Un settimana alternativa

Lo so che siete lì che pensate: guarda Moon, con i suoi programmi per le ferie, se ne è andata via tre giorni e non scrive più nulla perché si diverte tantissimo e non ha tempo. 

Ma, ahimè, no.

Questa è stata una settimana alternativa, come ci sono a scuola, ma molto meno divertente. 

Lunedì. Arrivo da mio padre alle 8.15 per portargli la colazione e prepararlo per la visita dell’invalidità. Lo trovo a terra. Caduto non si sa come. Lo tiro su, ma non è molto presente. Dice che non si è fatto male, in effetti sembra così, quindi decido di portarlo alla visita e vedere come va in giornata. 

In giornata sembra riprendersi. In serata mi dice che è stanco, ma cammina da solo. La mattina dopo mi dice che gli formicolano le gambe e decido di portarlo al pronto soccorso. 

La giornata al pronto soccorso è stato un vero incubo, il pronto soccorso è un perfetto girone dantesco dal quale, da qui in avanti, cercherò di tenermi lontana il più possibile. Dalle 7.45, ora in cui ho chiamato l’ambulanza, siamo tornati a casa alle dieci di sera. Senza alcun risultato. Anzi, gli hanno pure rotto gli occhiali durante il periodo in cui non mi hanno permesso di stare con lui. 

Mercoledì. Il giorno in cui avrei dovuto partire. La badante che viene la mattina, badante 2,  mi lascia a piedi perché la macchina l’ha lasciata a piedi. Devo per forza andare nella città dove mio padre viveva prima perché devo recuperare dei fogli importanti. Inoltre Little si è svegliata tardi e gli è venuta una crisi isterica. Io ho dormito solo 5 ore, prendo un caffè con gli occhi chiusi, carico Little in macchina, porto la colazione a mio padre e lo lascio lì. Lui mi assicura che sta bene. Ma dopotutto io non ho scelta. Porto Little a scuola, mi faccio 3 ore di macchina andata e ritorno, prendo i fogli che mi servono, vado al supermercato per fare la spesa per mio padre e quando sono alle casse mi chiama l’altra badante, badante 1, quella che arriva alle 11.30. è cascato di nuovo e lei non riesce ad alzarlo. Corro a casa sua, lo alziamo in due. dico alla badante 1 che mi devo prendere almeno due ore di riposo, vado a casa e faccio l’inevitabile: inizio a cercare una badante fissa. Mi dico che in un mesetto dovrei farcela. Ma ho sottovalutato la rete sotterranea delle badanti. Nel giro di un pomeriggio la super rete mi ha trovato una donna georgiana di 50 anni. mi chiamano in cinque per le referenze, parlo mezz’ora con la signora che l’aveva in casa finora, mi tranquillizza e mi dice di chiamarla per qualsiasi cosa. La sera torno da mio padre, gli do cena, lo metto a letto.

Giovedì. Badante 2 è sempre a piedi. Resto da mio padre fino a mezzogiorno, che arriva badante 1. Vado a finire di fargli la spesa (che il giorno prima, dalla fretta, ho dimenticato della roba), e poi mi chiama la rete delle badanti per dirmi che la signora georgiana, Nata, badante 3, arriva il giorno dopo. Quindi mi viene in mente che il letto c’è, ma non ho le lenzuola e la coperta, corro a prendere anche quelle. Vado a prendere Little, che ha preso un’insufficienza a italiano e quindi piange (anche se chi è causa del suo mal…ma non posso dirglielo, è troppo suscettibile in questo periodo), ha fatto casino sull’orario della lezione di canto e ora è a piedi. La porto a casa, preparo cena e torno da mio padre.

Venerdì. Badante 2 stamani viene. Me lo ha scritto ieri sera a mezzanotte, quindi l’ho visto solo stamani alle 5.30. mi alzo e mi preparo già, non si sa mai visti i giorni passati. Poi mi metto qui a scrivere, giusto per dirmi che sono ancora una persona. Normale no, ma persona almeno…

Ho finito il tempo. emergenze non ci sono, per ora. Badante 2 è lì, anche se lui oggi non cammina. Ora devo andare a cercare un cuscino per il letto, prendere i soldi per pagare badante 2, che è il suo ultimo giorno, e poi resto lì con lui fino a mezzogiorno. Nel pomeriggio vado a prendere Badante 3 alla stazione. La porto a casa. E se Dio mi aiuta, inizierò a vedere la luce in fondo al tunnel…

Intanto le mie ferie sono finite…

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Il potere della musica

Qualche tempo fa è stato il compleanno di Little Boss. Ho voluto regalarle un musical. 

Intendiamoci: io non sono un’appassionata di musical. Sì, ok, Greese in tv, al limite Sette spose per sette fratelli quando ero piccola, ma il musical non mi ha mai tirato. Lei, invece, è impazzita per il film Mamma mia! Ogni tanto se lo riguarda e canta insieme a Meryl Streep in camera sua. Così cerco e lo trovo a Firenze. Ottimo! 

È una domenica pomeriggio di novembre, non un giorno perfetto per me e il mio lavoro al Ristorante, ma per Little scalerei una montagna con le infradito. Chiedo all’Amico Speciale se vuole venire con noi. Lui mi guarda come se fossi impazzita mentre sgranocchia pistacchi sul divano. Poi si ricompone e dice: no, godetevela da sole questa giornatachissà quante occasioni avrete ancora per stare insieme, lei sta crescendo eccetera. Un gran paraculo, vero? ma ha ragione, la mia Little sta crescendo e mai come questo anno sento l’adolescenza che bussa alla sua porta: sta sempre fuori con gli amici (nuovi amici, ragazzi un po’ diversi da quella che era stata lei finora), studia poco, ha iniziato a fumare. La sua ultima richiesta è il patentino per il 125. La sento sempre più lontana e, come tutte le mamme paranoiche, sono preoccupata. Quindi sì, ok Amico Speciale, sebbene tu ti sia salvato dall’ennesimo evento tedioso che piace a me, stavolta te la passo perché ho voglia di una giornata da sola con lei. 

Chiedo il permesso di un’ora a lavoro per poter partire in tempo. Spettacolo alle 16.45. Dal mio Paesello a Firenze c’è un’ora e mezzo di macchina, ma il teatro è in centro e allora optiamo per il treno. Non guiderò in quel casino, sono abituata alle stradine di campagna deserte e sto invecchiando. La scelta del treno si rivela sublime: entrambe lo amiamo e entrambe adoriamo camminare in centro a Firenze. Arriviamo a teatro in tempo perfetto, abbiamo due posti invidiabili nel primo settore (mi sono costati un rene, ma cavolo se ho fatto bene!) e le luci si spengono.

Primo messaggio: niente riprese con i telefonini. Giusto. Questo spettacolo ve lo dovete godere dall’inizio alla fine, dovete farvi travolgere dall’energia. Di nuovo giusto.

Ed è così: appena Sophie inizia a cantare mi scendono le lacrime per l’emozione. È tutto stupendo, energico sul serio. Incredibili gli attori: Sabrina Marciano di sicuro la più brava, ma anche Ward, Muniz e Norcross (tra tutti quello che mi ha convinto meno), insomma risate e divertimento a valanghe. E durante la scena tra Sophie e Donna sento Little che mi stringe la mano. Mi volto e sta piangendo, commossa. Lacrima chiama lacrima… 

Il finale è incredibile: un grande karaoke a ritmo Abba, con tutte le cariatidi che avevano assistito in prima fila che ballavano e cantavano. Scroscio di applausi. Fine.

Restiamo basite sulle nostre poltroncine di velluto rosso. Poi il desiderio di andare in bagno ci fa muovere, per evitare la fila…

Riattraversiamo Firenze verso la stazione estasiate e canticchianti, scambiandoci commenti. Torniamo a casa tardi e sfinite, ma felici. In macchina, ovvio, ascoltiamo solo gli Abba. 

Beh, devo dire che lo facciamo ancora, di ascoltare gli Abba in macchina. E pensare che quando avevo l’età di Little e, come tappa del sabato pomeriggio, andavo al negozio di dischi per comprare un cd e guardavo tutti quei dischi alla lettera A, mi stupivo di quanti fossero e del fatto che no, non conoscevo le loro canzoni. Ma insomma, chi erano questi Abba? Per me è stato un po’ come per i Credence water revival: mai sentiti nominare fino a poco tempo fa, eppure chi non conosce Fortunate son o Have you ever seen the rain? 

E vi lascio con la canzone che non mi vuole uscire più dalla testa: l’Amico Speciale la chiama Ciupa Ciupa.

Super Truoper.

Un, due, tre…Umbria!

Dopo diversi anni di conoscenza e due mesi più o meno di convivenza, alla fine io l’Amico Speciale ce l’abbiamo fatta: tre giorni di vacanza insieme! 

Quindi questo mini tour deve essere festeggiato e immortalato (per me). In occasione di questo il blog si trasformerà (temporaneamente) in un blog di viaggio o Travel Blog che dir si voglia (che poi è lo stesso). 

Quindi, GIORNO 1!

Sebbene l’A.S. volesse partire alle 4 della mattina, non so bene per quale motivo, forse per arrivare alle sette a destinazione e portare la colazione a tutti, prendiamo il largo verso le otto e mezza (un orario più consono, direi). Durante il viaggio faccio mentalmente i miei esercizi di scrittura (non è un paradosso, io scrivo mentalmente un sacco di volte, anzi, le volte migliori, direi), mentre l’A.S. mi guarda di sfuggita mentre segue la strada. 

Che c’è?, gli faccio. 

A che pensi?, chiede.

A nulla di importante. Mi annoto tutte le cose viola che incontriamo durante il viaggio. 

Non siamo lontani da Volterra e forse pensa di scaricarmi lì, tra le macerie del manicomio. Ma invece proseguiamo. La direzione è Nocera Umbra, suolo natio della mia, beh, suocera o futura tale (che se non ci sbrighiamo a sposarci mica lo so se ci arriva viva a vedere questo matrimonio). Che poi non è proprio Nocera. È una frazione di una frazione, un posto talmente piccolo che il paesello dove abito a confronto è praticamente New York. Abitanti che si contano sulle dita di una mano, sul serio. Posto incantevole, la casa natia della suocera o futura tale praticamente nuova (ricostruita dopo il terremoto), luogo perfetto sarebbe per scrivere, penso mentre tolgo le ragnatele per entrare in ogni stanza. Poi volgo lo sguardo alla vallata. Ci lascio il cuore e proseguiamo, dopo aver tolto il velo dei ricordi estivi dell’A.S. e il velo dei miei sogni a occhi aperti. 

Siccome ormai è l’ora di pranzo ci fermiamo a Nocera Umbra, almeno visitiamo il borgo.

Intendiamoci. Nocera è carina, ben tenuta. 

Solo un paio di esempi

Ma non c’è nulla! Nemmeno le persone! E infatti siamo gli unici avventori del ristorante in centro. Mandando a quel paese la dieta vegana, mi faccio fuori un tagliere di affettati locali e formaggi. Giusto per. 

Dopo pranzo decidiamo di fermarci a Montefalco. L’A.S. dice che ci portava spesso gli americani in gita, ma non l’ha mai vista. Avvicinandoci capisco cosa possa aver interessato gli americani. C’è una vigna ogni secondo, forse quarto di secondo. Ci sono talmente tante vigne e cantine che la mia zona, famosa per la via del vino, sembra una dilettante. Il Montefalco in effetti è un ottimo vino, non c’è che dire. E in centro confermo l’attrattiva del luogo, come si vede dalla foto. 

Notate la scritta Salva una pianta, mangia un vegano… mi sono allontanata in fretta

Il pomeriggio è ancora giovane però. Prossima tappa: Spello, la città fiorita. 

E in effetti Spello è deliziosa, nonostante il vento gelido che mi fa colare il naso dentro la mascherina (ringrazio di essere stata previdente e di averne portate molte). Quello che più mi colpisce sono i vicoli, ovvio. La pro loco di Spello organizza ogni anno una gara tra finestre, balconi e vicoli fioriti. Vince il più bello. No, dico. Immaginatevi ora abitanti di Spello (Spellesi? Spellati?), con una casa che ha un balcone o una scala che si affaccia sul vicolo. Quando è primavera iniziano le danze: spionaggio negli altri vicoli, qualcuno che durante la notte annaffia le piante con il glifosate, altri che comprano tutto il terriccio della zona e lo nasconde in garage… un duello all’ultimo petalo. Ma alla fine la ricompensa è una targhetta di coccio. E un sacco di belle foto che i turisti per caso come me mostreranno al mondo intero. 

Questo è un abitante di Spello che partecipava al concorso ed è stato ucciso dagli altri concorrenti…

A Spello però, oltre ai fiori e alla dermocosmesi ottima che se ne ricava, c’è anche un mistero. Per le vie del centro ci sono quasi esclusivamente queste cassette postali.

Sono tutte uguali, dico all’A.S. Non è strano?

Magari gliele ho fornite il comune, risponde lui distratto.

Sì, ma ormai il dado è tratto e per tutto il percorso fino alla macchina non posso pensare ad altro. Perché le cassette sono tutte uguali? E se è vero che il comune le ha fornite perché alcune sono differenti? Ci sarà una lobby di cassette delle posta a Spello? 

Mentre ancora rimugino arriviamo all’albergo. A pochi chilometri da Assisi non poteva che chiamarsi Il cammino di Francesco. Non specifica però il Santo, quindi a mio avviso è un posto che non vuole una precisa identità. E in effetti le camere sono anonime e alla reception spesso non si vede nessuno. E poi, il peggio del peggio: asciugamani di stoffa. Mi torna un brivido solo a pensarci. Ma tant’è, abbiamo speso meno che per una cena al ristorante, quindi…

E per la cena tutti a Bastia Umbra! Tutti no, solo io e l’A.S. Bastia by night è carina, mi ricorda un po’ Pistoia. Nulla di che, ma piacevole.

Il ristorante che ho scelto non ci delude. Anzi.  Maghiamo in compagnia di un vino di togniazziana memoria.

A pancia piena e dopo aver percorso più di undicimila passi in un pomeriggio (e salito venti piani), crolliamo svenuti sul letto. Prima di dormire faccio giusto in tempo a pensare che le ferie sono cose per giovani. O per gente più allenata, comunque.

P.s. Il mistero delle cassette postali non è stato svelato. Anzi, ora è più oscuro che mai. perché tornata a casa ho guardato la mia, di cassetta postale. ed ecco cosa ho visto!

la lobby ha preso mezza Italia…

TO BE CONTINUED…

Il Richiamo del Rossetto Vegano

Da quando ho iniziato la dieta simil-vegana (in pratica vegana, ma senza alcune verdure e i cereali raffinati) mi accadono le cose più strane. 

Tipo un paio di settimane fa era il mio compleanno. Di nuovo. Sembra che questo blog ruoti intorno agli anni che passano, il che potrebbe essere anche vero. Arrivati i magici 43, magici per chi? Ah, boh. 

Comunque il punto è che per il mio compleanno non ho praticamente festeggiato, come fanno tutti i vecchi, dopotutto. Ho ricevuto tantissimi auguri, soprattutto grazie a Facebook che ricorda il giorno anche al mio amico di infanzia che non vedo più dall’infanzia, appunto, ma poi la giornata è trascorsa lavorando (come un mulo) e pensando ai Mille modi per risolvere una situazione complicata alla quale non vorrei pensare ma sono costretta

Però mi sono fatta un sacco di regali. Io. Da me sola, intendo. 

Uno di questi è l’Alexa già nominata qui. 

E poi vado al Bottegone delle Grandi Scarpe near here e, per caso, (leggi: fortuna) mentre girottolo per trovare un banale paio di scarpe da ginnastica per Little, mi imbatto in Loro, Un paio di Scarpe che mi piacciono. Una cosa difficile, ultimamente. Le guardo, passo oltre, ci ripenso, torno indietro, le provo. Mentre decido che sono mie appare la commessa che commenta con ingiustificato disprezzo che Sono proprio il tuo genere. Fuck you, commessa del Bottegone delle Grandi Scarpe. Ma ha ragione, sono il mio genere, scarponcini tipo Timberland con il velluto all’interno. Torno a casa e le tiro fuori entrambe dalla scatola. Vado per staccare il cartellino e leggo: Vegan shoes. Ok. il veganesimo fa pressing nella mia vita, penso. E vado oltre.

Sabato convinco l’Amico Speciale ad accompagnarmi alla Cittadina per rifornirmi da Kiko (che alcuni converranno essere la nuova Deborah, ovvero la nuova linea/catena per truccare le poracce come me). Mi trucco il minimo sindacale, ma quel minimo… Mentre l’Amico Speciale si diletta, fuori dal negozio, a comprare croccante e brigidini da un banchetto in allestimento, io tento di capire cosa diavolo sia un CC blur. La commessa si avvicina commossa (l’allitterazione era voluta) e mi spiega che c’è, in promozione, anche la linea di rossetti vegani. Sento l’A.S. ridere da fuori. Ma che diavolo è un rossetto vegano? Vero che mia nonna mi diceva che il burro di cacao, lungi dall’essere una cosa buona da mangiare nonostante il cacao inserito nel suo appellativo, era fatto con lo sperma di toro. Ma in fondo io non le ho mai creduto… mia nonna credeva nella combustione spontanea e negli UFO. Beh, ora sarebbe stata una terrapiattistaperfetta  (o una terrapiazzista, come dice l’A.S.).

Esco senza il rossetto vegano e decido di sfruttare, il giorno dopo, il mio regalo fatto dai colleghi: una cena al Ristorante.

Ok. A voi sembrerà brutto regalare una cena nel proprio posto di lavoro e in generale concorderei. Ma voi sapete quanto mi costa portare i piatti a tavola sapendo che non potrò mangiarli? Pici cacio e pepe, tagliatelle al cinghiale, patatine fritte, solo per citarne alcuni. Quindi una pausa dalla dieta per una sera di certo non mi ucciderà. 

Come è ovvio ordino una tagliata ai porcini. Al sanguissimo, come piace a me. (vedi foto)

Ciò che mi sciocca è che… credevo di gustarmela di più. 

E invece no. 

Esco con la pancia piena ma le papille poco soddisfatte. 

Il veganesimo sta iniziando ad appropriarsi della mia vita? Sono le scarpe che indosso? il richiamo del rossetto vegano? 

Non ci è dato saperlo. 

Potrei chiedere sempre aiuto ai Meganoidi?

Vado a riposare le palpebre stanche con questo pensiero, sperando che in sogno non arrivi l’Omino di pan di Tofu: a Natale non venderebbe come il suo fratello inglese

Dune, una Non-recensione

Un comune martedì pomeriggio. 

Io e l’Amico Speciale siamo a casa mia a parlare del più e del meno. Poi lui fa: ma i cinema hanno riaperto?

Bah, rispondo. Al 50%? Alll’80%? Con Green Pass distanziati ma non troppo, forse nemmeno i pop corn venderanno, mica puoi toglierti la mascherina e mangiare no?

Pieni di dubbi ma fiduciosi googliamo (che è il nostro passatempo preferito sia da soli che insieme) il cinema della Cittadina. 

Boom!, esordisco, Aperto!

Quindi nasce la discussione: cosa andiamo a vedere? 

Venom, fa lui. 

Tre piani, faccio io.

Come un gatto in tangenziale, ribatte. 

Ma lo abbiamo già visto!, piagnucolo.

Sì, ma questo è il sequel! 

Amore, gli dico, ricordi la storiella delle due gemelline e dell’arancia e del compromesso?

No, dice.

Così gliela rispiego (lo farò anche per voi, se volete)

Alla fine ci capiamo: Dune.

Il film di D.Lynch l’ho visto mille volte da bambina, ma mai tutto intero. Un po’ come I dieci comandamenti, per intenderci. Mio padre, che amava la fantascienza, se l’era registrato dalla tv con un vecchio Sharp che risaliva alla mia comunione e la cassetta girava quasi quanto Camera con vista o Kramer contro Kramer.

In ogni caso, visto che pure Lynch aveva trovato noioso il suo film, mi sono lasciata convincere: forse la nuova versione non sarà così soporifera. A convincermi, nevvero, anche qualche commento girato al Ristorante. 

Così compro i biglietti il giorno stesso, scelgo i posti, il giorno, l’ora, prenoto pure il ristorante per dopo. E aspetto trepidante. Dopotutto sono anni che non andiamo al cinema. 

La domenica (giorno prenotato) stampo i biglietti (dici che serve? Boh, qui dice che li devo stampare, forse trattengono un pezzo del biglietto. Ma dai, c’è il codice a barre, non serve. Lo faccio per sicurezza! Hai preso i biglietti cinque giorni prima!!! Vuoi essere più sicura di così?) e inizio a mettere il pungolo all’Amico Speciale un’ora prima dell’inizio: Andiamo? Si va? Sei pronto? Tutto il repertorio da scassapalle provetta. 

In ogni caso ho ragione io: arriviamo con 15 minuti di anticipo e c’è una fila che scende tutta la scala. Nessuna corsia speciale per chi, i biglietti, ce li ha già. Geniale, penso. Tutti ammucchiati qui per nulla. 

Arrivati in cima vogliono vedere il Green Pass. 

Ho lasciato il telefono in macchina!, mi fa l’Amico Speciale. 

Sorrido. 

Amore, io scasserò pure le palle con le mie storie di organizzarsi, prenotare, fare promemoria. Ma poi sono una risorsa in occasioni come questa

Tiro fuori il mio telefono con entrambi i Green Pass, il mio e il suo (ho anche quello di Little, super previdenza). 

Entriamo e mi guardo intorno. 

Ma i biglietti chi ce li controlla? 

Nessuno, a quanto pare. Si vede che con il Green Pass c’è compreso il Free Pass… 

Ed eccoci in sala, le luci si spengono e inizia la pubblicità.

Amore… faccio gli occhi dolci. Avrei sete

L’Amico Speciale è Speciale non per dire. Nonostante mi guardi come per dire: e che è un problema mio??? Poi si alza e si avvia a cercarmi dell’acqua. E smetti di farmi la Tenerorsa! Dice mentre se ne va. 

Inizia il film. Io tracanno acqua e l’A.S. mangia pop corn (sì, al cinema si mangia, si beve e nessuno tiene la mascherina).

Lo scenario è epico. Partono le parole misteriose: Arrakis, Harkonnen, Atreides, Fremen. Dopo venti minuti sono ancora confusa su chi sia chi.

Iniziano pure le visioni del giovane figlio del Duca, Paul (oh, un nome normale!) su una giovane Fremen intravista all’inizio. Le cose si fanno quindi ancora più confuse. Già c’è la sabbia, un caldo inenarrabile, poi c’è pure la DRROGA del pianeta Arrakis (la Spezia) a complicarci la vita! Alla fine del primo tempo già capiamo che con sole due ore e passa la trama non si risolverà. Continua il viaggio del giovane nella terra delle Dune, tra intrighi di castello (imperiali, direi) e altre millemila visioni. Poi per carità, c’è pure la madre di Paul che ci mette del suo: è una strega Bene Gesserit (sì, se ve lo state chiedendo ho googlato tutti i nomi. Durante tutto il film credevo si dicesse Benegessy o roba simile) che cerca di fare del povero Paul uno stregone eletto in grado di salvare tutto il mondo…

Il film finisce che non finisce e io e l’A.S. usciamo con la convinzione che l’unica cosa da salvare, salvare davvero è la tuta Fremen che raccoglie e distilla sudore e lacrime per trasformarli in acqua da bere. Un po’ schifoso, va detto, ma utile se ci sono quelle temperature.

Durante la cena cerchiamo di raccapezzarci nella trama, tra un roll al salmone e un nigiri al tonno con filetti di mandorle (siamo nell’ennesimo ristornate sushi appena inaugurato nella Cittadina. Abbiamo previsto che tra un anno non ci saranno più ristoranti dove mangiare una tagliatella al ragù e una tagliata di manzo). Comunque nulla. non ricordiamo i nomi, ci sfuggono gli eventi… 

Tornati a casa non abbiamo sonno. Cerchiamo il film di Lynch sulle varie piattaforme, lo troviamo e iniziamo a guardarlo. Giusto per fare un confronto. 

Certo, legnoso come non mai, gli effetti speciali sono da voltastomaco (siamo negli anni ’80, eccheccavolo!). Ma nei primi dieci minuti ci viene offerto uno spiegotto che ci illumina il volto: ah, allora era quello! Ora ho capito, ecco perché Tizio ha fatto così o cosà! Lynch, dall’alto della sua letargia, ci ha dato la soluzione. 

E quindi Dune… epico, eh. Ben fatto. Ma a mio avviso palloso era negli anni ’80 e palloso resta. 

Ma qui sorgono altre due domande: 

1.uscirà il numero due?

2. Moon e l’A.S. lo andranno a vedere?

Alla domanda 1. Non ho risposta. Alla 2. Forse sì. Basta però fare un ripasso generale e studiare un po’ prima di affrontare di nuovo la sala…

Nota importante: questo articolo non sarebbe stato scritto se Rodi non avesse lanciato l’invito qui, in risposta a un commento su una sua recensione.

Rifatevela con lui 🙂

Storia di 3

Sulla mia scrivania ci sono delle chiavi, della mia vecchia casa, il posacenere, un calice di vino (i calici, per il momento, sono un lusso che per caso posso concedermi), un foglio con il numero di ordine dell’Ikea per la nuova cucina, le istruzioni per la nuova asciugatrice. Ogni oggetto in questa scrivania potrebbe raccontarvi una super storia. 

Eppure io voglio raccontarvene un’altra. 

C’era una volta Moon che voleva traslocare. La sua casa era in vendita, la casa che le aveva dato la libertà, la casa che l’aveva vista mille volte piangere, ridere, sognare, ma soprattutto rinascere non era più la sua casa, era solo un quadrato, vuoto, di pochi metri. Così Moon ne vide un’altra. Una più grande, giusta per lei e Little Boss, una casa che poteva (poteva, in potenza) essere giusta. 

Ma certo, mica era perfetta, così com’era. Moon e (soprattutto) l’Amico Speciale, dovevano lavorarci su: tinteggiatura, messa in posa del battiscopa, alcuni accorgimenti elettrici, una nuova tinta alle piastrelle… insomma, un gran bel C**** di lavoro di M*****-

Ma Moon ha sottovalutato l’A.S., lui è un C**** di treno, se inizia un lavoro e non gli stai dietro sono C****, ti incita come se fosse un C**** di capo dei Marines, e stai pure ore a dire che No, non ce la faccio, io non sono forte come te, Aspettami, arrivo, nulla: sei sempre un passo indietro. 

Insomma, siamo a buon punto, nonostante la mole di lavoro e il pochissimo tempo (A.S.=treno Frecciarossa in tratta Firenze-Roma), ma restano alcuni dettagli. Tipo liberarsi delle vecchie cose nella Nuova Casa (N.C.). Le vecchie cose nella N.C. sono infinite…

Se volete un elenco sommario finisco le parole di questo blog. Ma a voi basti sapere che questa storia racconta di tre (solo tre) cose di questa casa: tre sedie imbottite di stoffa che non si possono vedere. Tre sedie imbottite di quella stoffa fiorita che era già passata di moda negli anni Ottanta. Tipo quelle in foto. Per dire.

Ecco.

Chiamo gli Ingombranti del mio Paesello e spiego cosa devo buttare: otto milioni di cose. Mi dicono che devo dividere per materiale. Ok. 

Allora il legno tutto insieme? 

Sì. 

Perfetto, ho un comodino, una cantinetta per i vini, un tavolino, due mensole. E tre sedie. Imbottite di stoffa, però. 

Dall’altro capo del filo mi danno l’Ok. il giorno prima del ritiro metto fuori tutto, come mi è stato detto. 

Ma le sedie imbottite non me le ritirano. 

Le rimetto in casa, bestemmiando come un muratore dopo un pranzo di lavoro. 

Restano lì per giorni, io l’Amico Speciale ci scervelliamo per smaltirle altrove, tipo nel cassonetto (l’idea del mio Boss, con tanto di selfie da mandare al Sindaco del mio comune) o nel fiume direttamente (idea dell’A.S.). 

Poi arriva la mia, di ide: le regalo. Ci provo. Eccheddiamine! Al limite si passa all’opzione fiume.

Al mattino, tipo le 6.30, metto una foto (quella sopra) elle tre (dico TRE) sedie su un gruppo Regalo Regione. Alle 8.00 ho già tre messaggi. Di gente che le vuole! 

Insomma, alle 10.00 già mi sono accordata con una certa tizia (che chiamo Samantha perché ci sta) che le deve avere ASSOLUTAMENTE. Tre sedie. 

Certo, le dico, se vieni in giornata sono tue.

Viene mio marito stasera, mi risponde. 

Non ho fiducia, ma decido, per stanchezza, di crederle. 

La volete la notizia? Alle 18.00 mi chiama suo marito e mi dice che sta arrivando. 

Incredula, con la mia amica Ale (tornata dal paese dei folletti per una visita temporanea) gli facciamo caricare la macchina.

Allibite per il colpo di culo. Lui ci dice: mia moglie mi ha mandato qui da XXX per prenderle – XXX non è vicino- e non lo so cosa vuole farci. 

Io lo compiango e mi vorrei davvero pagarlo per la gentilezza, come mi aveva detto l’A.S. 

Se ne va con la macchina carica, mentre io esulto per il colpo di genio. 

Siccome era iniziata con C’era una volta… questa favola ha una morale: un punto a chi me la indovina

Non so come ho fatto a scrivere fin qui. Era proprio una gran voglia. Domani mi arriva la cucina da montare (IKEA) e poi ricomincio a lavorare.

Ma scrivere…

Dice Ale che scrivere mi fa bene. Io le credo. Le credo sempre. 

Buonanotte a tutta la blogsfera…

Bollettino di guerra numero…

Potevo decidere: fare l’eroina e buttarmi sul divano (questo riferimento è alla pubblicità tedesca di seguito: qui), oppure fingere di rendermi utile ribattendo al pc la lista degli allergeni del Ristorante (che da anni aggiorniamo a mano). 

Il mio spirito del dovere (leggi: noia) ha scelto la seconda. 

E mentre sono lì che batto e batto penso a quanto sono fortunata, io, in una regione che in una settimana ne ha viste di tutti i colori (dal giallo all’arancione al rosso: in sette giorni sette) ancora lavoro. Lavoro. Si fa per dire: due, tre, quattro ore quando sono fortunata. Passo il mio tempo a imprecare contro il polistirolo dell’asporto per il cappuccino (che si incastra), a chiedere all’anima solitaria di turno Come va da te? Tanti contagi? Ah, tuo fratello? E come sta? (Poi il mio cervello dilaga: quando sarà venuto, suo fratello, l’ultima volta al bar a prendere il cappuccino? L’ho toccato? Mi ci sono avvicinata? , ma questa è un’altra storia). Poi mi metto a pulire: spolvero polvere inesistente, strofino tazze non più toccate, spazzo un pavimento che ci potresti mangiare. Ogni tanto mi invento lavori nuovi: ma sarà il caso di rifare i baci di dama?, chiedo al mio capo. Lei mi guarda sconsolata mentre se ne sta lì davanti al tablet e mi indica la vetrina piena. Va beh, le dico, non li cuocio, li abbattiamo e li teniamo in congelatore pronti. Pronti per cosa? Per natale? Quale natale? Ma almeno per un’ora le mie mani lavorano (9 grammi per ogni guscio, li peso uno ad uno e formo la pallina di impasto da abbattere). Poi, inoltre, ho sporcato, quindi devo anche ripulire: altro tempo sottratto al divano. 

Quando esco e sono solo le dieci di mattina mi prende il panico: Little Boss è a casa a fare la Dad, se torno a casa devo restare pure zitta, che casa mia è un buco open space. Allora ecco che mi invento la lavanderia, la spesa, una passeggiata. Ma c’è ancora il pomeriggio, damn! Allora eco che due giorni fa ho scovato la lista degli allergeni del Ristorante, l’ho guardata e ho detto: ecco, un lavoro da fare nel pomeriggio! Perfetto! 

Poi ho visto pure i biglietti da visita, a cui manca il nuovo numero di cellulare: altro lavoro pomeridiano. 

Non so oziare. Cioè, intendiamoci, lo faccio eccome, ma mi deprime. Dopo l’incubo del primo lockdown ho il terrore di tornare a quella condizione di inattività perenne. 

Il guaio, per una come me, è che non sono capace di scrivere. E neanche leggere. Lo chiamo Disturbo Neurologico da Covid (DNC), una sindrome che mi impedisce di concentrarmi sulla finzione.  Leggevo poco fa a proposito della teoria dei Quanti grazie a un libretto di Rovelli che sottintesa, compresa nel pacchetto, c’è la teoria che la realtà esiste solo se c’è interazione tra molecole. Certo. Io, essendo un’ignorantona in materia, manco ho seguito la storia del bosone con la dovuta attenzione, posso trarne le conseguenze che voglio, da umanistica non scientifica: la realtà è quella con cui sei capace di interagire in un dato momento. E io ora interagisco solo con una dannata pandemia: anzi no: è lei che interagisce di continuo con me, non lasciandomi spazio per altro.

Ecco che ho mollato pure il corso di scrittura che provavo a seguire on line. Tanto non leggo, non scrivo, fatico a seguire…che lo faccio a fare? (senza contare il resto, ma questa è un’altra storia). 

E allora passo i pomeriggi a inventarmi lavori inutili, un portacandele con un vecchio Cd, l’ennesimo acchiappasogni, smonto il forno per capire perché non va la luce (l’Amico Speciale non viene a casa mia per via del Covid), cerco per ore la soluzione del malfunzionamento del wi-fi ringraziando il cielo di averlo, così una giornata è andata. 

Guardo, la mattina, i miei clienti fare colazione sul cofano della macchina: una nuova generazione di homeless. 

E tutto ciò mi fa tanta tristezza.

Forse è per questo che ho già fatto l’albero di Natale.

Quest’anno ci vuole più Natale, per tutti. Più a lungo. Più forte. Più luminoso. 

Ho ancora un’ora di eroismo prima di cena: forse mi guardo Piero Angela, giusto per tuffarmi nell’infanzia. Se mi raccolgo in posizione fetale Little Boss, con il suo sorriso, mi farà tornare in posizione eretta. 

Good luck a tutti

Open the door

Photo by lalesh aldarwish on Pexel.com

Non è stato facile venire a patti con il mio Mac stasera, sembra che non voglia assecondare la mia urgenza di scrivere, forse ha ragione lui, chi lo sa.

Ho lasciato Little nel bagno: durante l’adolescenza pare che le ore nel bagno siano direttamente proporzionali al disordine, venerdì mi sono azzardata a salire nella sua tana e l’unica cosa che non ho trovato è stato un animale morto. Ma in tutta onestà mi sono stupita di non averlo trovato. In compenso ho trovato un libro di Harry Potter che cercava da Maggio, Ci saranno degli Stargate?, ha chiesto lei timidamente. No, la casa nasconde ma non ruba, diceva mia nonna. Sei solo scarsa a cercare e riordinare.

In ogni caso, il cambio di guardia del mio umore è arrivato proprio quando sono salita in camera di Little questo venerdì. Fino ad allora il mio grado di rilassatezza era quasi pari a zero, con una dose massiccia di Difuorismo che mi scorreva nelle vene. Il panico da lockdown aveva talmente preso il sopravvento da farmi dimenticare anche le cose base, da rendermi quasi inutile a lavoro, da enunciare frasi tristemente apocalittiche sul gruppo whatsapp dei genitori, da mandare a puttane una cena con l’Amico Speciale (Sei di compagnia, stasera…, ha detto. Ragione da vendere). 

Vedere il caos primordiale che regnava in quel piccolo loculo mi ha dato la carica. Prendiamo la carica da cose strane, si sa. E mi sono detta: devo cambiare atteggiamento, o finirò per soccombere a me stessa. E alla tv di scarsa qualità. 

Per una volta nella mia vita, detto fatto. Sabato già mi ero impegnata nel sociale cercando una carrozzina per il neo padre di due gemellini, un ragazzo con pochissimi mezzi, carrozzina che ho trovato gratis grazie alla rete social di Facebook (semel in anno pure Facebook serve) e che ho preso e consegnato oggi stesso. 

Ma non era di questo che volevo parlare oggi, perché in realtà il mio Io ha bisogno di leggerezza per proseguire la sua cacciata del Panico da lockdown, e quindi nulla, ho bisogno di un parere. 

Questa cosa dell’annuncio su Facebook, non so come, ma mi ha messo in contatto con un sacco di gente. Qualcuno lo conosco e voleva davvero aiutare. Qualcuno invece ha preso la palla al balzo per contattarmi per cose altre (pubblicità) e un tizio addirittura per provarci (lui dice che mi conosce, io non me lo ricordo). Tra tutti questi c’è anche un altro tizio, un carabiniere di cui ho parlato a Ale. Gliene ho parlato perché è, a mio avviso, una figura fuori dal coro nell’ambito dell’arma: simpatico, intelligente. Che i carabinieri non me ne vogliano, ma se hanno inventato tante barzellette…l’ironia estrema si fa su una base di verità, o no? 

Lui no. È (damn!) un lettore. Sono mesi che ci scambiamo titoli, uno dei libri più belli che io abbia letto negli ultimi tempi me lo aveva consigliato lui. Come sia iniziata non lo so, forse mi sono resa scimmia quando l’ho visto leggere una domenica mattina al tavolo e gli ho chiesto cosa stava leggendo. Mi capita spesso di chiedere, visto che di gente che legge libri se ne vede poca. Poi parlando a qualcuno dei miei colleghi è sfuggito che andavo (e amavo) il teatro. Abbiamo parlato di Santeramo. Poi delle case editrici (di cui sono abbastanza esperta). Poi che scrivo (eh, qui ho forse un po’ gonfiato le cose…ormai scrivo davvero poco, e quel poco che scrivo sono cazzate, come il mio romanzo fast).

E insomma, va a finire che lui prima mi definisce la sua bibliotecaria di fiducia davanti a mia madre, poi mi lascia al Ristorante un libro in prestito da leggere (l’ho iniziato e, nonostante io sia diffidente con l’Iperborea, devo dire che l’Islandese che ha scritto il libro se la cava alla grande). E poi ecco il contatto su Facebook. 

Gli rendo il favore, gli dico che gli presterò dei libri anche io, preparo una selezione seguendo la nazionalità: un giapponese (Murakami, Tokio Blues, di cui ho un doppione), Donatella di Pietrantonio con L’arminuta (non la migliore italiana a mio avviso, ma se la cava alla grande) e poi la mia migliore americana, Aimee Bender con uno dei mie libri preferiti, Un segno invisibile e mio. 

E mentre sono lì che smessaggio mi chiedo (da qui il vostro parere): ma ci sto flirtando?

No, perché l’uomo è davvero bello (e simpatico e intelligente, come detto), ma.

Ma. 

Ma. 

Ma.

Io sono felice con l’Amico Speciale. Mi rende felice, sul serio, mi fa ridere, mi sdrammatizza e mi capisce, non mi fa pressioni per nulla, ma non mi lascia mai sola. Insomma, io lo voglio sposare, sul serio. Lo amo. È parte di me.

 E questo tizio, invece, il carabiniere, il Maresciallo per essere precisi, è davvero interessante, lo ammetto, ma non in quel senso. Lo sarebbe, certo, ma se non fossi felice. Ma non così, non ora. È bello avere qualcuno con cui condividere una passione. 

Non so se sono stata chiara. 

Sono anni che mi arrovello e mi arrotolo su me stessa per questa cosa. 

Trovare qualcuno che condivide la tua passione non è facile. Mai. Specie se si tratta di libri. Io e mia madre siamo entrambe lettrici forti, ma non ci piacciono le stesse cose. 

Il punto è che io non voglio flirtarci. E non lo sto facendo, a mio avviso. Ma allora dovrei fare la gelida? In tanti mi hanno riferito che faccio così. Pare che io non abbia mezze misure: o flirto o sono gelida. 

Inizio a pensare che non so come ci si relaziona con gli uomini…

Forse sono io che sbaglio tutto, che esprimo troppo entusiasmo per le cose, mi capita a volte di dovermi, in effetti, frenare. Per non farmi dare della maestrina, della sapientina, della professoressa. Ma poi va così: se una cosa mi interessa e la so in una conversazione passo da quella: quella piena di Ego che vuole mettersi in mostra. Alcuni miei amici mi darebbero ragione. E io, sapendolo, mi castro a tal punto da sparire. 

Qui vale lo stesso: la mia voglia di parlare di qualcosa può passare da un tentativo di flirt? 

A volte vivere sembra incredibilmente a un camminare sulle uova. 

In attesa del nuovo dpcm…

NOTA: non mi fa caricare la foto della MIA porta… ecco perché ne ho scelta una a caso.

Googol=10 alla 100

Vediamo…

Musica?

Ce l’ho.

Sigarette?

Ci sono.

Pc? 

Acceso.

In realtà ho cannato un appuntamento, stasera (con Wal, ma ti ribecco su Raiplay), perché, inaspettatamente, l’Amico Speciale nel pomeriggio non lavorava e mi sono dedicata alla visione di un film splendido, che non dovrebbe mai mancare nelle videoteche di nessuno nessuno, soprattutto in questo periodo: Freddy vs Jason. 

Un cult movie, un bel riassuntone delle cazzate che ci siamo visti noi Millenials (dice Little Boss che io sono una Millenials) da ragazzini. 

E siccome la serata era allo scazzo già da prima, abbiamo voluto finirla con una ricerca su Google.

Ora.

Le ricerche su Google sono un passatempo recente, un modo per noi ossessivo compulsivi maniaci del controllo di far finta di sapere le cose quando la nostra fonte è (se va bene) la Wiki. 

La domanda del secolo era: perché viene la lanugine ombelicale?

Sono onesta: non avrei mai creduto di trovare qualcosa sul web. No, non è vero: lo speravo.

E invece…

E invece c’è un tizio che ci ha fatto pure una ricerca universitaria. Un certo Karl, in Australia, nel 2001. E siccome l’Australia deve essere un paese prolifico per la lanugine, un altro tizio, un certo Graham, per circa 20 anni ha raccolto e conservato la propria lanugine ombelicale. A scopi scientifici, dice lui. Posso vomitare? Ok.

Se comunque volete togliervi la curiosità, la lanugine ombelicale è (ovvio) un accumulo di fibre dei vestiti che si concentra nella cavità. Non mi pare che ci sia da perder soldi per farci una ricerca scientifica. E se siete donne e vi chiedete perché voi, invece, non l’avete, non c’è certo bisogno di essere Sherlock per capirlo: non abbiamo peli sullo stomaco. E non dico in senso metaforico. 

Ciò che mi sciocca è che qualcuno abbia davvero fatto partire una procedura per studiare il fenomeno. E, soprattutto, che qualcuno abbia acconsentito a far fare la ricerca…

E che il signor Graham sia entrato nel Guinness dei primati. 

Primati: ragioniamo su questo termine. 

Ma c’è ancora una cosa che mi risulta più scioccante, se possibile: ma che cazzo faccio del mio tempo libero se faccio ricerche su Google sulla lanugine ombelicale? 

Ormai Google è una droga per me. Ho un dubbio? Chiedo a San Google. Cerco un numero di telefono? Google. Devo ricordarmi del dentista? Google calendar. Ho un corso di scrittura on line? Google meet. Le ricevute dell’affitto? Su Google drive. Il Ristornate? L’ho messo personalmente su Google my business. Devo andare a Roncolla? Google maps. E Google earth per verificare. 

Non è Google in sé che voglio demonizzare. Se non ci fosse lui ci sarebbe altro. E altro c’è, nel web. Io sono altamente tecnologica: pago tutto tramite Home banking, faccio acquisti su Amazon e Ibs (tanto che per il mio compleanno i miei colleghi mi hanno regalato un buono Amazon), ho fatto pure la Pec per chiedere i contributi del comune, guardo Netflix, Amazon prime video, ascolto Spotify (come ora), chiamo Siri per farmi rimettere il timer per cuocere i biscotti in forno a lavoro, chiedo a Youtube le ricette… mi stoppo perché potrei continuare a oltranza. 

Mi chiedo cosa sarei senza internet e vari device. Questo compreso. 

Riuscirei a riadattarmi? Perché io mica sono nata con questa roba qui, io le ricerche le facevo in biblioteca, telefonavo dalla cabina con la scheda telefonica da 10 mila lire (che se chiamavo da casa gli amici i miei si incazzavano), scrivevo a mano, avevo l’Atlante statale dell’Italia in casa, l’elenco telefonico, l’agenda dei numeri accanto all’apparecchio grigio di bachelite, e la gente la incontravo al bar (poco, però, che io sono sempre stata riservata, diciamo così).

Riuscirei a riadattarmi?

Boh.

Però sono onesta: mi piacerebbe scoprirlo. 

De familia *

* questo perché Little Boss sta iniziando a studiare latino prima di iniziare il liceo, e io sto ripassando con lei

 

post 218

Qualche anno fa girava un video: cosa succede se regali un’Ipad a tuo padre. Se non lo avete visto o non ve lo ricordate ecco qui.

Guardandolo oggi mi sento libera di dire: magari fosse stato solo così!

I miei genitori, entrambi, ma ognuno a modo suo, hanno preso il peggio dalla tecnologia.

Inizio con mia madre. Una donna che vivrebbe volentieri nel 1800, più precisamente in romanzo dalla Austen, a ricamar merletti e fare chiacchiere all’ora del the, tuttalpiù per darsi un tono le classiche vacanze a Bath. È una perfetta donna degli anni ’50 (che sono i suoi): casalinga, ama cucinare (ma non lo sa fare), ama starsene in casa a cucire, vive una vita ritirata (non ha sentito cambi di corrente con il Covid). Ma da quando gli è stato messo in mano il primo Iphone (mia sorella ama cambiarli spesso e dona gentilmente gli smessialla famiglia, me compresa) è cambiata. In peggio. Della tecnologia ha preso il lato peggiore. Si informa su Facebook (attenzione! Questo mi era stato personalmente preannuciato dal direttore del Tirreno – noto(?)giornale locale- Barnabò ben 10 anni orsono: i giovani si informano solo su Facebook. Ma dei vecchi non diceva nulla e io mi chiedo se non sia stato ottimista). Dato che le sue news viaggiano solo un canale che lei stessa sceglie senza esserne consapevole, ovviamente si infervora sempre più, sentendosi dare ragione praticamente ogni minuto da gente che scrive : habbiamo vinto! E sebbene lo snobismo sia di famiglia, si vede, ciò non la frena dall’esaltazione.

In pratica sta sempre appiccicata alla sua terza mano: le ricette? Su Pinterest! I libri? Su ibs! I video divertenti sui cani? Su Youtube!

Salvo poi non capire la differenza tra le tre.

E qui entro in gioco io.

Mi stampi questo disegno da Pinterest?

Mi prenoti questo libro su Ibs?

E, il peggiore: guarda questo video su Youtube! (con tanto di Memojipersonalizzata di Apple, che mi chiederà di modificare appena si taglia i capelli).

Ma se poi le dai la dritta super dritta, stile Scarica Spotify e potrai sentire tutta la musica che vuoi, da Baglioni a Cocciante, allora si ritira come un riccio (si vede che non segue i miei consigli, ma solo quelli di mia sorella, che è senza dubbio la figlia migliore delle due) e per dispetto compra pure un giradischi. Uno vintage, color pastello. Per sentire i suoi vecchi vinile. Pur di non darmi retta… (non fraintendetemi: io, appassionata di vintage fino all’osso, sono anni che vorrei un aggeggino come quello. Ma poi penso sempre alla bolletta dell’acqua, alla spesa. E sapete com’è: non ne faccio mai di nulla).

E poi c’è mio padre…

Ultimo modello di Iphone (eh sì, è una degenerazione familiare, ci stanno studiando), non si perde un messaggio, una foto, un vocale. Ogni tre secondi il suo telefono trilla: sono gli amici di Torino, quelli di Grosseto, quelli di Livorno…

Se non trilla nessun problema: si collega a Facebook (così guarda i video divertenti sui cani) oppure mette le foto superfighe su Instagram (lì mia madre, ancora non c’è arrivata). Appena andiamo a trovarlo è già lì che parte con i video o con i selfie da inviare a mezza Italia. In metà ho la faccia da pesce lesso. Dopotutto sono fotogenica come un mocassino usato.

Se non usa il telefono ha il suo Macbook, dal quale ascolta la sua Playlist preferita su Youtube (nulla, Spoty, il mio amore, lo scartano tutti tranne Little Boss), oppure si legge l’ultimo Roth sul suo nuovo Kindle.

Eh sì.

Vecchi e supertecnologici.

Eppure vecchi.

Sarà un momento, sarà che vedo anche me tanto invecchiata (la pelle, soprattutto la pelle), sarà che il tempo passa anche per loro, non solo per la mia Little e me.

Ma oggi mio padre l’ho visto davvero male. Lento, sconsolato, impaurito dal Covid.

Mentre mia madre la sento sempre più acida, autoconclusiva in un certo senso, dimentica le cose per ricordarsi solo ciò che la aggrada (quindi non me).

Magari è solo questo momento mio, che ho la percezione del mondo in nero.

Magari invece stanno invecchiando sul serio e devo iniziare a farmene una ragione: non sono più da anni i miei genitori (fonte di consigli, simbolo di protezione eccetera), ma da qui a essere io la loro badante a tempo sperso ce ne corre.

Ma soprattutto, come si fa a bilanciare le cose? Come si può essere figlia comunque (facendo la parte della figlia) e prendere anche il ruolo opposto, quello di assistere?

Ho paura che non mi ci vorrà molto a scoprirlo…