A lavoro, in laboratorio, mettiamo sempre Radio 24. Non chiedetemi perché invece non c’è Bach o anche un semplice pop rock: quello lo riserviamo ai clienti. Comunque, su Radio 24 ogni tanto passa una pubblicità. Io, che le pubblicità non le guardo mai, non guardando la tv, spesso ne resto affascinata. Se ci pensate le pubblicità ti fanno capire meglio dove si colloca la società. Vi ricordate la pubblicità della Barilla con la bambina con l’impermeabile giallo che porta a casa un gattino sotto la pioggia? Era il 1986 e sembrava proprio che il nostro mondo volesse andare in quella direzione: benessere, famiglia. C’era un diffuso clima di speranza. O almeno così mi sembra oggi (al tempo ero una mocciosa e devo dire che quegli anni non sono stati il massimo per me). E insomma vabbè, dicevo che su Radio 24 passa la pubblicità del Metaverso. Ma il suo impatto sarà reale, conclude. Dopo una decina di volte alla fine sono riuscita a sentire l’intero spot, cercando di capire di chi sia. Nulla. Mi è toccato cercarlo sul web. Meta. Quindi Facebook, quindi Mark. È una strana pubblicità. Nel senso che non vende un prodotto già esistente, tutto il testo è scritto al futuro. Non esiste ancora il Metaverso, ma esisterà. E io dico, ok, ma perché dirmelo ora? Dimmelo quando c’è. E invece no… e invece forse l’idea di questo spot è quella di fartici avvicinare, a questa rivoluzione, lentamente. Farti abituare all’idea che ci sarà, così che un domani tu non possa dire: ma che è ‘sta roba? Noooo.
Perché è esattamente quello che penserei ora se mi dicessero di andare a passeggiare su una strada virtuale e fare shopping virtuale con criptovalute per comprare, che ne so, un cappotto virtuale per il mio avatar. Sarà impiegato per grandi scopi, come quelli medici? Ok. ma sarà sfruttato anche per socializzare? Cioè, non usciremo più di casa per un caffè con un amico se non per prenderlo nel Metaverso? Perché magari nel Metaverso potremo essere persone migliori(dai, che lo avete visto Ready player one!)?
Sono un po’ ostile all’idea, specie dopo due anni di pandemia che ci ha costretti a socializzare solo così, virtualmente.
Cher poi una sorta di Metaverso già esiste, penso a Fortnite. In tempi non sospetti una mia amica mi disse: mio figlio mi dice che va a giocare con un amichetto e poi lo trovo da solo sul divano di casa. Gli chiedo dove sta il suo amichetto. Lui dice che sta a casa sua, che giocano a Fortnite insieme in rete. E io mi chiedo dove sia finita la palla da calcio…
Me lo chiedo anche io. E questo rifiuto che sento mi fa scaturire la classica domanda: stai diventando come tua madre che rifiuta il concetto di Spid? Il Metaverso sarà il mio Spid?
Beh, ok, non è detto, magari mi farò impiantare un chip sottopelle per pagare con il pos, come il tizio olandese che ne ha ben 32 e ci apre pure le porte. Che poi mi dico: ma fra tutte le cose faticose che facciamo ogni giorno, spesa, pulizie, proprio aprire la porta ti crea disagio? Senti fatica prendere una carta dal portafogli per strusciarla sopra un pos?
Forse è così che si comincia a capire che si invecchia: revisioni costanti (estetista, parrucchiere etc, vedi post precedente)e rifiuto dell’innovazione tecnologica (che ha pure un nome, Early adopter).
Eppure ero così felice di avere un assistente vocale in casa…
Alexa, spegni questo post
P.s. Piccolo aggiornate to: ho letto ora ora una notizia di una class action in Canada da parte di genitori i cui figli giocano a Fortnite. Loro dicono che il videogioco è come l’eroina e crea dipendenza (Un ragazzino ci ha giocato più di 7000 ore in un anno e in un anno di sono poco più di 8000 ore, per dire). C’è da rifletterci, E.A. a parte…