Il regalo di Natale

Il Natale porta regali. Si sa. Io, siccome scrivo in differita, ancora non so cosa mi porterà il Ciuchino (come si diceva qui anta anni fa). Credo anche nulla. In realtà non mi importa  dei regali ricevuti. Io adoro farli. Sì, me ne lamento, ma in realtà ci godo a pensare, scegliere, selezionare per le persone a cui voglio bene. Poi qualche volta canno, ok, qualche volta non mi impegno, ma di solito sì, Preferisco i regali di Natale a quelli dei compleanni, non so perché. È la magia del Natale? Ci credo davvero? Ma boh, alla fine chi se ne frega. 

Quello che è certo è che il Natale è un’occasione per riunirsi. E sebbene io quest’anno abbia il dente avvelenato con mia sorella (una storia che ho parzialmente detto, ma c’è molto di più, forse un giorno ne scriverò, forse no, probabilmente no perché io mi incazzo come una iena sul momento, ma non sono capace di portare rancore in eterno e, per costituzione, rifuggo i litigi: troppo stress odiare qualcuno), Natale non è solo parentame vario. Ci sono gli amici. Ci sono gli amici che vivono e lavorano all’estero per tutti l’anno e tornano… indovinate? Per Natale.

Ed eco che quindi io sono qui che aspetto il mio regalo di Natale. E sono tanto emozionata che devo fare qualcosa mentre aspetto, e quindi scrivo qui. 

Ale è l’unica sorella vera che ho. E non è davvero mia sorella. Quella vera se ne sbatte alla grande e vive a una manciata di chilometri da me. Quella acquisita è sempre con me, mi capisce al volo, ha la strana capacità di intercettare con un radar speciale e molto potente il mio stato d’animo, anche quando è oltremanica, e mandarmi un messaggio. Così. Telepatia. Lei ce l’ha. E quando è qui con me è davvero qui con me, se mi fa una domanda è perché le interessa, se mi aiuta è perché vuole farlo, se mi dà un consiglio è quello giusto. Spesso sento che io non farò mai altrettanto per lei. Ma lei dice lo stesso. E io elaboro i dati e viene fuori un amore che riempie il cuore. 

Sono fortunata. E lo so. Non capita spesso di avere un’amicizia così, che si batte con gli anni, con i cambiamenti, con 2000 e passa chilometri, 26 ore di macchina, 15 giorni a piedi. E non crolla. 

Ho già dedicato altri articoli alla mia Ale, che alla fine è entrata anche nel mio romanzo, come se stessa, ovvio. 

Ma non bastano mai. 

Mi salvi la vita ogni volta che mi abbracci, Ale. Non ti linkerò questo articolo. Non stavolta. Resti in questa pagina come un piccolo simulacro di carta.

P.S.: poi ho finito di scrivere del Natale. Forse …

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E sì che ero brava a scuola con i riassunti…

Bene bene bene.

La mia idea era di riassumere questi sei mesi, ma si sa, un riassunto è sempre una questione personale, di PDV, direi io. E di immagini, di fotografie, quelle che restano impresse nella nostra pellicola mentale. Avrei voluto solo belle foto, o foto belle. Vediamo cosa ne esce.

Febbraio:

C’è un furgone stipato di roba smontata: un letto contenitore dell’ikea, una cucina intera, rossa, di buona fattura, specchi, lampade, una scala con scalini di vetro fatta su misura, materassi, zanzariere comprate on line. No. Non è il mio furgone del trasloco. Io ho traslocato con la mia macchina, Winny, le scatole con i libri e tutto il resto occupano poco spazio. È la roba che viene portata via dalla mia vecchia casa: viene svuotata per motivi terzi ed è inutile che ve li dica: troppo lungo e complicato. Ma soprattutto non sono affari miei. Ci sono io, in piedi sopra il parquet, guardo le stanze tinteggiate da me sei anni fa completamente spoglie: la casa che mi ha accolto, il mio rifugio dalla tempesta, la spettatrice della mia rinascita ora è nuda, inerme. Le dico addio in silenzio.

Ale di fronte a me. Dall’altra parte del tavolo. È lì con me, allungando una mano la posso toccare, la vedo, con la sua nuova aria da folletto, come a dimostrarmi che è lì, nel paese dei folletti, che vuole stare. E io lo so che sebbene ci provi fino all’ultimo giorno, sebbene pensi pure di sabotarla, non posso fare a meno di amarla tanto da lasciare che se ne vada. Così da dimostrarmi che l’amore non è sempre egoista, dopotutto. 

Marzo:

I colori dell’arcobaleno volteggiano sulla mia testa. E sul mio lavoro. Vai a lavoro? Stai a casa? Ormai è solo una questione di scelte, non di obbligo. Mi dico: vai a lavorare almeno ti distrai. Credo sia la prima volta che lo penso. 

Aprile: 

Una Pasqua tutta per me. Nella mia nuova casa le vocine delle mie nipoti, i regali, il sole, i sorrisi. Un pranzo in famiglia che ho organizzato io, finalmente, senza stress. Ogni tanto essere in zona rossa è un bene.

Per l’occasione sto friggendo i supplì. Le polpettine di riso saporite sono dorate quando le scolo, finalmente lo scettro è passato dalle mani di mia madre, la Regina dei Supplì, alle mie: continuo così la tradizione di famiglia, con una ricetta, il riso e il pangrattato. 

Maggio: 

A Maggio nemmeno una foto. Né mentale né fisica… deve essere stato un mese pieno di lavoro.

Giugno: 

Io che guardo il carroattrezzi portarsi via la macchina di mio padre mentre mi scuso con i vigli urbani per lui, Si deve essere dimenticato l’assicurazione, scusate, ripeto. Ma so che c’è qualcosa di più. Decido di fare una cosa non proprio etica ma salvifica per il momento: nascondere la testa sotto la sabbia in stile struzzo e rimandare tutto a dopo l’estate.

Luglio:

Un castello stregato, un pranzo pieno di leccornie, una bella giornata di sole. Io e Little Boss ci prendiamo una giornata di respiro e ce ne andiamo a Fosdinovo con tanto di visita guidata, sulle tracce del fantasma che respira. O così dicono gli esperti fantasmologi… spettrologi? Occultisti? Ma come si chiamano? Ah: ghostbuster! Pranzo poi a Colonnata: slurp! E basta, solo slurp. 

Agosto: 

io e Little Boss al mare, a fare le signore, con pranzo al ristornate sulla spiaggia, lettini e tutto il contorno del mare che per una giornata spedi 100 euro. Semel in anno…, dicevano. Anche se il riferimento era per il Carnevale, se non erro.

Agosto però è anche la mia foto su un altro lettino, quello del Tizio che Che mi Scrocchia (T.C.S.) come diceva una mia collega (che non nominerò con nomignoli, tanto è già sparita: è durata come un gatto in tangenziale al Ristorante. Così va la vita). Al TSC ho lasciato un bel mucchio di soldi per nulla. ma va detto che in quell’ora di sedute da lui dormivo che era un piacere. Insomma tra Luglio e Agosto iniziano i miei problemi che portano, oggi, le mie papille gustative a tentare il suicidio: la dieta vegana! (ma la mia dieta non è solo vegana: ha altre restrizioni. Pure!). 

Agosto mi vede anche poco insieme all’Amico Speciale: quando io dormo (ogni volta che non lavoro in pratica) lui è sveglio; quando io sono sveglia, lui è a lavoro; quando io lavoro… bhe, lavoro. Quindi un gran casino. 

Settembre: 

Ahhh ( di sollievo). Le ferie. 

Le ferie mi vedono in Sicilia. Porto io lì la zona gialla. Ma chi se ne frega, Palermo è bellissimissima. Un clima rilassato, giornate perfette (né caldo né freddo, mai pioggia), chili e chili di fritto (panelle e crocchè, arancine), cannoli come se non ci fosse un domani, acqua talmente limpida che potevo vedere i pori del mio piede, edifici come la Cattedrale, il Palazzo dei Normanni… insomma: è stato un antipasto, cara Sicilia. Tornerò per il primo, il secondo e pure il dessert!

Settembre mi vede però anche impegnata in tutto quello che ho voluto tralasciare nei mesi passati. Mio padre è in cima alla classifica. E quindi un’altra foto di me mi vede in macchina fare su e giù due volte a settimana tra il Paesello sperduto dove abito e la Grande città di mare dove invece abita lui (3 ore di auto tra andata e ritorno). In questa immagine io guido la macchina come Fred dei Flinstone: avete presente, no? 

Il mese finisce con me una Moon disagiata, stanca e dolorante, che nel frattempo, oltre a una dieta, ha iniziato anche una cura farmacologica che spera funzioni (le altre cure provate? Acqua fresca. Sennò non tentavo il TSC o la dieta). 

Ottobre è appena iniziato. Già si preannunciano tuoni e fulmini, reali e metaforici. 

Certo, se viene giù metaforicamente l’acqua come realmente è venuta giù qui ieri sera… affogherò di sicuro! 

Un riassunto un po’ lunghetto, questo. La prof di italiano di Little mi darebbe un due. Spero che WP non dia i voti…

Intermezzo: una canzone per te

Per Ale.

La nostra non è solo un’amicizia di lunga data. Dire che ci conosciamo da 20 anni la non rende speciale, ci sono persone che conosco da più tempo. 

Abbiamo parlato a lungo su di noi, inciampando nelle parole, cercando una strada per poi scoprire che no, non è esattamente così, ci avviciniamo, ma ciò che siamo ci sfugge sempre un po’, come se fosse troppo improbabile, troppo difficile da dire. Magari è perché solo in noi vediamo l’amicizia e questo ci spiazza, ci affascina e ci disarma allo stesso tempo. 

In te vedo la musica. 

Quando Cisco canta della Grande Famiglia vedo il tuo viso. 

Libertà l’ho vista dormire, dice Fabrizio, e tu sei lì. 

In bianco e nero di Carmen sei tu. 

In te vedo i libri.

Tu, fino ad ora per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo

O ancora:

Uno, non toccare le lancette. Due, domina la rabbia. Tre, non innamorarti, mai e poi mai. Altrimenti, nell’orologio del tuo cuore, la grande lancetta delle ore ti trafiggerà per sempre la pelle, le tue ossa si frantumeranno, e la meccanica del cuore andrà di nuovo in pezzi.

In te vedo i colori.

Tu che di colorato non indossi mai nulla.

Sei il Rosso della passione e della rabbia, il Blu del mare e della notte, il Verde della speranza e della terra dove vivi. 

In te sento i profumi.

Sei il profumo del caffè appena fatto, delle sfoglie sfornate, di un tartufo che tieni in tasca. 

In te vedo gli abbracci.

Io, così allergica al contatto fisico. Tu mi hai vinta con le tue braccia calde e la testa appoggiata sulla mia spalla. 

Sento continuamente il bisogno di dedicarti qualcosa, il difetto della lontananza, di una vita frenetica che non perdona. 

E se sei musica oggi ti dedico una canzone. Di nuovo. Qualcosa che ci riporti dove eravamo, ma senza nostalgia, senza tristezza. 

Una canzone che ha la magia del Piccolo Principe, il Verde della speranza, il profumo del caffè appena fatto e l’abbraccio che mi hai dato la prima volta.

Un segno invisibile e mio (cit.)

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Prefazione postfatta:

Devo dire che tutti questi ricordi sono assai poco piacevoli. Il mio masochismo sta forse buttando benzina sul fuoco? Oppure è necessario ricordare e mettere in ordine i pensieri, proprio ora che ne ho il tempo?

Scrivere non serve forse a questo, a rimettere in fila i pensieri?

La prefazione postfatta è zeppa di domande… ai posteri eccetera eccetera

 

Spesso mi fisso a pensare, ecco da dove vengono i ricordi, sono circondata da questi, qui chiusa.

Fisso il mio personale centrotavola. È qui da prima di me, anche se l’ho comprato io, un lunedì mattina all’Ikea con Ale. La mediatrice familiare (quella stronza a cui ancora vorrei tirare il collo) mi aveva detto di aspettare a dare comunicazione a Little Boss della separazione. Avrei prima dovuto: A) cercarmi un lavoro; B) cercarmi una casa; C) preparare la notizia insieme al mio ex, di comune accordo.

Ricordo come se fosse ieri il giorno in cui ho comunicato al mio ex che volevo lasciarlo (definitivamente, stavolta, niente Una pausa a casa di mia madre per una settimana, come era successo 5 anni prima). Era il primo maggio, un giorno caldo, c’era il sole. Ci siamo trovati (udite udite) fuori dal Ristorante che poi mi avrebbe assunta. Ricordo di aver preso una lattina di coca, lui una birra. Ho cercato di dirgli quello che gli ripetevo da anni (%, per l’esattezza), che non ce la facevo più, che vivere con lui era diventato impossibile, che non lo amavo più, che non c’era speranza di ricostruire un rapporto (sa solo il cielo se ho provato di tutto), che separarci era l’unica soluzione, per me, per stare bene. Quante parole buttate al vento. Lui ha solo incamerato il messaggio (ti lascio) e, se già gli stavo un po’ sulle balle anche prima, da lì ha iniziato a bruciare il suo odio.

Beh, da quel primo di maggio, grazie alla mediatrice, avrebbero dovuto passare altri 6 mesi prima che io potessi andarmene da casa sua. Ecco, di quei mesi ho dei ricordi piuttosto confusi, devo dirlo. Vivere con una persona che ti odia e che tu non ami più, nello stesso letto, mangiando alla stessa tavola. Un vero incubo. Ma dovevo tener duro, a quanto diceva la mediatrice ne andava della felicità di Little Boss. Ho tenuto duro, ho sopportato tutto (certo poi ogni tanto crollavo, ricordo una sera, già lavoravo al Ristorante, che a fine turno iniziai a piangere, così, mentre asciugavo i bicchieri; e il mio Boss era lì: imbarazzante ancora oggi a ripensarci) e alla fine, trovato il lavoro, ho trovato anche una casa: questa. L’ho trovata per caso, mentre andavo con Ale a vederne un’altra, è stata lei a indicarmi il cartello, è stata lei a dirmi: chiama. Io l’ho vista e amata, sin da subito. Certo, il mio buchetto è carino, va detto, molto curato per essere così piccolo, al tempo, per una come me (lavoro precario- il contratto sarebbe arrivato solo dopo due mesi- e zero soldi in tasca) rasentava la perfezione.

Mi mancava tutto, però, o quasi. Qui avevo i mobili (lavatrice e lavastoviglie comprese), ma tutte le mie cose, dalle coperte ai piatti, dovevo lasciarle a casa del mio ex.

Ed ecco che un lunedì mattina io e Ale siamo partite con una lista piuttosto lunga e una macchina (la mia) piuttosto piccola. La missione doveva inserirsi nello spazio della scuola di Little Boss (sempre grazie ai consigli della mediatrice).

Al reparto candele ho visto questo. Ci ho comprato tre candele da piazzarci sopra e ho infilato tutto nella borsa blu (avete fatto caso che più roba mettete in quelle borse e più roba ci va? Sembra la borsa di Mary Poppins). Siamo tornate giusto in tempo per caricare tutto e filare a scuola a prendere la piccola.

Quindi, verso settembre, avevo ormai il punto A) e il punto B). Ma mancava il punto C). Il punto C) è stata lo scoglio più grande. Ci sarebbero voluti quasi due mesi ancora. In questi due mesi ho pagato il mio affitto e venivo qui ogni tanto per sistemare. Insieme a un amico ho addirittura riverniciato le pareti (ogni stanza ha un colore diverso, non è stato facilissimo). Qualche serata l’ho passata qui con Ale (nottata, più che altro, venivamo qui alla fine del mio turno e al tempo lavoravo solo la sera). Appena aprivo la porta il profumo di quelle tre candele mi faceva sentire a casa. Era qualcosa di indiscutibilmente mio. E solo mio. Sentirsi a casa non è certo una questione di luogo, ma di sensazioni, di affetti, di emozioni. Quelle stupide candele riuscivano a darmi questo, riuscivano a farmi sentire giusta, mi davano la forza di andare avanti. Mi dicevano: siamo qui e ti aspettiamo.

Quanta forza hanno gli oggetti. Tanta quanta noi riusciamo a dargliela.

Le candele ormai sono bruciate, insieme alle mie paure (quasi tutte). Resta questo centrotavola, dove comunque infilo un incenso dietro l’altro. Mia madre dice che tutte le mie case profumano nello stesso modo. Io invece sono certa del contrario.

Qui c’è sempre profumo di buono: un segno invisibile e mio.

Anno nuovo, B.P. nuovi

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È talmente tanto che non scrivo che nemmeno Word mi riconosceva…

È che io sono abituata a scrivere sempre, almeno due righe così, una lettera, un messaggio lungo, due cavolate sulle Pagine del mattino. E ora nulla, le feste mi hanno risucchiato nel vortice. Ricordate quel post che girava su Facebook un paio di anni fa? La foto di Rambo sporco e insanguinato ma con i pollici in su e la scritta: quando lavori nella ristorazione e vi chiedono come sono andate le feste? Ecco, più o meno mi sento così, come Rambo, una sopravvissuta.

I peggiori sono i genitori. Perché non posso davvero dare colpa ai bambini che corrono su e giù per la sala del Ristorante con macchinine e areoplanini in mano mettendo a rischio la mia e loro vita. E i genitori, per le feste, si scatenano. Perché dopo un anno di cene fuori con gli amici non possono certo lasciare i bambini alla tata anche a Capodanno. Ma si vede che non li tollerano. E ciò mi rende, oltre che furiosa, anche molto triste. E quindi fatica e tristezza, oltre alle alzatacce e a farsi il pranzo di Natale senza Little Boss con un piatto di penne al ragù (menù della festa).

In ogni caso, le feste con oggi si concludono ufficialmente lasciando spazio alla sana routine di ogni giorno, fatta di lezioni di musica di Little Boss (sia canto che chitarra), la palestra, il circolo dei lettori, yoga, le lezioni di teatro del pomeriggio… insomma, una vera noia!

E quindi ho deciso, anche dopo aver letto il mio oroscopo per questo 2020, che mica me la dice benissimo, di fare dei buoni propositi. Li faccio ogni anno, è vero, appena scatta il numero 01/01 sono già lì che scrivo come una dannata, cercando di essere quantomeno realistica, di darmi degli obiettivi raggiungibili, non sarò mai un’astronauta, questo ormai l’ho imparato.

E quindi, tra i B.P. di questo 2020 figurano i soliti Leggere di più, Scrivere ogni giorno.

E mi sono fregata già nei primi 6…

Ma siccome ho letto che non bisogna colpevolizzarsi inutilmente, mi do delle attenuanti per il caso (a caso, anche) e riparto da domani, quando in teoria dovrei andare al C.a.f., prendere un appuntamento con il direttore della mia banca per sentire quanta fiducia mi può dare per un mutuo, andare a prendere Emma alla lezione di chitarra… ma sono fiduciosa, così come con l’appuntamento per la banca. Il fatto, il fatto vero, reale, è che io ero quella che diceva Non voglio comprarmi casa perché poi mi inchioda in un posto, e io non voglio inchiodarmi, mi sono inchiodata per anni e ho scoperto che non voglio catene e bla bla bla. E ora invece ci sto pensando seriamente. Ero quella che diceva Non mi piace questo paese, la gente sparla di me, mi guarda male e bla e bla. E ora invece esco da casa e saluto tutti come se non ci fosse un domani, faccio gli auguri al primo che passa, mi metto a chiacchiera al bar, adoro le decorazioni natalizie che hanno messo, non mi perdo una festa organizzata dal comune (come quella di oggi. Grande festa, a proposito).

Insomma, forse sto cambiando. Io, cambio, mica la gente di qui, ovvio. Forse davvero non mi dispiacerebbe una sicurezza tutta mia. Ma poi, certo, ho paura. Non lo voglio ammettere, ma mi fa paura prendermi questa responsabilità. Accendere un mutuo. Insomma, si accendono le bombe, no? Ma è anche vero che si accendono le luci, anche. Sarà una bomba o una nuova luce? L’enigma mi consuma.

Eppure mi dico che la vita va presa per come viene. Non è il mio stile, no, affatto, io sono una che controlla, ma a volte mi devo sforzare anche un po’. Ed ecco che questo diventa un altro dei B.P. 2020: rischiare. Muoversi. Perché chi non si muove è morto, e io non voglio ancora morire, non più.

Ma c’è anche l’Amico Speciale che fa capolino nei miei B.P. Perché, ora che le cose tra noi vanno bene (lui riesce sempre a stupirmi, una qualità che non posso che apprezzare) il rischio è quello della tanto temuta Quotidianità. E attraversare il confine è un attimo, darsi per scontati, vedersi per obbligo, ridurre tutto a sesso e cena, cena e sesso, una capatina da mia madre, smettere di ascoltarsi (vabbè, lui lo fa sempre, ma non voglio farlo io), smettere di baciarsi o di tenersi per mano e alla fine ti ritrovi un estraneo nel letto che dorme accanto a te. Sì, ok, sono un pelino catastrofica e paranoica, ma tant’è. Non vivere i momenti con qualcuno perché li dai per scontati è una cosa terribile che accade ogni secondo nel mondo. Più volte al secondo, direi. Ed ecco che il mio B.P. 2020 è anche Godersi i momenti con l’Amico Speciale. Piuttosto meno, ma veri.

E per la Piccola cosa ho riservato? Il Gran Finale. Farla più felice. Semplicemente. Farle vivere i suoi 13 anni, farla ripartire dal gioco per insegnarle a difendersi dal mondo, ripeterle ogni giorno che è con l’amore che si vince davvero, mai con l’odio, che non deve imparare dai miei errori, ma farsene di nuovi, che la vita è solo una questione di occhiali con i quali guardi il mondo, bisogna avere le lenti giuste e farsi le lenti è difficile, ma non impossibile. Vorrei, doppiando Vonnegut, che quando è felice ci facesse caso.

Ed è anche il mio ultimo B.P. 2020: vorrei che quando sono felice ci facessi caso.

Perché è così facile parlare delle sconfitte e delle delusioni.

Ma capita più spesso di quanto voglia ammettere.

p.s. Ale, il mio blog non lo vedi perché scrivo poco… ma tra i B.P. 2020 ci sei anche tu…

 

 

 

Varie ed eventuali: più meno mi trovo sempre qui…

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Questo articolo ha bisogno di una prefazione postfazionata: nel senso che è una follia prefatoria, in puro stile pasoliniano, ma scritta dopo aver finito. Che poi, se ci penso, ogni prefazione è scritta dopo aver terminato la stesura, quindi è una prefazione che va bene. No?

In ogni caso ciò che tento di esprimere saltando di palo in frasca, come spesso mi accade, facendo impazzire il povero Wal, è che non lo dico spesso (ma qualche volta sì), un buon 50 per cento della motivazione che mi spinge a scrivere qui è per la mia Ale. È lei il mio lettore ideale di questo blog. È per lei che cerco di tenerlo aggiornato tanto da non farla preoccupare (anche se sa che meno scrivo più sto bene), è per lei che racconto le piccole cazzate della mia giornata. È il mio modo, spesso, di rispondere alle sue mail, alle sue bellissime mail che mi strappano lacrime, che mi tengono incollata al telefono leggendo e rileggendo. Ale, tesoro, sa solo il cielo quanto mi manchi…

La mia follia prefatoria ha bisogno di un’altra precisazione: questo articolo ha più gusto, a mio avviso, se si legge contestualmente alla canzone in appendice. Billie… quante cavolo di canzoni hai scritto e cantato che mi hanno toccato il cuore?

 

 

 

Più o meno mi trovo sempre qui: a una certa ora della sera o del mattino, con un sottofondo musicale bassissimo, giusto volto a contrastare le canzoni di Coez di Little Boss e le notifiche dei messaggi del mio ex, che si stanno intensificando in modo direttamente proporzionale alla vicinanza dell’udienza per la causa di affido. Lui urla e sbraita con la piccola, sbatte porte, le manda messaggi al limite della tollerabilità, minaccia me e lei, fa il famoso diavolo a 4, ma siccome è lui, lo fa anche a 6, ‘sto diavolo. È il classico uomo che se solo avesse le palle mi avrebbe già buttato una boccetta di acido sul viso. Meno male non ha le palle…

Ma insomma, come ho detto spesso, questi sono solo i soliti cazzi. I soliti cazzi da 5 anni, dal giorno in cui ho detto basta. E, come ho detto ieri al mio avvocato, alla fine ci sto facendo l’abitudine (come è buffo fare l’abitudine alla violenza, non è vero?) e sono comunque stranamente felice, ho tutto quello che mi serve. Ho una figlia bellissima, simpatica e intelligente, un lavoro che mi affatica sì, a volte, ma mi dà soddisfazioni e tanti sorrisi, ho un bel po’ di amici importanti, roba che non si trova facilmente, devo dire, molti di questi a volte non li nomino neanche qui, ma questo non perché non siano importanti, tutt’altro. Sono la mia rete. Ho l’Amico Speciale, ora, bello avere qualcuno che ti fa stare bene senza assecondarti, che sa come prenderti per farti sorridere anche nelle difficoltà, che poi mi chiedo come fa, lui, con una come me che manderebbe sempre tutto in tragedia, manco fossi un Eschilo o Sofocle, ma sa come pigiare i pulsanti giusti.

Insomma, povera, incasinata, ma felice.

E da oggi anche allenata. Alla fine il primo giorno di palestra è arrivato. Devo dire che un pelino di ansia lo avevo, il terrore di non riuscire a muovermi il giorno successivo aleggiava nella mia testa, già immaginavo il dolore ogni volta che alzavo un piatto o per ogni pizza infornata. Ma il ragazzo, Michele (che tra l’altro, come metà delle persone che ho visto lì, è un mio cliente; tranne una che invece è una mia collega. Quindi come stare al Ristorante… ma con più attrezzi) è stato clemente. Avevo dato un’occhiata alla mia app per sapere quanti chilometri avevo fatto a lavoro e già ero a 7 e mezzo. Ho chiesto venia, quindi, e posso quasi affermare con quasi sicurezza (quasi) che domani non avrò ripercussioni. Vabbè, domani ve lo dico.

Io e Little Boss siamo una bella squadra. Alla fine lei si è impegnata tanto e abbiamo riso tanto ed è stata una bella idea, devo dire.

È la prima volta che facciamo qualcosa insieme, mi ha detto.

Certo che potevamo iniziare con yoga, ho ribattuto.

Ma eravamo entrambe entusiaste del pomeriggio.

Forse lei avrà qualche doloretto, domani, visto che abbiamo alzato gli stessi pesi.

E poi va detto che in effetti sono uscita da lì bella rilassata.

Vediamo come va.

Una frase che dico spesso di recente, che non è nel mio stile, ma che inizia a piacermi. Quel che di imprevedibilità, quel cosa che mi fa scivolare i problemi sulle spalle, quel quando che mi dice Adesso, non domani.

Mi godo i piccoli piaceri quando posso, quando il mio carattere impossibile mi consente: una cena con Little Boss in cui ridiamo di tutto, un bacio rubato all’Amico Speciale tra un caffè e l’altro, una telefonata a un amico lontano, una foto stupida, un abbraccio inaspettato, un messaggio che mi dice Quanto sei bella, un libro di King che non avevo ancora letto, un bicchiere del mio vino preferito, una canzone dei Green day che avevo dimenticato.

Come questa:

 

 

 

 

 

Lettera a Te

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Mi hai mandato un messaggio, ieri, Stasera proverò a scriverti, ma poi no, non ce l’hai fatta e io, che invece stamani volevo scriverti sul canale privato, mi trovo a farlo qui. Qui perché. Qui perché resta insieme a tutta la mia altra vita, qui perché è questo un momento in cui le certezze me le faccio scivolare tra le dita come sabbia e tu e lei, tu e Little Boss siete da sempre le mie certezze, i chiodi ai quali attaccare i fili della mia vita, le due persone che danno un significato all’Amore. e quindi forse di scrivere di te e a te ho bisogno ora, in questo momento in cui le certezze scivolano e ho bisogno di un granello che risplenda in mezzo a tutti gli altri.

Mi dici, mi sa che sei busy, come si dice qua, il linguaggio dei folletti è come il nostro, alla fine, sì, sono busy, lo chiedo spesso anche a Osaro (il mio collega nigeriano, ricordi? Ci hai parlato per telefono), Osaro, are you busy?, quando ho bisogno di una mano, e lui no, non è mai troppo busyper me,  arriva al volo, ‘sta specie di acciuga, stende le pizze per me, mi aiuta a pulire, Thanks, gli faccio, e poi sperimento un po’, Danke, Gracias, Merci, sia mai gli venisse la voglia delle lingue, che poi alla fine Grazieè l’unica parola che so in tutte le lingue del mondo, io Ti amoinvece non so dirlo, citando il film, io Ti amo sono restia a dirlo, lo sono, lo ero, chi lo sa, so solo che all’Amico Speciale non lo dico e non me lo faccio dire mai, forse è scaramanzia vista l’ultima volta che l’ho detto, forse non ha più il sapore giusto, ora, o non serve, non ha scopi.

E potrei scrivere come mille altre volte che mi manchi, ma in realtà non è proprio così, c’è sempre una parte di te che è me, che si è depositata negli anni in fondo al mio cuore, e quando dico Amica non va bene e quando dico Sorella ci sono già più vicina, ma no, non è esatto, dovrei inventarmelo un appellativo per te, un nuovo sostantivo che ci descriva, ma proprio io che amo inventare le parole e giocarci non ho idee. Allora dirò solo che sei un’Ale per me, ti renderò metafora, nel mio piccolo mondo il tuo nome avrà per sempre il significato di un sentimento che è tutto nostro, privato, inspiegabile al resto del mondo, ma che ce ne frega, mica è obbligatorio spiegare, obbligatorio è vivere, quello sì.

In questo momento in cui le certezze scivolano, ti ritrovo, come sempre, fragile corpo di quercia accanto al mio anche a miglia di distanza, la mia incasinata Ale.

E oggi ho voglia di dedicarti una canzone che ha un titolo che ci siamo dette milioni di volte, è un inno a quello che siamo quando siamo insieme, sopravvissute, nonostante tutto e tutti. Sopravvivremo perché ci sono Amori nella nostra vita che sono certezze, che sono veri, che non hanno bisogno di aspettative. Perché, nonostante tante volte ci siamo ripetute che non ne siamo capaci, invece, noi, sappiamo amare.

 

 

 

Vernice fresca

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Un sabato come tanti, un caffè a lato della tastiera, un maglione caldo (vabbè, sorvoliamo su questa ignominia, io che già volevo indossare t-shirt e calzoncini, li sento lassù nelle scatole, i miei vestiti estivi, tutti a brontolare come me), mille pensieri ancora confusi che fanno faticare il piccolo neurone solitario.

Mi sono presa tre ore per me, una cosa che faccio di rado quando si tratta di Little Boss, quando sta con me sta con me, dico sempre, e non è che quando sta con me e io voglio stare da sola lei mi sia di particolare distrazione, ma avevo bisogno di rimodellare queste quattro mura in solitudine, rimodellarle nella mia testa, cancellare tutte quelle brutte immagini che ci si erano appiccicate una settimana fa, un po’ come dare una mano di vernice metaforica. Perché io, qui, ci devo vivere, e queste pareti devono sempre ricordarmi momenti felici, devo poter guardare un quadro e ricordarmi il bel momento in cui mi è stato regalato, devo poter entrare nel letto pensando a quando ci sono stati gli abbracci e non le lacrime. Per fare questo ci vuole molta concentrazione. E forse un buon pennello. Anche a ridipingere ho imparato in questo ultimo periodo.

Il lavoro è stato fruttuoso. Ho pulito lo specchio cercandomi e mi sono vista, laggiù, un po’ opaca, ma sempre io. E la casa intera ha sorriso, come solo lei sa fare quando torno da lei. Ho capito che eliminare (il primo istinto della fase cianurotica) non serve a nulla, bisogna imparare a guardare di nuovo, in modo nuovo, cambiando sempre lato, senza farsi sopraffare della voglia di crearsi troppe certezze, perché nella vita non ci sono mai certezze, soprattutto su noi stessi.

Nel frattempo la vita sembra essersi rallentata, anche il lavoro è più lento, chissà, forse l’Universo ha capito che avevo bisogno di una pausa. Capitano cose alquanto comiche, come TDL che mi scrive messaggi per consolarmi del mio grande dolore (che ha intuito credo dagli occhi gonfi e le mani tremanti di domenica), mi chiede cosa è successo, scrive Puoi parlarne con me se vuoi, e certo che non lo farò, mi viene da ridere al solo pensiero. Ho accettato un caffè, mi fa tenerezza il modo in cui si preoccupa per me, mi chiedo quanto abbia davvero capito quello che c’è stato tra noi, a questo punto, ma non me ne preoccupo più. Mi sono preoccupata di essere vista, vista davvero, da troppe persone. Ora non me ne frega più nulla, non voglio preoccuparmene più, voglio preoccuparmi di coloro che restano nella mia vita perché vogliono farlo. Perché siamo l’uno per l’altro valori aggiunti. Ed essermi tolta questo pensiero mi alleggerisce, sono stanca di spiegarmi a chi non può sentire, sono stanca di smanaccare di fronte a chi non può vedere. E allora sì, parlerò con TDL delle mille cose che lui vuole sentire da me, come sempre, dei miei progetti, delle mie idee, lui si ricaricherà di stimoli, che poi è quello che vuole, io mi svuoterò un po’ dai pensieri inutili, ma non tenterò più di spiegarmi davvero.

Tra poche ore arriverà l’unica persona che non ha bisogno di nulla per vedermi, nemmeno vedermi fisicamente. Dopo i mesi a studiare la magia in mezzo ai folletti sarà Ale, come sempre, a ricaricarmi l’anima.

E io non vedo l’ora…

Quello che conta. Per Te

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Oggi è il tuo compleanno.

Un giorno speciale per me.

Lo so che ti ho già fatto gli auguri veloci su Whatsapp stamani, e mandato un video scemo con Little Boss, e che ci siamo sentite per telefono fino a un secondo fa, tu con il tuo mal di denti, io con le mie solite paturnie (ma sto migliorando, vero? Sono sempre più brava nella gestione del dolore, qualcosa dovrò pur aver imparato, la maturità a qualcosa porta davvero).

Manca poco, pochissimo al giorno in cui, finalmente, ci potremo riabbracciare. Quanto tempo è passato? Nemmeno me lo ricordo più, amica mia. Ma sarà come essersi viste ieri, lo so. Sarà un po’ difficile riconoscersi all’inizio, più magre, con qualche ruga di dolore in mezzo alla fronte, ma sempre noi, sempre le stesse. Quel nostro rapporto speciale che nessuno capirà, a cui nessuno ha dato credito in passato, la nostra forza, la mia forza ha il tuo volto.

Chissà quanta magia hai imparato laggiù, dai folletti, quante storie dovremo raccontarci fino a notte fonda (ora sono più brava a resistere quando le stelle infiammano il cielo, una piccola eredità di qualcuno che ho amato), quanto dovremo ciacolare, no?

E non vedo l’ora, e stavolta il count down lo faccio per te, siamo già a meno quattro, perché lo sai che i miei giorni finiscono presto, ma per te li farò durare tutto il tempo possibile.

E sì, un giorno verrò a trovarti in mezzo ai folletti, mi farai vedere le tue magie, come hai già fatto nel paese che era un collegio, ricordi?

E quello che io ti auguro è di ricordarti sempre sempre sempre che sei una persona speciale e ciò che ti chiedo, per me, egoisticamente come solo l’amore può essere, è di non permettere mai a nessuno di dirti il contrario.

Io e te sappiamo che la profondità delle cose è insondabile, a volte inspiegabile, che va presa come un atto di fede, a volte bisogna solo arrendersi e crederci, senza paura, e io con te non ho mai paura.

Quando ti dico che ti voglio bene è sempre un limite.

Oggi è un giorno speciale per me.

È il tuo compleanno.

Non smetterò mai di ringraziare questo giorno.

 

Ti dedico questa canzone che mi ha fatto sentire Little Boss. Perché è bella. Perché tu, un po’ pazza, lo sei…

 

Sorellanza

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Oggi ho questa specie di frenesia: ho bisogno di parlare con Ale.

La mia dolce amica del Sottosopra, l’addestratrice di fate e folletti che se ne sta in mezzo ai boschi.

Ma non messaggi, telefono: proprio della sua presenza fisica, ho bisogno. Avrei bisogno. Condizionaliamola, sta frase.

Mi manca terribilmente e parlare di lei me la fa mancare ancora di più. Siamo fatti così, è vero, ci si abitua a tutto, alla fine, anche all’assenza, ma mica sempre, eh. Mica sempre. E quando mi succedono cose strane, cose che non capisco e che so che lei invece può sbrogliare, perché lei è bravissima a sbrogliare le cose ingarbugliate, ha proprio il dono dello sbrogliamento, allora la sua assenza pesa come un macigno. Perché la sua capacità è anche quella di sapere quale strada percorrere per riportare tutto alla realtà, tutto qui, sulla terra. Senza di lei, mi sono resa conto, sono un po’ più alla deriva, mi manca una parte, la parte che mi guarda da fuori, che mi conosce, che percepisce i cambiamenti e sa quali sono veri e quali mi passeranno. È come un gancio. E io oggi mi sento sganciata.

Perché nonostante tutto il mio impegno, tutto il mio dannato studiare, leggere, capire, analizzare, auto analizzare, scrivere eccetera, a volte manco di senso pratico (ma è esattamente questo? Senso pratico? Non so, forse è altro, qualcosa che è legato ai piedi per terra, sì, ma … non lo so, se mi viene il concetto giusto prima di terminare correggerò).

E lei è quella cosa lì, tra le altre mille.

E so, lo so, che sta lassù tra i boschi per salvarsi la pelle, so, lo so che questa è la sua vita e la sua scelta, so, lo so che sono felice che lei stia cercando la sua strada, ma so anche, lo so, che mi manca e alla fine un po’ egoisti lo siamo, noi bipedi.

In questa vita lunare, la nuova vita dopo quella vecchia, le cose si stanno assestando. No, non è vero, non sono le cose, sono io che mi sto assestando. Ho ripreso dei ritmi, ho stabilito obiettivi, mi ci sono voluti anni, ecco, quando dico che riesco a riconoscermi allo specchio, ora, sto dicendo anche questo. So cosa voglio, so dove voglio andare e, nonostante i mille problemi, le difficoltà, i cambiamenti, le instabilità, io sono stabile. O meglio, mi sento stabile. Sento che posso contare su di me, il che non è poco. E ho un sacco di amici, in questa vita lunare, veri, sinceri, vicini in molti modi. E sento che posso contare anche su di loro, sulla mia rete di salvataggio (e spero che loro contino su di me allo stesso modo, ovvio).

Quindi sto bene. E negli ultimi tempi sto ancora meglio grazie a un tizio che viene dal Giappone.

Non mi manca Ale perché sono sola. Mi manca Ale perché è una parte di me.

Ci sono poche cose come la sorellanza.