglio vedere nel momento in cui le voglio vedere. O forse no. Forse le cose accadono per un motivo. Sempre.

A fine turno un messaggio dello Shogun la giornata la risolve del tutto.

L’unica cosa che mi mancava era scriverne qui.

Incontri ravvicinati (Close Encounter 8?)

post 91

 

Sono le sette e mezzo della mattina. Little Boss sale sul pulmino e io devo aspettare un’ora prima che apra la banca. Freddo. Grigio. Dicono che domani nevicherà. E io la nave la amo solo da lontano. Al più se sono all’interno di una baita in montagna davanti al camino che scoppietta e non devo fare assolutamente nulla.

Allora vado a fare la signora. Che il mio concetto di signora è semplicemente costringersi a perdere tempo. Entro nel bar vicino alla fermata del pulmino e faccio colazione: cornetto e cappuccino con caffè doppio senza schiuma. Se lo ordinassero a me mi incazzerei, perché qualunque ordinazione che preveda l’aggiunta o la detrazione di qualcosa fa incazzare il barista, che ha un cervello semplice, dopotutto, e non ha voglia di ragionare troppo. Ma la Ragazza del Bar (ha la mia età, posso tranquillamente chiamarla Ragazza) sorride e esegue. Poi mi sento chiamare. Guardo e non riconosco il viso. Ma lui sì, lui si ricorda di me (pure il nome!). Mi ha conosciuta vent’anni fa, quando lavoravo come barista. E allora sono sorrisi, strette di mano, e Ma ti ricordi…? E io no, non ricordo nulla, ma faccio finta di sì. Dopotutto è bello quando qualcuno ha un bel ricordo di te. Quando ti rendi conto che hai lasciato qualcosa a qualcuno. Anche se è solo un cappuccino buono.

Poi corro in banca. Fare il versamento in banca mi piace. Prima di tutto mi fa sentire appartenente al mondo degli adulti, che concludono affari e cose così. E poi mi dà la possibilità di salutare il Cassiere, scambiarci due battute, farmi regalare penne e blocchetti, sentire il suo sospiro di sollievo quando gli dico che no, non ho bisogno dell’estratto conto, che guardo tutto on line. Se convinci il tuo datore di lavoro a farti il bonifico poi non devi venire più in banca, mi dice sempre. E poi io come socializzo?, gli rispondo. E infatti quando esco trovo un’altra persona che conosco, un dolce vecchietto, che mi ferma e sono di nuovo baci e abbracci, Come stai piccola?, chiede, Ti vedo bene, ma devi ingrassare un po’, sei un uscio. Ma no, sto alla grande, davvero. Mi sento alla grande. Sono grande.

Risalgo in macchina e torno a casa.

Davanti casa ho un bar. Mentre sto entrando mi chiama un’altra persona ancora, mi invita a prendere il caffè, altre chiacchiere, altre strette di mano, altri sorrisi.

Questa cosa, che mi piaccia che ci siano persone che si ricordano di me e mi salutano perché sono io, non è di facile comprensione forse se non spiego una cosa.

Per anni mi sono sentita sempre la Qualcosa di Qualcun altro. Non riconoscibile come Direttamente io, ma sempre in relazione a qualcuno: l’Amica di; la Moglie di; raramente, la Figlia di.

Non avere un’identità solo mia, non girare per strada piena di apposizioni, è una cosa che sto riscoprendo solo ora. E che mi piace. Nonostante la provincia ti strozzi la maggior parte delle volte, ecco, ce ne sono alcune in cui ti restituisce a te stessa. O forse alla fine sono io che ho fatto questo passo: ho avuto il coraggio di restituirmi a me stessa.

Quindi via alla socializzazione. Questi piccoli incontri mi mettono di buon umore quasi quanto i Sublime e la mia giornata di festa smette di essere grigia.

A volte basta davvero poco per salare la vita…

Di madri in fieri e pensieri inutili

post 90

 

Lo Shogun mi ha portato una cosa, un prestito, qualcosa che mi permette di usare la mia Reflex che avevo lasciato a prendere polvere accanto alla macchina da scrivere (un’Antares, non è un’Olivetti lettera 22, ma mi accontento). E allora sono giorni che fotografo bicchieri, Little Boss, libri, muri, tutto ciò che non si muove in questa casa credo di averlo fotografato. E siccome non mi basta la modalità automatica, che lo so che dovrei usare quella, lo so, ma non mi basta, allora premo pulsanti a caso, faccio le prove, leggo due cazzate on line per capire come cavolo funziona ‘sta cosa pesante che mi trovo tra le mani. E i miei bicchieri e i miei libri non sono sono mai sentiti così importanti. E ieri, mentre inchiodo al muro un libro di poesie di Carver con una funzione di cui non ricordo il nome, mi arriva un messaggio da un’amica (eh, lo so che credevate che avessi solo amici, ma no, ho anche delle amiche) che mi dà una pessima notizia. Per lei. Alcuni esami le hanno rivelato che non potrà avere figli molto facilmente.

Ora, lei si è già affacciata ai trenta, ha rotto pochi mesi fa con il suo ragazzo con cui stava da più di dieci anni e adesso vive con il nuovo fidanzato solo da due mesi. Ha lasciato un lavoro sicuro ma di difficile gestione per un altro più soddisfacente, ma con un contratto a termine. Termine breve. Una situazione complicata per pensare a un figlio. Eppure… eppure lei lo vuole. Il medico le ha detto: inizia a provare subito, da stasera.

Ora. Io ci penso un po’ su. Le dico la verità: non esistono le condizioni perfette per fare figli, esiste solo l’illusione di una situazione perfetta. E io ne sono la dimostrazione. Credevo di aver costruito le cose giuste, un lavoro redditizio, una casa, un compagno affidabile. E poi è andato tutto a rotoli. Ma lei, Little Boss, è la cosa migliore che io abbia mai fatto, l’unica cosa importante. Quindi sì, vai, hai ragione, fallo, provaci. Ora o mai più, ha detto il medico. E allora chissenefrega del contratto, del compagno sicuro (tanto sicuri non lo sono mai): un modo per crescere i figli se siamo persone intelligenti lo troviamo. I figli hanno solo un bisogno: l’amore.

Certo, la sua condizione mi fa pensare a quanta io sia fortunata ad avere Little Boss nella mia vita. Sarà perché so di cosa si tratta, ormai, ma senza l’amore che provo per lei sarei davvero persa.

Di quanto egoismo siamo pieni quando amiamo…

 

(Qui ho fatto una lunga pausa dove il mio cervello è partito tanto veloce che non ho avuto tempo di afferrare davvero i miei pensieri, e quindi trascriverli: oggi siete parzialmente graziati).

 

E allora concludo che il pomeriggio mi sta correndo via pensando a cose inutili.

Ma la cosa positiva è che mi sto gustando un libro che mi dà ragione ridefinendo il concetto di Inutile: ovvero, esistono cose totalmente libere da fini utilitaristici che in effetti ci sono utili, indispensabili direi, per essere umani. Quindi, che Nuccio Ordine voglia o meno considerare le mie inutili riflessioni come rilevanti, forse saranno servite perlomeno a rendermi più umana.

E a rendere voi intolleranti agli ossimori.

 

Love affair

 

post 89

Avevo deciso di cenare presto stasera, appena tornata a casa. Metto su l’acqua per cuocere due ravioli (la cosa più veloce e meno impegnativa che si possa cucinare dopo la pizza surgelata), mentre bolle leggo una mail di Ale. Spengo tutto e mi metto qui.

 

Mia figlia ha una cotta. Anzi due, mi comunica. Con una di queste due si è data da fare (che significa chiedere tramite intermediario se c’è interesse anche da parte di lui). E l’altro?, chiedo. Mamma, prima devo sentire cosa dice il primo. Sennò non è corretto. Ci penso su. Uh, ok. La sua idea di correttezza la capisco, quello che non capisco (ma forse dovrei dire: non ricordo?) è come possano piacerti allo stesso modo due persone diverse. E poi penso che se ha fatto il primo passo verso uno forse quello le interessa di più. Ma non dico. Mi faccio i cazzi miei, che già che me lo dice mi pare buono, no? Quello che so è che non ha aspettato. Ha fatto lei la prima mossa. Accidenti, quanta differenza, penso, tra i suoi 12 e i miei 12 anni. Le modalità, alla fine, le riconosco, sono le stesse (qui sì, qui ho chiesto ed è venuto fuori: Ci mettiamo insieme? Ok. E poi giù a non parlarsi nemmeno per mesi finché uno dei due si stanca e molla l’altro), ma io non ho mai fatto la prima mossa con nessuno. Ero una a cui piaceva vincere facile, già. Aspettavo. E basta. Al più lanciavo segnali, da brava ragazza. Ero. Ora mi sa che non lo sono più.

In ogni caso oggi a Little Boss chiedo come è andato il sondaggio. Lei arrossisce (cavolo! Arrossisce! Povera bambina mia, questo difetto del cavolo non dovevi prendermelo. Ora siamo io, te e Levin…) e mi dice che a lui non dispiacerebbe. Uh, ok. Di nuovo. Certo, mi verrebbe da dirgli, non sono proprio le basi giuste per partire. Così vago. Così piatto. Ma certo, sono ancora bambini, lui di certo lo è più di lei, ci siamo passati, no? È come giocare a fare i grandi. Che poi si gioca per poco, un paio d’anni, forse, poi le cose iniziano a complicarsi. E, mentre sono lì che penso a quanto sono felice che lei abbia la sua tresca potenziale e guido verso casa, lei mi fa: che poi tutti pensano che se due ragazzi si lasciano è normale. Ma quando sei più grande, e ti lasci, tutto il mondo non è così comprensivo, sono lì a dire che non hanno più 14 anni. E invece è uguale. Si gira, mi guarda: no?

E ecco. Io non so che dirle. Vorrei poterle snocciolare discorsi sulla responsabilità di certe cose che si decidono insieme e altro, ma in realtà non sono un buon pulpito per questo. Resto zitta come una scema. Abbozzo un sorrisetto altrettanto scemo e alzo il volume a Jhonny Cash.

E poi ecco che arriva Ale. Che è laggiù spersa nei boschi. Lei e la sua magia. Lei e un Lui. Che non ama. Ma di cui ha bisogno. Perché non è mica male trovare il caffè pronto appena ti alzi, avere un corpo caldo accanto al tuo la notte, avere una spalla a cui aggrapparsi. Non viversela da sola, la solitudine.È sbagliato?, mi chiede.

No, Ale. Non lo è mai. Alla fine questa vita non è altro che cercare e trovare piccole cose che ci facciano sopravvivere, che ci facciano respirare. Non sei invecchiata cara amica. Sei solo stanca di camminare da sola. E allora ciò che conta è non farsi del male.

Solo questo: essere accorti e non farsi troppo male. E non fare troppo male.

Io non sono una persona accorta. E mi sono fatta male troppe volte. E ho fatto male per sbadataggine.

Ma alla fine fa parte del patto, questo. Farsi male, fare male. È il rischio, quando ti butti da 4200 metri da un aereo che pilota un tizio che ha preso la licenza di volo a punti al supermercato.

Allora bisognerebbe stabilire quanto sei tollerante al dolore, magari. O quanto lo sono gli altri.

Ma devo ricordarmi spesso quanto sia doloroso per me anche non vivere, mettersi nella zona confort e restarci.

Ecco, stasera la mia Little Boss e Ale me lo hanno ricordato.

In ogni caso sto mettendo da parte una bella scorta di Kleenex per il futuro. L’unica cosa che potrò fare per scaramanzia.

La mia piccola Boss inizia ora: ne avrà bisogno.

 

Stasera la canzone è offerta dal passato che non è mai passato. Un regalo del mio Amico Scrittore.

Qui.

Stellette

post 88

 

Eccomi tornata nella modalità Mogwai. Sono stata veloce, stavolta. Magari sono un Mogwai di secondo livello, quelli che escono da Gizmo quando si bagna, ma di certo non più un Gremlin, il che è fondamentale per la sopravvivenza di tutti i miei elettrodomestici.

Ma certo, per chi non ha visto il film tutte queste sono solo farneticazioni di un folle. E allora, per chi non ha visto il film: ma che stavate facendo alla metà degli anni 80? Ma come è possibile non prendere al volo citazioni come Tu esci. La musica attacca e tu cominci a sentirla e anche il corpo inizia a muoversi da solo. Oppure Nessuno mette Baby in un angolo. E davvero non sapete cosa diavolo è un Traccobbetto? E Venimmo, vedemmo e lo inculammo!Non vi dice nulla?

Quindi: o siete troppo giovani, come il mio Micro(bo), oppure negli anni dello splendore del trash americano eravate molto felici e magari eravate in un parco a giocare a palla. Io no. Io guardavo la tv. Tanta. Tantissima. Talmente tanta che il mio migliore amico era Uan.

Ecco perché ora non sono capace di guardarla: una vera overdose.

In ogni caso che sto meglio si vede dalla mia voglia di divagare. E nella capacità che ha mio padre di distrarmi con un messaggio in cui mi dice che nel 1920 fu instaurata una repubblica socialista a Viareggio. Durata ben due settimane. E poi passiamo a parlare di Tobino, e libri, e poi Basaglia, ed era tanto che non lo facevo con lui e devo dire che sono bei momenti. Per me. Assegnano stellette alla giornata. Così come il fatto che mi sia resa conto che le giornate stanno diventando sempre più lunghe, o che Little Boss sia davvero brava con la chitarra elettrica, tanto che sarà la mia giovane Slash (ma a lei gli occhi si vedranno, perché sono così belli). E lo stesso accade quando ascolto la mia nuova Lista su Spoty, la Lista della Nostalgia (che prende il nome dalla radio, la mia radio dalla personalità multipla, che suona Pupo subito dopo i Nirvana): stellette, stellette, stellette.

Stellette anche grazie allo Shogun che ha dimenticato pezzi di sé in giro per casa mia e questo rende tutto più reale. Nel senso: il mio appuntamento con lui c’è stato davvero, non me lo sono sognato, ho le prove. Anzi: c’ho le prove, avrebbe scritto Ceccherini. Giusto per non distaccarsi troppo dal filone iniziale.

Ed ecco che il Moonverso ricomincia a prendere la forma solita, si circonda pure di stellette, e io sono di nuovo capace di scrivere cazzate e frasi di senso compiuto (?) senza incolonnarle.

Ci sono ovviamente ancora delle cose che devo risolvere. Non praticamente, ma nel mio Dentro. Perché stavolta anche la teoria ho capito di non saperla tutta tutta. E se non so la teoria come potrò mai passare alla pratica? La recherche anche per me. Ma a modo mio, il che rende tutto molto caotico e molto meno extrasensoriale. Io i sensi li voglio. Li ammiro. Li stimo, direi.

 

In ogni caso: una stelletta anche per chi azzecca almeno due titoli? E una canzone regalo: qui

 

Postilla:sopportate le foto mie, ogni tanto: ci sto provando, ok? E io non sono un cavallino da corsa (nessunissimo talento). In compenso a volte sono un mulo da soma.

Invece di dormire

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Ci sono momenti che la musica serve per riempire.

Silenzi. Vuoti. Mente. Anima.

Ci sono momenti che la musica serve. E basta.

Serve per non arrampicarsi sui bicchieri, per non scivolare sotto le coperte, per ricordarti di respirare, per guardarsi davvero, per farti sentire vera, per amarti.

Ed ecco che, su queste note (metaforiche), cado dentro Spoty, il mio amante virtuale, e gli chiedo aiuto, come sempre.

Sono arrivata al Daily mix 6, ma il 4 è quello che può farmi stare bene, stasera, che il mio cervello funziona a strappi. No, meglio, funziona a frammenti. Un po’ come Il libro dell’Inquietudine, ma senza tutta la bellezza. Senza la poesia.

Io non lo so cosa diavolo ho che non va.

Mi sento inabile. Credo sia questa la sensazione che provo adesso. Di essere inabile a vivere alcune cose. Tipo i momenti di felicità. Forse è per questo che mi hanno consigliato caldamente un libro dal titolo Mindfullness. Che poi è facile. Cioè. Lo sembra. Definisco: Per mindfulness si intende un’attitudine che si coltiva attraverso una pratica di meditazione sviluppata a partire dai precetti del buddhismo e volta a portare l’attenzione del soggetto in maniera non giudicante verso il momento presente.

Goditi il maledetto momento è un buon riassunto.

Io sono inabile, appunto.

E sì, lo so, siccome sono una persona razionale, basterà che passino alcune ore e tutto tornerà sui binari e i Foo Fighters non l’avranno vinta, e io ricomincerò il mio viaggio, sarò tranquilla, che poi è quello che sono, tranquilla, io sono una luna tranquilla, la luna lo è per definizione, sta ferma lì e riflette.

Non fa mica nulla, la luna.

È una cosa ferma.

Tutto questo domani finirà.

E io tornerò nei binari.

E sarà grazie alla musica.

E alle ore di sonno forse.

O forse la felicità non fa per me. Ci avevo già pensato?

La voglio, ma poi sono qui che la distruggo.

E allora do il via libera a tutte quelle frasi-frammento che ho nel cervello.

Magari mi fa bene. Anche se non hanno senso. Ma alla fine non c’è nulla che abbia un senso se non siamo noi a darglielo.

 

Siamo il risultato della somma di ciò che (ci) è stato.

 

Respirare è vivere non evadere dalla vita.

 

Una volta che comincio a scrivere non riesco più a fermarmi.

 

Sono in bilico tra sogno e realtà.

 

Ho una paura fottuta.

 

Riconosco le carezze d’amore.

 

Ho bisogno di respirare.

 

Sono pronta ad amare, ma non ad essere amata.

 

C’è un terremoto qui dentro.

 

Come è possibile che mi piaccia una canzone di Michael Bublè?

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