Dhe, oh, varda ua’ com’è leggero!

Ho quaranta minuti, la cottura del dolce che ho fatto, un cioccolato e mele, rivisitazione dei poveri di cioccolato e pere, che non avevo. Oggi invito a pranzo mio padre e la badante georgiana, più che altro perché così evito di insegnarle a fare il ragù (lo farò, eh, che mio padre ormai associa la domenica al ragù) e approfitto di essere a casa, una domenica ogni tanto. 

Ieri ho comprato lo scooter per Little. Un piccolo affare (o una piccola fregatura, chi può dirlo? Dopotutto era nelle premesse il fatto che non me ne intendo). Il giorno prima chiamo questo numero che è su Subito. Mi risponde un ragazzo giovane, mi dice che il mezzo che avevo adocchiato lo ha già venduto, ma ne ha un altro, un po’ meno potente, ma adatto alle ragazze (proprio così dice lui) perché leggero. Mi manda le foto: carino, in effetti, sella nuova, colore celeste, gomme nuove, revisionato, cinghia rifatta, 12 mesi di garanzia. Vecchiotto, ma prezzo buono. 

Prima di andare a vederlo faccio un altro giro di telefonate ai concessionari. Avete scooter 125 usati, cambio automatico?

Si susseguono una serie di no. Solo nuovi. E poca scelta, ovvio, solo Piaggio, qui siamo nella culla della Piaggio. Della serie: o Liberty o Liberty. Quindi io e l’A.S. partiamo per andare a vedere questo benedetto scooter. Non so per quale motivo intraprendiamo una strada tra le colline che mi fa risuonare in testa per tutto il tempo la voce di max Pezzali. Rotta per casa di Dio. Arriviamo dopo 40 minuti e 400 curve strette. Google ci dice dove è questo rivenditore e noi non lo vediamo: niente cartelli, nulla. girottoliamo a caso nel paesino per dieci minuti, chiediamo info: nessuno sa nulla. Alla fine oltrepassiamo il cancello di una villa, per chiedere, e vediamo lo scooter. Il rivenditore non è altro che un ragazzetto che da anni armeggia ai motorini e ne ha fatto una specie di lavoro dentro casa: compra, sistema, rivende. E stop. Ci fa provare il motorino, ci spiega diligentemente le caratteristiche (deh, oh, varda ua’ com’è leggero!) e poi aspetta. Io lo comprerei anche solo per mancanza di alternative, ma poi ci penso ancora su e decido che in effetti per Little è perfetto: non nuovo, visto che sa andare solo in bici per ora, leggero, un po’ meno potente. E in pronta consegna (a casa) la settimana prossima con foglio di circolazione provvisorio e pure un bauletto nuovo. Ci stringiamo la mano e la decisione è presa. 

Io e l’A.S. andiamo a mangiare il sushi.

Nel pomeriggio arrivano i primi messaggi: Little che è contenta oltremodo (per lei l’importante è avere qualcosa da guidare per essere autonoma) e gli improperi del mio ex, come da copione perché Fate sempre come vi pare, voi. Ebbene sì, stavolta ho fatto come mi pare, visto che lui non ha fatto nulla, come mi ricorda giustamente Little, che è la prima a schivare i suoi proiettili. Al limite non mi darà la metà dei soldi, ma per ora non me ne frega, visto che intesto il mezzo a me. 

E così sapremo cosa fare il sabato pomeriggio da qui in avanti. Prove su pista, sperando che non cada troppe volte. 

Alexa mi dice che al mio timer del dolce mancano dieci minuti. Il profumo è buono, il vecchio gradirà. Se non avessi il dolore al fianco sarebbe pure una bella giornata.

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Little e la patente

Little sta prendendo la patente. Non l’AM, che sarebbe quella del motorino, ma l’A1, per il 125. Ora, questa scelta, per me inizialmente assai discutibile per varie ragioni, lei invece me l’aveva argomentata bene.

Se prendo la patente A1, poi, quando prendo la B, non devo più fare la teoria, ma solo la pratica. Infine (quando vuole convincermi adotta parole raffinate, ben lontane dai turpiloqui che le sento in bocca quando sta con i suoi nuovi amici) a 17 anni, dopo X guide, posso guidare la macchina, se accompagnata. 

Devo dire che l’ultimo punto mi ha convinto. In pratica può esercitarsi con me per un anno e alla fine con altre poche guide aggiuntive e l’esame di pratica a 18 anni avrà la sua patente. Le spese grosse le sostengo ora invece che poi. 

Devo dire che mi ha sorpreso la rivoluzione delle patenti. Quando avevo la sua età (e no! Non ci provate a sfottermi, lo so cosa sembro quando lo scrivo!) non c’era la patente per prendere il motorino. Lo prendevi e lo guidavi. Se volevi guidare più di un cinquantino, allora prendevi la A. Stop. Con la B guidavi tutto, tranne i 250. E insomma, le leggi sulla patente erano già cambiate. Mi ricordo che il mio ex suocero mi disse una volta che a un certo punto qualcuno, lì in campagna, arrivò per rilasciare le patenti (lui era un bambino). Chiese a tutti cosa sapessero guidare e assegnò così i vari documenti. Un modo semplice, in effetti. Non ho mai dubitato fosse la verità, questa storia mi piace tanto.

E insomma, prima di dare il via alle varie lezioni di teoria, Little ha dovuto chiedere a suo padre. Come al solito ha storto la bocca (non si capisce mai il perché lo faccia, lui non argomenta mai le sue varie incazzature con discorsi sensati), ma alla fine ha ceduto con il suo solito: fate come vi pare, dove il fate  si riferisce all’entità che Little-Moon che vive solo nel suo cervello. Little non si è lasciata scappare il secondo: la sera stessa si è fatta portare alla scuola guida per fare l’iscrizione. In soli due mesi (il tempo minimo) si è fatta iscrivere all’esame di teoria e l’ha, ovvio, passato (sebbene stia faticando un po’ a scuola quest’anno, la sua secchioneria non molla e per le cose che le interessano viene sempre fuori). Adesso bisogna iniziare con la pratica. E Little è un po’, come dire… un sacco di patate. È la bambina meno fisica che io conosca. Non è mai stata una bambina da sport (danza, pallavolo, nuoto, tutte mollate), non è mai stata una che si arrampicava, che si buttava, che correva. In bicicletta ha imparato ad andare tardi e tardi si è fatta togliere le rotelle. Quindi non è che io sia preoccupata che avrà sotto il sedere un 125, ma insomma. Il fatto è che io non so guidare un motociclo. Mai guidato neanche un Ciao, non sono capace di insegnarle. Così come non mi intendo affatto del mezzo in sé. Ecco perché, sin da subito, ho pensato di chiederlo a suo padre, un aiutino: trovi tu il mezzo? Le insegni tu ad andarci?

Credevo che per una volta avrebbe fatto il suo dovere. 

E invece ora, che il foglio rosa ce l’ha e potrebbe iniziare a fare pratica, lui ancora non si è mosso. Ha iniziato a inveire per messaggio nel suo modo criptico e alla fine ha ributtato indietro la palla a me: che ci pensi tua madre, così come ti compra le gonne e i calzini, ha scritto a Little. 

E l’Amico Speciale, quando glielo ho detto, mi ha guardato. E ci siamo capiti senza dire nulla. Ci penseremo  io e lui a trovare il mezzo (dopo 10 minuti già aveva tirato fuori un paio di idee da marketplace) e ci penserà lui a insegnarle (ha tutte le patenti che uno può avere sull’asfalto, gli manca solo la nautica e la licenza di volo). Sembrerebbe un lieto fine, e in parte lo è. L’A.S. è una figura di riferimento per Little e alla fine si sta formando questa nuova famiglia, ma. Ma lei un padre ce l’ha e non fa il padre. E questo mi rattrista molto. Ché se lei è in questa situazione è colpa mia. 

In ogni caso: qualche consiglio su un 125 cambio automatico?  

Cose da non fare a un concerto di Natale

È un lunedì mattina come tanti (ho ricominciato a scrivere in differita), ho dormito uno sbotto di ore e mi sono ripresa dalla giornata maratonica di ieri. Lavoro, occhiatina a babbo, doccia e concerto di Natale della scuola di musica di Little Boss. 

Dopo un paio di anni incerti, finalmente il concerto torna in presenza e al chiuso, una quasi normalità disturbata solo dall’influenza che ha decimato gran parte dei partecipanti. Ogni anno, dalla separazione con il mio ex, vado lì da sola, mi metto su una seggiolina nell’angolo e cerco di evitare i suoi parenti e amici. Il posto dove si svolge il concerto è il suo territorio, come mi ha spesso ribadito. Non che sia più del tutto vero, intendiamoci, ma l’Amico Speciale non ce lo porto, vogliamo evitare imbarazzi per Little (il mio ex sarebbe capacissimo di fare una scenata davanti a tutti, nonostante tra poco siano dieci anni che siamo separati). 

Quindi nulla, ieri faccio come sempre: mi metto in fondo, da sola seduta nell’angolino. Dietro di me si siede una famiglia di cui riconosco solo la mamma (è stato il mio avvocato, anni fa, in una causa di lavoro, ma non mi saluta perché sul suo territorio a volte funziona così). 

Il concerto ritarda e la Tizia Maleducata dietro di me inizia a parlare. Lo farà per tutto il tempo. Si mette una gomma in bocca e biascicando parte: ma insomma, questo concerto quando inizia? Che poi dobbiamo andare a fare l’aperitivo con X, sennò facciamo tardi. Scopro poco dopo che è la sorella della mamma/avvocato. Così come scopro il suo numero di scarpe, a quanto tiene la temperatura del termosifone a casa, dove lavora e molto altro. Tutto in quindici minuti. 

Le luci si spengono e inizia la classe di pianoforte. Un bambino delizioso sui 10 anni suona e canta Jingle Bells. La Tizia Maleducata continua a parlare ad alta voce dei fatti suoi durante tutto il tempo. scroscio di applausi e lei dice: ha sbagliato qualche nota, però

È il turno delle percussioni. Sono quattro ragazzi che fanno un’esibizione straordinaria, credo sia la prima volta che la scuola organizza per loro un’esibizione in solitaria, di solito mettono i percussionisti ad accompagnare altri strumenti. Sono bravissimi, ma va da sé che non è una canzone. Lei non perde tempo e fa: eh, però questa che noia che è…

Scuola di canto. Una signora sulla cinquantina canta una canzone. Te esotoy buscando…te quiero…eccetera.

Che lingua è, questa? Chiede la Tizia Maleducata. La tristezza è l’uomo accanto a lei che risponde: portoghese. 

Comunque non era per nulla brava, aggiunge alla fine. 

Finalmente arriva una coppia di cantanti che incontrano il suo favore, cantando una canzone di Baglioni. 

Questi sì che sono bravi, era l’ora. Di una delicatezza assoluta.

È il turno di Little che canta con altre tre ragazze. Sono molto presa ad ascoltare quindi non è che faccia caso alla Tizia Maleducata, ma siccome parla a voce alta non mi riesce del tutto, così scopro altri dettagli della sua vita mentre parla con l’uomo accanto a lei. non commenta l’esibizione ( o se lo fa non la sento) ed è la sua fortuna. 

Il concerto sta per finire, c’è l’esibizione del coro che canta canzoni popolari. Lei non si lascia sfuggire l’ultima occasione per lamentarsi.

Uff, anche il coro, adesso, ma sono quasi le sei!

E io lo so che lì avrei dovuto girarmi, guardarla in faccia per la prima volta e dirle: ma che cazzo ci sei venuta a fare? Tua nipote l’hai vista? Presenza l’hai fatta? Ora vattene affanculo fuori di qui

Ma prima di tutto l’ho detto che è stata fortunata a non commentare Little (che comunque è stata bravissima, n.d.r), e poi che faccio? Una scenata davanti a tutti? tanto valeva allora che portassi al concerto anche l’Amico Speciale. Ho atteso la fine del concerto, sono uscita dalla mia postazione senza voltarmi. Non volevo vederla in faccia, non volevo riconoscerla fuori da lì. Che poi lavora in ospedale e sia mai, visto che ci giro di continuo tra ospedali, che una volta mi tocchi proprio lei. 

Mi sono allontanata dal teatro, faceva un freddo cane, sono arrivata alla macchina e ho caricato su Spoty la canzone che ha cantato Little. E la Tizia Maleducata è scomparsa. 

Prendiamola a ridere

Notare che non mi fido e mi faccio mandare la foto della pressione di mio padre…

È un’ora tarda per me, le nove e venti.

Conscia del fatto che non terminerò stasera questo mio scritto, sento comunque la necessità di scrivere. Bene, mi dico. Stai tornando umana. 

È che sono fissa a risolvere un problema, quello di mio padre. Un uomo relativamente giovane per i tempi odierni (73 anni, non vi sembra giovane?) che si comporta come un novantenne senza speranze. Un uomo vitale, molto attento a se stesso, attaccato alla vita, egocentrico fino all’estremo limite ( tanto che spesso ha messo la sua vita di fronte a quella delle sue figlie, causando non pochi problemi di botta o di rimbalzo), un uomo vivo, insomma, trasformato in un Dead Man Walking in poco tempo, un anno per lo più. La causa ancora parzialmente sconosciuta. 

Una figlia non può che intervenire in maniera decisa in questi momenti. Facendo da genitore, insomma. Programmando visite, prendendo decisioni difficili… insomma, il solito tour dei Figli Di Genitori Malati (FDGM). 

Ma resta che sono anche Madre, vera, di un’adolescente. 

Insomma, mi trovo in quell’età bastarda in cui mi devo preoccupare sia dei figli che dei genitori. Tempo per sé pari a zero. Con resto. 

Oggi mi chiama Little a lavoro. Chiama di rado, quasi mai. Si affida a Whatsapp più che latro.

Mami, dice, c’è una lente a contatto nel cesso.

Lo so, dico, l’ho buttata io stamani perché era finita (le porto anche più del dovuto, Ndr, prima o poi divento cieca per un’infezione sconosciuta dovuta al portare troppo una lente a contatto).

Sì, ok, ma ti serve?

In che senso Bambi? (nomignolo che le affibbio random, quando per lo più voglio chiederle qualcosa oppure dirle che le voglio bene oppure, come nel caso, farle capire che non sto capendo)

Nel senso, posso farci sopra la pipì o vuoi recuperarla?

Che dire. 

Non diciamo nulla. 

E poi, più tardi, chiamo mio padre. 

Ciao, come ti senti?

Bene! Perché?

Sì, ok, la pressione la hai misurata?

Sì, la massima è 190. Non male vero? 

Come non male???? È alta! Babbo, dovresti tenerla sotto 160 almeno!

Ah sì? E chi lo dice? 

Tipo il tuo medico?

Ah, ok, ok. me lo dice sempre anche Moon.

Babbo…sono io Moon…

Ahahaha. Fa lui. Ahahaha. 

Ma io dico? Che te ridi?

Che poi, sì, lo ammetto, ci rido anche io. 

Ridiamoci su, che è meglio. 

Intanto la mia artrosi cervicale si fa sentire. Quella che un tempo chiamavo la Carogna. Da qualche parte l’ho già scritto, ma non so dove. 

Il mio ortopedico mi dice che peggiora con lo stress. E quindi ci provo a non stressarmi, tra i messaggi del Poeta (il mio ex ora lo chiamo così, il Poeta, anzi Er Poeta, dato l’ermetismo dei suoi scritti che neanche Ungaretti), mio padre con l’arteriosclerosi e mia figlia con le crisi di adolescenza e il lavoro con le crisi sempre e la mia cervicale con le sue crisi cicliche. 

Ci provo. Eh.

Intanto sono riuscita a finire di scrivere qui. 

Un traguardo. Sono le nove e quarantacinque. In ritardo di un’ora sulla tabella di marcia di Morfeo. 

Morfeo mi scuserà. Spero.

Cosa vorrei da Babbo Natale

Non so perché mi è venuta voglia di scrivere di questa giornata, che poi non è stata grandiosa, splendida. E nemmeno terribile, terrificante. È stata media. Una giornata media che ha visto una me media. 

Mi sono svegliata con un mal di testa che sembrava mi avessero infilato il cervello in una centrifuga per insalata e la netta sensazione di essermi persa: che giorno è? Martedì, dice l’Iphone. Ma è festa, ha risposto il mio cervello strizzato, quindi è come una domenica. Ma una domenica in zona arancione, specie per chi lavora in un Bar, non è una vera domenica, facciamo che è come un sabato stiracchiato, un sabato di Febbraio, per giunta (chi lavora nella ristorazione forse può capire a cosa mi riferisco).

Al lavoro in effetti è stato così, a parte un paio di tizi divertenti (come sempre), uno dei quali insisteva a parlare della Civilissima Svizzera (sì, come no? La Civilissima Svizzera è stata l’ultima nazione a concedere il voto alle donne, tra le altre cose…), l’altro che insisteva a dirmi che sedici euro per sei paste da dessert era troppo. Ma ne ha prese dodici, ho risposto, due vassoi da sei fanno dodici paste. Nulla, questo il cervello più che strizzato lo aveva mandato in ferie (si può fare solo questo, oggi, in Italia: tu in ferie non puoi andarci, per via del Covid, ma il cervello invece sì, e lo fanno in tanti). Alla fine si è convinto, anche se credevo di dover tirare fuori la calcolatrice e fargli vedere…

E poi nulla, la giornata di lavoro a un certo punto è finita, ho preso le mie cose e sono tornata a casa. Little era a pranzo da suo padre e io. Mi sono sentita sola. Perché si sa che la solitudine è una sensazione, non una realtà oggettiva. Avrei voluto uscire, andare a trovare qualcuno (perfino mia madre, questo la dice lunga su quanto mi sentissi sola) e invece me ne sono rimasta lì a aspettare che l’orologio segnasse l’ora in cui dovevo recuperare Little da suo padre. 

In macchina lei mi ha detto un sacco di cose (come sempre mi intasa il cervello di info e guai a dimenticare che lei ti ha detto che la prof di Italiano ha rimandato il compito di lunedì prossimo). E poi mi ha detto che suo padre era tranquillo, che le ha chiesto di quel ragazzino con cui sta, il Little Nerd, che si è offerto di portarla nella cittadina per vederlo se dovessero cambiare le condizioni di colore. Lei era confusa e felice, come avrebbe detto Carmen Consoli, e io anche. Sembra che le cose stiano migliorando, da quelle parti. Si vocifera che forse, il mio ex, abbia trovato una. Dopo soli cinque anni e passa. Forse la svolta? Forse davvero smetterà per sempre di mandarmi messaggi alla cazzo (perdonate il termine, ma se aveste letto i suoi messaggi in questi anni direste di peggio). Bene, benone: una buona mezza notizia. 

E poi una telefonata dell’Amico Speciale. Devi portare la macchina dal meccanico, portiamola ora così domani la guarda, ti do la mia macchina, mi dice. Tutto verissimo, la macchina mi avverte già da un po’ con il suo countdown che mi mancano pochi chilometri al tagliando, giusto stamni mi mancavano 57 chilometri, ma lo sento dalla sua voce che così almeno abbiamo una scusa per vederci, fosse anche per pochi minuti. Assicuro Little a casa, riparto, faccio due chilometri e la macchina mi dice che è l’ora, l’ora del meccanico, mi accende la spia con la chiave inglese. Non so perché questa cosa mi riempia di gioia, come se io e la macchina fossimo in una strana sintonia. O forse è più in sintonia con l’Amico Speciale, chi lo sa. 

Riporto l’Amico Speciale a casa, Ti fermi per una birretta?, chiede. Why not? Illegali per illegali (lui vive in un comune diverso, a soli due chilometri dal mio, ma ciò non ci impedisce di essere illegali). E mentre siamo lì lui inizia a dirmi che sarebbe bello dividerci la vita, alzarci insieme, cucinare per tre invece che per due (Little è sempre compresa, ovvio). Mi dice che quando (non se) saremo sposati allora forse dovremo trasferirci in una casa più grande, io ribatto che la mia futura casa ci permetterà di dormire insieme, qualche volta, anche se c’è Little Boss in casa (ora non è possibile per via degli spazi), che sarebbe una prova di convivenza ideale eccetera. Insomma, parliamo, progettiamo, in sintesi facciamo quello che a me riesce sempre benissimo, progettare, a lui invece resta ostico. E sono felice, mi sembra che tutto si stia costruendo bene, come quando monti il Galeone della Lego e non ti avanzano pezzi. 

Rimonto in macchina (la sua) e collego Spoty. Sulla mia non si può fare, sulla sua è un piacere vedere Moon’s Iphone sul display. Sono di casa anche lì, nella sua macchina, sono parte della sua vita e lui della mia. Avevo giurato che non sarebbe successo più, che non mi sarei fatta fregare più da un uomo con la storia del possesso e del Sei Mia e tutto il resto.  Ma non è così che mi sento. Non mi sento sua, mi sento una parte della sua vita, così come sento che sono una parte della sua. Non c’entra mai il possesso, c’entra la voglia di condividere, di esserci, e mi si sta aprendo davanti un mondo sconosciuto e bellissimo. 

E poi poco prima di parcheggiare ecco che attacca questa canzone: 

e inizia a piovere. Piccole gocce che spazzo via dal vetro. 

E mi sento felice sul serio. Mi sento completa, piena. 

Quindi sì, giornata media che ha visto una me media. 

Ma è quando ti senti felice in una giornata media che ha visto una te media che ti accorgi che le cose iniziano a decollare. 

Anche se so che è impossibile, vorrei chiedere a Babbo natale di portarmi tanti giorni così. Il più possibile. 

Upload di Little

Vediamo da che parte iniziare…

Little Boss ha ormai 14 anni, è in piena adolescenza, gli ormoni le saltellano in corpo come cavallette, il suo Little World è cambiato  da quando ha iniziato il Liceo (gente nuova, cittadina invece del paesello eccetera), la sua generazione ormai sta appesa al filo di un Tik Tok. Inoltre mettiamoci una pandemia, la didattica a distanza, la disorganizzazione degli insegnanti, il nervosismo che mette non uscire mai dalla stanza se non per andare in un’altra casa e un’altra stanza. 

Queste sono le premesse. 

Il fatto arriva l’altra sera, verso le nove, ora in cui di solito io dormo, che non dormissi ancora è stato un caso, anche se l’occhio si chiudeva eccome sul divano. Little scende dalle scale, Vado a lavarmi i denti, dice, è quasi in bagno e mi fa: ah, volevo chiederti un favore

Spara, rispondo. 

Vorrei che quando parli di me, anzi no, scrivi di me, invece che scrivere ad esempio, mia figlia, tu scrivessi mi* figli*. 

? (questo è il fumetto che mi è apparso sopra la testa)

Sì, perché io non mi sento Cisgender, ma neanche non- binary, diciamo che sono una via di mezzo della via di mezzo tra sentirmi femmina e non- binary

?? 

Mi sento A-gender, ma forse anche Genderfluid, non so. 

A questo punto cala il silenzio. 

Poi, dopo un po’, chiedo: e che c’entra questo con il ragazzino che hai baciato?

Nulla, lui invece si sente non-binary. 

Ah, faccio. 

Non credo proprio che scriverò di te così a, per esempio, tua nonna o tuo nonno, dico tornando al punto di partenza. Anche perché poi dovrei spiegarglielo, e io, sinceramente, non ci sto capendo un cavolo

Lei prima se la prende, poi, dopo un po’ di insistenza, cerca di spiegarmi. E mentre fa schemetti su un foglio e insieme cerchiamo le definizioni, continua a ripetermi che non mi ha chiesto nulla di così complicato: basta cambiare un segno grafico.  

Certo, così il caming out di nonsocosa lo faccio io per te…, le faccio presente. 

Ma in tutto questo circo di definizioni e scatole di cui non ero, sinceramente, a conoscenza, mi pare che per Little manchi qualcosa: il sesso. Insomma, mi chiedo e le chiedo, come puoi definirti sessualmente senza un’esperienza sul campo? Non ti sembra un po’ impulsiva come scelta?

Lei risponde: ci penso già da ben 6 mesi!

E lì capisco quanta differenza passa tra una quattordicenne e una quarantaduenne: il senso del tempo è molto diverso. 

Quindi: lei è sicura, dopo ben 6 mesi di riflessione a 14 anni, di non essere sicura del genere al quale appartiene, nonostante le piaccia un ragazzo, si sia voluta tingere i capelli, stia ore e ore allo specchio, si provi i miei vestiti e mi rubi l’eyeliner. 

Ma io, che non voglio ignorare come da copione (è una fase, è una moda, passerà), né voglio ingigantire la cosa (andiamo da un medico per diagnosticarti la disforia di genere), devo perlomeno informarmi. 

E così il giorno seguente lo passo tutto a leggere, poi il mio Boss mi dà una rivista (Millennium) con uno speciale dedicato, e io mi addentro in questo mondo con diligenza, leggendo di bambini di 4 anni che già sentivano di appartenere a un genere diverso da quello di nascita. Penso a Little a 4 anni: mi ricordo di una normale bambina, che giocava con tutto, bambole comprese, che amava i puzzle e disegnare. Non voleva vestirsi da maschio, ma nemmeno da femmina: la vestivo io, punto. 

Quindi nulla, mi informo mi informo ma ancora sono lontana dal capire come ci si possa non sentire appartenente a un genere. Io questo problema, è vero, non me lo sono mai posto: ci sono stereotipi che ho sempre combattuto, mi sono sempre vestita come volevo, una volta mi sono chiesta se potevo avere tendenze lesbiche (vista la mia storia familiare mi pareva ovvio pensarci), mi sono risposta che mi piacciono gli uomini e punto. Ma questa cosa, questa del genere, no. Non capisco le varie sfumature, la differenza che corre tra un A-gender e un Gender Fluid, ma soprattutto non capisco tutte queste definizioni, queste scatole in cui doversi inserire per forza: ma dico, non puoi farti la tua vita privata e basta? Che c’è bisogno di spiegare tutto tutto? Cosa cambia, mi chiedo? 

Ed ecco che la domanda la giro a voi: Cosa cambia? 

Forse non sono così aperta di idee come pensavo (eppure ho accettato una madre lesbica, mi pareva di essere molto aperta), oppure sto solo invecchiando e faccio come tutti i vecchi: non mi riconosco nelle nuove generazioni e mi pare che si stava meglio quando si stava peggio eccetera. 

Se inizio a scrivere per motti e proverbi fatemi fuori senza passare dal Via…Li

Il primo bacio

L’adolescenza di mia figlia mi sta conturbando. La sua prima cotta, il suo primo ragazzo, il suo primo bacio in epoca Covid. Dovrei essere contraria, insomma, siamo o non siamo in stato di allerta, ma invece, nel mio cuore, ne gioisco. 

Il suo primo bacio. Ricorderà per sempre il timido ragazzino un po’ nerd che glielo ha dato. E io rivedrò per tanto tempo l’espressione sul suo viso, felice di far parte di tutto questo. 

Ripenso al mio, di primo bacio. Ero più piccola di lei, avevo una cotta assurda per un ragazzino che oggi vedo spesso e che è diventato un alcolizzato, in pratica (si vede che ho un radar per i cattivi ragazzi, anche quelli in fieri). Eravamo nello stanzino che l’oratorio di pese dava agli scout: lui nelle Aquile, io nelle Pantere (nere e fiere era il grido), avrei dovuto essere nei Pinguini, animali goffi e festaioli, non sono mai stata una che ruggiva. Ma in quel caso avevo limato: la pazienza? Forse. Ero talmente cotta da mesi che lo sapevano anche i sassi. E sebbene lui avesse tante altre alternative, quel pomeriggio scelse me. Forse perché le alternative se le era già fatte: era un ragazzino sveglio, nonostante l’età. 

Fatto sta che ricordo ogni attimo. La colonna sonora (Ti amo di Umberto Tozzi, in gran voga quell’estate); le sue labbra (umidissime, un polpo, in pratica); la mia sensazione ( le famose farfalle nello stomaco, un modo banale di dire una cosa reale). E mi ricordo anche che durò tantissimo. Tanto a tal punto che a un certo punto feci una cosa che non si dovrebbe fare mai: aprii gli occhi. E mi guardai intorno: le bandierine fissate al muro, le assi del tavolo accanto a noi, la panca su cui stavamo seduti. E la porta: soprattutto la porta. Non so se la considerassi una via di fuga o un pericolo per la nostra intimità. 

Dopo quel primo bacio finì tutto: l’adolescenza non perdona. Ma io ancora lo ricordo con piacere, sono felice che sia stato con uno che mi piaceva davvero, devo dire che, nonostante i suoi problemi attuali, ogni volta che ci vediamo esercita ancora un certo fascino su di me ( devo dirlo: lui è ancora un figo pazzesco e con uno sguardo ammalia, peccato che il suo livello di attenzione nei confronti del prossimo sia di 2 secondi…)

Ecco, spero che per la mia Little sia così. Che ricordi con piacere questo momento. Che la fuga in camera sua dopo una cena super veloce abbia un domani. Perché, scusate le banalità, questi momenti non tornano più. Non sarà mai più lo stesso. Sarà sempre difficile, non si potrà lasciar andare come ora, guarderà gli occhi di un uomo e saprà che quelle farfalle non sono eterne, che l’amore non è quello, che anche se c’è l’amore questo non può tenere insieme tutto. L’amore, a volte, non basta. 

Riesco sempre a essere ottusamente cinica, nevvero

Ammirate le mie doti naturali. 

E vai con la musica, maestro:

(prima volta che vedo ‘sto video: che orrore!!!)

E io guardo Sharknado

Stamani ho deciso di scrivere Senza censura (non so se vi ricordate: esisteva un programma su Rai 3 una volta, con questo nome).  

Fanculo, quindi, al mio Acerrimo Nemico. 

La settimana è stata pesante come il cinghiale della pubblicità del Brioschi, quindi me lo voglio concedere.

Inizio da lunedì, un giorno di festa in cui, dopo mesi, ho rivisto l’Amico Atipico. L’unico giorno in cui mi è sembrato di vivere. Rivedere lui, parlare del più e del meno, del lavoro (io), della ragazza psicopatica (lui), bersi un cappuccino, pranzare con Little dove (per dirla nel mood locale) ci sono le fie con le rote (l’American diners, dove le ragazze servono sui pattini a rotelle) è stato corroborante. Ma è durato come un gatto in tangenziale. La realtà, quella vera, è arrivata alle 15.00, quando è arrivato il tecnico per revisionare la caldaia: 120 euro. 

Martedì. Martedì è sempre un po’ follia, ricomincia il lavoro, io non sono mai in pari, basta il battito d’ali di una farfalla e perdo il passo, martedì ho perso il passo. Mercoledì ero ancora un passo indietro e, Covidnonostante, il Ristorante a pranzo si è riempito come se non ci fosse un domani. 

E qui sta il punto: sento tutto come se non ci fosse un domani. E io sono una maniaca del controllo. Il domani, per me, è importante. Io vivo per il domani. E oggi non c’è più, il domani. Domani cambia in modo improvviso, quando meno te lo aspetti. Basta un dpcm. 

Nel giro di tre giorni il mondo è cambiato. 

La gente ha avuto paura, il lavoro è calato e io non so più cosa fare. 

Nel giro di tre giorni, poi, anche la scuola è cambiata.

I ragazzi devono stare a casa, quando non si sa, la domenica sera ci sono le corse a guardare sul sito chi il lunedì sta a casa e chi no. 

E io cosa faccio. La cassa integrazione, ancora? Devo fare un trasloco, mi servono soldi, mi serve il lavoro. 

Ma mi serve anche non ammalarmi, mi serve che non si ammali Little, mia madre, mio padre, le mie nipoti. 

Mi serve che non ci sia questa guerra, 

Mi serve che un medico non mi dica cosa si dicono tra medici, così, mentre si beve il caffè che gli ho appena fatto, che non mi dica che i contagi sono 10.000 oggi e 30.000 domani e 60.000 tra tre giorni. 

Non voglio sapere dell’apocalisse, la immagino già di mio. 

Sono confusa, impanicata, il distopico che andava tanto di moda in letteratura un anno o due fa non è più distopico, è reale, e io che cosa faccio.

Io gioco a scala quaranta. 

Guardo la tv. 

Guardo Sharknado. 

Che se non sapete cosa diavolo sia, sappiatelo, che Sharknado ti toglie i pensieri, sul serio.

Perché la mattina sono un girotondo di articoli del Corriere, indiscrezioni sull’Ansa, veline dal Quirinale. 

Ma la sera per non implodere devo guardare Sharknado. 

Anche la mia Little implode. 

Non mi sopporta più, si tinge la faccia per non so quale motivo, sta in videochiamata con gli amici, pensa alle proteste perché tengono la mascherina in aula 5 ore invece di 4. Le sue piccole lotte. 

Ma la scuola li abbandona, li sacrifica. Ci prova a tenere duro, ma non può farcela, ci sono le Regioni che dichiarano: scuole chiuse e ristoranti aperti, e io sono in mezzo: tra i due fuochi. Due miei colleghi saranno messi a casa lunedì senza cassa integrazione, senza possibilità di essere licenziati (quindi disoccupazione). 

La mia piccola realtà. 

Io posso solo disdire l’ultimo appuntamento dal dentista, che spendere soldi ora per i denti non è il caso, facciamo i Cip e Ciop, mettiamo via qualche ghianda, che la storia qui su fa brutta e se dobbiamo rientrare in letargo ci serve cibo.

Martedì per ora io lavoro. Sono una delle fortunate. Ma non riesco a gioirne.

TDL (il minchione per eccellenza) mi chiama nazista perché lo rimbrotto se va in giro per il Ristorante senza mascherina. Dice che sono nervosa, negativa. Lui continua a chiamarmi bellissima e io lo detesto per la sua infinita superficialità. Per il suo egocentrismo esasperato. 

Su questa storia hanno tuti un’opinione. E si comportano di conseguenza. Ignorando il resto. 

Mia nonna diceva sempre che le persone sono capaci di guardare solo al proprio pezzetto di terra.

Io compresa, forse. 

Ho scritto questo pezzo come mi sento: in completa confusione. Perdonate quindi se ho saltato qualche passaggio logico. La logica, a oggi, mi sembra perduta.

Genitori incazzati

Con l’inizio del nuovo anno scolastico le cose stanno radicalmente cambiando a casa Moon. 

Prima di tutto Little Boss non va più alle medie al paesello, ma al liceo alla cittadina, che dista un bel po’ ed è quindi costretta a prendere, come dicevo, il pullman e farsi un’ora di viaggio all’andata e un’ora al ritorno. Nulla di nuovo da queste parti se non fosse per il Covid-caos.  

E quindi, mentre a scuola le cose sembrano essere regolari (nel limite del possibile) con distanziamenti, mascherine fornite ogni 2 ore ai ragazzi e alcuni divieti logici (tipo non usare la palestra perché viene utilizzata promiscuamente anche da associazioni sportive esterne), sul pullman le cose cambiano. E molto.

L’Azienda Trasporti (che cercherò di evitare di insultare) non sta facendo proprio il suo dovere. Avrebbe dovuto incrementare le corse a causa della riduzione dei posti all’80%, ma non lo ha fatto. Mi riferisce Little Boss che sul suo, di pullman, spesso i ragazzi stanno addirittura in piedi, stretti come sardine. Gli autisti che fanno salire i ragazzi nonostante i posti siano esauriti rischiano. E tanto. 

Ma mai quanto l’autista che due giorni fa, causa pullman pieno all’80% come da regola, ha lasciato a piedi mia figlia. L’ha lasciata lì, nella cittadina, all’uscita di scuola. Il pullman successivo è alle 17.30. Little Boss non ha ancora 14 anni. e lui l’ha lasciata lì. 

Mia figlia è, grazie al cielo, abbastanza sveglia e subito si è diretta in un’altra corsia e ha preso un altro pullman che, sebbene non l’abbia riportata a casa, l’ha perlomeno avvicinata a casa. Tutto risolto, quindi? 

Col cavolo! Sono incazzata come una mina. 

Non è una questione di IoPago, ma di logica: tu, Azienda Trasporti, non puoi lasciare a 25 chilometri di distanza da casa una ragazzina di 13 anni. 

Allora ho fatto ciò che andava fatto: ho scritto una bella letterina all’Azienda e poi ho chiamato il numero della Regione che si occupa dei trasporti, segnalando l’accaduto. E mentre la Regione (la ragazza al centralino è stata gentilissima) mi ha risposto, perlomeno, come di dovere, dicendo che no, la situazione non va bene e che avrebbe fatto un esposto anche alla Provincia e all’Azienda stessa, l’Azienda Trasporti mi ha risposto così: 

Diamo debito riscontro alla sua segnalazione per informare che, dai dati aziendali in possesso, dall’inizio dell’anno scolastico, non risultano situazioni di affollamento che abbiano potuto impedire l’accesso al servizio. Preme inoltre informare che, al fine di compensare la ridotta capacità di trasporto come da DPCM del 7 settembre u.s. che consentono l’accesso sul bus fino all’80% dei posti previsti dalla carta di circolazione, sono state previste corse aggiuntive in orario di entrata/uscita delle scuole.

Disponibili per ulteriori ed eventuali chiarimenti l’occasione è gradita per inviare cordiali saluti.

Cara Azienda, vuoi la guerra? La vuoi? Perché io sono pronta a fartela. 

Prima di tutto vorrei far notare l’illogicità della risposta: dall’inizio dell’anno scolastico non risultano situazioni di affollamento che abbiano potuto impedire l’accesso al servizio. 

Ma non è ciò che ti ho segnalato io? Se non avevi dati prima te li sto fornendo io, no? 

E poi la chiusura della discussione, un po’ del tipo: ma dai, stai solo esagerando, noi abbiamo fatto tutto ciò che dovevamo, ti stai inventando il problema. 

Parliamo di comunicazione, ora. Non avrebbero fatto figura migliore se avessero risposto che avrebbero monitorato e controllato la cosa? Poi, come di consueto, non avrebbero fatto nulla, ma intanto accettavano la mia segnalazione. E io mi sarei zittita fino a nuovo problema.

Ma con questa risposta mi stai aizzando. 

Così ho detto a Little Boss di fare dei filmati sul pullman quando è strapieno. Poi oscureremo i volti e li manderemo all’Azienda, tanto per iniziare. 

E se il mio fosse un problema isolato lo capirei pure. Ma sul giornale locale stanno uscendo decine di articoli del genere, lettere di famiglie, denunce per aver lasciato a piedi dei ragazzi sotto la pioggia. 

Mi sa che l’Azienda Trasporti non ha capito con chi ha a che fare: genitori incazzati.

Se Little continuerà ad andare a scuola (stanno mettendo in quarantena molte classi anche del suo stesso istituto) vi farò sapere come va a finire…

Primo giorno di scuola

Ore 6.30 del mattino. 

Little Boss è partita per il suo primo giorno di Liceo.

Credo di essere più nervosa di lei. 

Ho lasciato che scendesse da sola alla fermata (che comunque è sotto casa) e prendesse l’autobus fino a scuola, non l’ho accompagnata io, sebbene potessi. Volevamo entrambe abituarci fin dal primo giorno. È da ieri che fa i preparativi: zaino, outfit (che ai tempi di mia madre si chiamava abbigliamento, ai miei look). Alle prime due ore ha una materia che si chiama Pitt. e nessuno ha ancora capito cosa diavolo è, nemmeno la scuola stessa. Stamani si è svegliata alle 5.30, nemmeno un mugugno, nonostante per settimane si sia alzata alle 13, si è fatta fare il caffè, si è vestita, insomma se l’è cavata bene, anche se stava per uscire con il cartellino attaccato alla felpa, si è comportata da mini adulta quale è, diomio quanto sta crescendo veloce. 

Volevo farle una foto ricordo, il primo giorno delle superiori, come quella che ha per il primo giorno di elementari e che sto guardando proprio ora perché ce l’ho sopra la mia testa mentre scrivo: le avevo fatto due codine, ha il suo zaino rosa che le pende enorme sulla schiena, e un mezzo sorriso abbozzato. Così diversa da stamani, con i capelli lisciati dalla piastra e la mascherina chirurgica a nasconderle l’ansia. 

E il mio essere ansiosa per prima mi fa turbinare la mente di domande: si farà nuove amicizie? Come saranno? Si sentirà persa? Troverà la strada del liceo dopo che sarà scesa? E la porta giusta?(hanno entrate diversificate a seconda delle classi)Saranno difficili le materie? Si sentirà persa? 

E poi ancora: quanto durerà questa scuola? Riuscirà a evitare la didattica a distanza? La metteranno in quarantena? 

Lo so, vivere nella mia testa non è facile. Sto pensando di iniziare una dieta anti ansia, mangiando fiori di camomilla e foglie di melissa tutto il giorno come una capra. 

Ma nonostante l’ansia mi sento orgogliosa di quello che ha fatto finora e di quello che si accinge a fare. E, sebbene abbia preso da suo padre più di quanto vorrei, è una ragazzina in gamba, un po’ rigida nelle sue convinzioni, ma ha 14 anni, è un’adolescente.

Mi ha appena scritto dall’autobus che si è spaventata perché alcuni ragazzi sono scesi per prendere la coincidenza per un’altra città e lei credeva di dover scendere con loro… ecco che già si è sentita un po’ persa

Riusciremo a sopravvivere a questo giorno. E a quelli che verranno. Intanto chissà se la mia ansia mi lascerà andare a fare la spesa, stamani.