La sfida più difficile

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L’unico giorno in cui posso fare la buca nel letto l’Amico Speciale va a lavoro presto, sciottola in cucina, ci tiene ad abbracciarmi stretta prima di uscire, lui, che appena apre gli occhi è già super attivo. Io, che appena apro gli occhi sono uno zombie, ho bisogno di litri di caffè e almeno mezz’ora di silenzio assoluto. I risvegli con lui per me sono un piccolo trauma e non c’è nulla da fare, lui si diverte tantissimo a vedermi così.

Ho provato a tornare a dormire, nulla da fare, una volta sveglia sono sveglia e inizio a detestare il letto, mi sta proprio antipatico quando non serve alla sua funzione, quando Morfeo se ne va me ne devo andare anche io.

Mi risveglio in una casa stranamente silenziosa, Little Boss è da suo padre, la vado a prendere tra poco. L’ha portata al mare, il mio ex, per la prima volta dall’inizio dell’estate, gli era presa una specie di ripicca, sono mesi che le tiene il muso, che le rivolge a stento la parola, che la punisce perché non mi odia come fa lui, non capisce che il mondo non funziona con le fazioni, che se qualcuno non odia chi odia lui non è un nemico necessariamente, ma è tutto inutile, nessuno riesce a farlo ragionare e chi ci rimette è una bambina che si trova un padre a metà, un padre che non sa fare il padre, che non ne è proprio capace. Poteva andare peggio, mi dico a volte, poteva fare di peggio, ma ogni volta che ci penso mi rendo conto che non lo so pensare, questo peggio, penso dalla parte di chi è genitore e mi arrabbio tantissimo. Ma no, più che la rabbia mi morde la preoccupazione.

Sono talmente preoccupata che la sogno la notte, Little Boss, la sogno ribelle, la sogno triste, la sogno infelice. Poi mi sveglio, vado in camera sua, la guardo mentre dorme pacifica, la pace di chi ancora non ha fatto quello scalino nel mondo dei grandi, solo quando dorme riesco a vederla così, ancora una bambina, ancora un esserino indifeso, come quando aveva pochi mesi e si addormentava tutta rannicchiata sul mio petto, il faccino tondo rivolto in su, la manina stretta al mio dito. Per anni mi sono chiesta se questa separazione l’avesse turbata: chiedevo a chiunque di darmi un’opinione, Ma secondo te sta bene?, la vedi tranquilla?, a scuola avevo mobilitato tutte le maestre, poi alle medie anche i professori, ma la risposta era sempre la stessa: è allegra, solare, sta bene con i compagni, va bene in tutte le materie. E allora alla fine ho smesso di chiederlo agli altri, lo chiedo a lei, ora, la abbraccio e glielo chiedo, oppure la abbraccio e basta, a lei ancora piace se la abbraccio, ancora lo vuole quel calore, vuole i baci a consumare le guance, vuole sentire che ci sono, che le voglio bene, che non la lascerò. Ancora vuole tutte queste cose, che sono le cose che voglio anche io, e quindi tra di noi tutto va bene. Ma sono preoccupata lo stesso. Un po’ lo sono per natura, una che si preoccupa, un po’ so che non sarò in grado di salvarla dalle delusioni, dal dolore, al limite potrò cercare di non dagliele io, ma anche su questo come posso garantire? Come posso dire ora che non la deluderò mai quando so per prima che tutti i genitori, prima o poi, per un motivo o un altro, deludono?

Era un giorno di novembre, dopo la raccolta delle olive. Faceva freddissimo e io e il mio ex siamo andati in un bar a berci una cioccolata calda. Ero vestita come l’omino della Michelin, forse avevo proprio una giacca con la scritta Michelin a dire il vero, ero stanca ma felice, non mi ricordo nemmeno più perché. È stato in quel momento, mentre soffiavo sulla tazza, che ho deciso. E ho deciso io, non ricordo di aver chiesto, ricordo di aver comunicato. Avevo 27 anni e volevo un figlio.

È stato in quel momento che la mia vita è cambiata. È stato in quel momento che ho intrapreso la sfida più difficile della vita.

Una sfida alla quale non rinuncerei mai per tutto l’oro del mondo.

 

Amo…

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Amo le parole scorrette. Quelle inventate. Quelle che trovi per caso nel bucato da lavare, dentro il barattolo del sale, sotto al sorriso di un’amica che non vedi da tempo.

Amo le parole che sono pezzi di vetro fine che si conficcano sotto ai piedi nudi, quelle che sono morbidi cuscini dove soffocare le lacrime, lasciando la traccia di un rossetto inutile, quelle che si fanno cogliere come capperi nati sulle mura di un’antica città, quelle che ti arrivano inaspettate come le coccole quando sei stanco.

Amo le parole che sporcano, che gridano, che invadono gli spazi inesplorati del mio corpo, quelle che respirano e fanno respirare.

Amo le parole scorrette. Che non significano. Evocano.

Camminare

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Quando subisci un trauma la prima cosa è il dolore. Forte, lancinante, credi di non riuscire a sopravvivere. Poi però il dolore si attenua, ti lascia respirare e inizia la convalescenza, quella fase in cui ti devi coccolare un po’, dirti cose come Riposati. Ma poi ricomincia la vita reale e anche chi ti ha aiutato a superare la fase acuta del dolore ha il permesso di lasciare che cammini con le tue gambe. A questo punto puoi fare due cose: dirti che no, non sei guarito, che il dolore ti impedisce ancora di vivere, oppure farti forza, risollevarti e, nel mentre sopporti, vivere.

Sono scelte. Perché il dolore è sempre lo stesso. Diversi sono i modi di percepirlo.

La mia fase cianurotica è finita prima di quanto immaginassi. Alla fine è bastata una spicciolata di giorni. Certo, cinica lo sono ancora, anche se non amo questo lato di me, ma il cianuro…beh, mi è evaporato nelle vene. Forse perché non sono fatta per i grandi rancori (anche perché li subisco tuttora, forse), forse perché nel caso specifico il rancore era solo un modo per salvarmi dalle mie responsabilità, quindi non davvero giustificato. Forse perché alla fine sto imparando tante cose. E tante cose le ho imparate grazie a tutto quello che è successo nell’ultimo anno.

Questo blog è importante per tante cose. Molte le ho già elencate e ripetute tediando il malcapitato lettore occasionale, altre erano più personali, altre, appunto, le sto capendo solo adesso.

È come un nodo al fazzoletto, qualcosa che non devo dimenticare, mi serve rileggermi, rimettermi nei miei panni, uso con me stessa i neuroni specchio. E questo mi fa vedere come cammino (una cosa che da soli non notiamo quasi mai, a dire il vero), come cambio, anche, cosa capisco e cosa no.

Poi, certo, ci sono le persone. Tutto quello che danno le persone a volte tendiamo a sottovalutarlo, a darlo per scontato. Ma nulla è scontato. Basta mettersi in questo piccolo ordine di idee e tutto cambia. Tutto assume un significato diverso. La tendenza (la mia, la vostra non lo so) è sempre quella di vedere il male delle cose che accadono. Certo, quando c’è un dolore gli occhiali cambiano, ma non siamo giustificati a essere persone orribili solo perché soffriamo. Io lo sono stata in tante occasioni. Me ne pento, ma non è quello che serve, il pentimento. A volte basta solo esserne consapevoli per cambiare tutto. Forse è questa consapevolezza che cambia le cose. Perché non possiamo agire sugli altri, ma solo su di noi, e questa piccola verità che mi è stata proposta più volte a volte è risolutiva.

Ma certo, il naso fa male, mica si può guarire in due giorni, solo che non voglio prolungare la mia convalescenza.

Voglio scegliere di risollevarmi e, sopportando, vivere.

Perché vivereè una scelta. E si può essere morti anche da vivi.

Mi sono perdonata.

E quindi il mondo è di nuovo accettabile.

Non mi aspetto di essere di nuovo felice (perché lo sono stata). Ma intanto lo spero e questo è un gran bel passo avanti.

Anche l’amore è una forma di egoismo

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Accanto al mio albero di Natale, ascoltando una compilation rock di Natale (con delle perle uniche, tipo i blink con I won’t be Home for Christhmas, una delle mie preferite. E, naturalmente, Feliciano, sempre lui, again… potrebbe essere il mio personale incubo di Natale per tutti gli anni a venire), scrivendo dalla parte sbagliata del foglio, come sempre, pensando alla conversazione che ho avuto con TDL giusto stamani.

Tutto questo genundiare prefatorio sta a simboleggiare che tutte queste azioni sono ancora da finire, e da definire anche.

Il fatto di non scrivere più di TDL qui ha paradossalmente segnato una nuova fase in cui ci sentiamo e ci parliamo di più. Certo, non come prima, sia nella quantità che, sopratutto, nel modo. E credo che questo sia un bene. Sentirci, dico. Mi aiuta a farlo scendere da quel piedistallo sopra al quale lo avevo infilato qui, in questo blog. Lo rende più vero, e quindi più sopportabilmente dimenticabile. Sopratutto in questi giorni mi sono resa conto che più ci parlo e più trovo lontane le nostre visioni del mondo. Mi sta cadendo quel prosciuttino sugli occhi che l’innamoramento mi aveva regalato. Questo non significa che non mi piaccia più, TDL, ma ora è umano. È solo un uomo. Non c’è più quel concetto ineluttabile di Destino che mi faceva disperare la notte, piangere il giorno, soffrire sempre. Sto guarendo e lo sto facendo nel modo giusto. Il Tempo ci ha messo il suo zampino. E sono certa che non passerà ancora molto prima di riuscirgli ad essere amica e basta. Dopotutto l’ho scelto perché è una persona interessante, e questo è, questo non cambia. 

Per il resto ho passato un weekend bipolare: da un lato il lavoro che mi ha spento come se fossi stata una candela, dall’altra l’Amico Atipico è venuto a trovarmi, smaronandosi con un viaggio lungo e complicato e ricevendo in cambio una mezza Moon (ma anche una burrata, un albero di Natale da fare insieme a Little Boss, un’ emergenza luci dell’ultimo minuto e una notte in un piumone che fa ottomila gradi… sì, ok, non sono tutte cose positive, ma almeno non si è annoiato, no?). il risultato è che stamani mi sento bene, equilibrata ( e per me è una sensazione assai rara), positiva, nonostante un mal di testa che mi fa sorgere il dubbio di dover partorire la Minerva del nuovo millennio. 

E quindi posso riflettere con calma sulla conversazione con TDL. Mi rimprovera sempre di non pensare a me stessa, di mettermi sempre in secondo piano. Non ha torto. E io infatti gli do ragione. Solo che non ci trovo nulla di male. Nella vita ti devi dare delle priorità. E io ho Little Boss come priorità. Che poi io sono capace di amare così: o tutto o niente. Ed è probabile che sia precisamente questo il mio problema, con gli uomini (faccio così, amo mettendo me in secondo piano e poi lì resto, e quando me ne accorgo e faccio il passo avanti scoppia il casino), ma sono sicura che non lo è con Little Boss. Sarà lei a costringermi a mettermi in primo piano tra poco, perché non avrà più così bisogno di me, farà la sua vita e io potrò solo essere lì a guardare. Ma ora, ora, ha bisogno di me. Del mio aiuto, del mio sostegno. Non posso pensare prima a me, alle mie necessità, perché sono una madre. Non ci trovo nulla di sbagliato. Forse è perché in fin dei conti sono stata cresciuta così. O forse perché lo sento e basta. E aggiungo sul piatto che comunque amare mi fa bene. Anche amare è una forma di egoismo. Forse la più grande. 

Potrei chiudere il discorso dicendo : ma TDL è un uomo, non può capire. In realtà non è una questione di genere. Ma di situazione. Forse sarei stata diversa come madre se avessi avuto un padre vero per lei. Forse avremmo trovato il modo di metterci entrambi sullo stesso piano, e saremmo rimasti lì insieme, a darci la mano. Le cose fatte da sola sono sempre più faticose e ti portano a fare rinunce. Forse lo avevo, il padre vero, e l’ho trasformato io in questo mostro, come lui mi accusa. Ma c’è qualcosa che non mi convince in questo suo discorso. È vero che le croci si fanno con due legni. Ma sono appunto due, i legni. 

Quello che resta è una bambina che non posso lasciare a se stessa. 

Qualunque errore io faccia, in ogni caso, sono certa che, come sempre, lo sconterò. 

E ora sono pronta anche a questo. 

Ma almeno mi sto movendo: non posso più accusarmi di subirla, la vita. 

Ora devo dare risposta a qualche domanda…

Poi magari mi accorgerò che tutto quello che ho scritto oggi ha un controsenso interno. Ma potrò dare la colpa a Minerva che vuole uscire dalla mia testa…