Narrami o musa (G.R.C.V., ovvero il Grande Romanzo Catartico della mia Vita)

Di nuovo qui, a parlare di un mio vecchio e caro amico che credevo si fosse addormentato, che mi avesse lasciata in pace per sempre, e invece…

E invece il furbetto stava solo aspettando il momento giusto per rimettersi a lavoro, per tornare a tormentarmi. 

Sì. Sto parlando proprio di lui: il Censore, l’”amico” (qui le virgolette ci stanno più che bene) grazie al quale ho iniziato a scrivere questo blog. 

Quindi insomma, il Censore, che per anni è stato quieto, lo è stato solo perché, beh… non scrivevo davvero. sì, ok, ho scritto un pessimo romanzo lampo, forse un paio di racconti e centinaia di pagine farlocche. Ma ora che ho iniziato questo corso alla Holden eccolo che mi bussa alla spalla con il suo dito scheletrico e puntuto (proprio in quel punto della Carogna, per intenderci) e mi fa:

Quindi ora sei convinta di stare per scrivere un romanzo catartico… (risatina sotto ai baffi, anch’essi scheletrici e puntuti) 

Chetati, rispondo (più sono incazzata e più il mio dialetto esce)

Sì, sì, io mi cheto, come dici tu. Ma sai che ormai sono anni che non scrivi più con quella voce, vero? ora sei solo capace di buttare tre righe qui, in un blog che nessuno legge e dove scrivi cose che nessuno capisce perché sei troppo autoreferenziale. 

Ringhio un po’.

E poi, continua lui (mano sul fianco, dito puntato come se fosse in una sit-com americana ambientata nel Queens), non sei neanche riuscita a capire il compito! Dovevi scrivere il soggetto del tuo romanzo e invece hai scritto…cos’è che hai scritto?

Oh, va bene! È solo che credevo di dover scrivere il soggetto a grandi linee, lui, il docente del corso, mica ce lo aveva spiegato, eh! Sono un po’ risentita, ma in realtà ho cannato alla grande sin dal primo passo: bella prova, Moon…

Insomma, mi vuoi dire che stai scrivendo il grande romanzo catartico, che vuoi scrivere questo e poi basta e che sei talmente dilettante da non sapere come si scrive un soggetto per un romanzo? Insomma, guardati: fai pena. E fa per andarsene. 

Ehi, non provare a darmi le spalle, lo richiamo. Tu sei qui per umiliarmi e sbeffeggiarti di me, quindi hai il dover di sentire anche la mia parte!

Eccolo che torna. Si ferma, mi fissa. 

E io zitta.

‘mbeh?, mi incalza.

Faccio spallucce. 

Non sei ancora pronta per scrivere il grande romanzo catartico della tua vita, conclude lui prima di sparire.

Detesto dar ragione al Censore, ma stavolta… 

Comunque ok, nel mio acronimo c’è la parola Ostinata. E anche se da questo corso non verrà fuori il grande romanzo eccetera almeno devo provarci. E per provarci basta che sia furba quanto il Censore. 

Basta che smetta di ripetermi ogni cinque minuti che questo sarà il Grande Romanzo Catartico della mia Vita…

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Chi ha scelto chi?

post 193

Ho bisogno di una pausa.

E come fare una pausa dalla scrittura se non scrivendo?

Sono diventata la caricatura di me stessa.

Il fatto è questo, e lo dico in breve: sono quasi 4 mesi (4!!!) che sono a casa senza fare nulla; ho passato le giornate a trascinarmi, triste e ansiosa, in giro per casa, in perfetto stile zombie; ho incrementato le mie capacità culinarie (non è del tutto vero: ho messo in pratica, più spesso del solito, quelle tre cose che so fare, eliminando la Fiera del precotto dal frigo- citazione di Venkman); mi sono esercitata davanti allo specchio per riuscire a fare una perfetta Boxer braid (con scarsi risultati); ho consumato la televisione, fatto quasi fuori il Tolino e comprato (sigh!) perfino un paio di giochi sull’Iphone (Room non era poi così male… solo che mi ha fottuto la batteria).

Insomma: quanto tempo avrei avuto per scrivere quel dannato romanzo di cui parlo sempre da anni e anni?

Ma, dicevo a me stessa, perché non ti ci metti adesso, che hai tempo in quantità?

E non è che all’inizio, non ci abbia provato. Mi ero fatta uno schema mooolto approfondito, seguendo il mitico Vogler, cercando di pensare a una storia decente. E si vede che la storia non era poi così decente, perché è naufragata prima di prendere il largo, a pagina 2.

Mi sono data una spulciatina ai file nel computer, oggi: lì dentro ci sono ben 4 romanzi iniziati (una delle cartelle si chiamava Con poca speranza e quindi immaginate il contenuto) , il più lungo dei quali conteneva ben 13 capitoli. Insomma, quello era il mio record, 13 capitoli, poco più di 13 pagine, a tutti gli effetti. Non un granché.

Parlando con il Mentore, non molto tempo fa, mi sentivo piuttosto scoraggiata, affranta direi. Non ricordo se l’ho detto anche a lui, ma di certo l’ho pensato: basta con la scrittura, devo mettere un punto a questa storia, ho scritto dei racconti, è vero, alcuni sono stati pubblicati (gratis) in riviste non poi tanto male, ma si tratta, comunque, di roba scritta più di 5 anni fa ormai. L’ultima mia produzione (finita) era il racconto del disturbo psicologico, mai consegnato alla casa editrice oltretutto. Credo (devo ammetterlo a me stessa) che il colpo di grazia me lo abbia dato l’ultima rivista a cui aveva mandato l’opera, che ha rifiutato il tutto. Ok, non so incassare i rifiuti: vedrò di lavorarci su.

E quindi ok, non ho pensato più a scrivere da quel momento, con la frase classica: meglio utilizzare il mio tempo a leggere buoni romanzi, piuttosto che sprecarne per scriverne di pessimi.

E fin qui tutto ok. Avevo rinunciato. Capita. Insomma, dopo dieci anni se i risultati non arrivano (non a livello di pubblicazione, ma di produzione proprio), allora forse la cosa non fa per te.

E poi è successa una cosa, poco più di una settimana fa.

Una storia ha bussato alla mia porta, così. Senza avvisare. Una storia che in verità non ho scelto (o meglio, una storia che non sceglierei), ma era lì, bellina chiara, limpida e così, per sfida, ho voluto fare una prova. Mi sono detta: tu prova a iniziare, e poi vedi. Se non continui pace, torni a essere quella di prima. Che ci rimetti? Non hai ancora un cavolo da fare!

Ho iniziato. E il primo giorno ho solo pensato. Senza scrivere. E più pensavo e più la storia era definita. Il giorno dopo ho iniziato. Dieci pagine. Bene, mi sono detta. Ma sugli inizi ero già navigata, come ho detto.

Il giorno dopo 12 pagine. E quello dopo altrettante. Insomma, stavo procedendo a vele spiegate, come un treno e la storia (e questo ha dell’incredibile) non stava perdendo forza, non stava sfumando, incasinandomi il cervello per trovare soluzioni. Anzi.

E quindi no, non sono qui a cantare vittoria, ma in una settimana ho scritto praticamente metà romanzo. E so esattamente cosa ci va dopo, per intenderci, la strada per arrivare all’epilogo.

A prescindere dal risultato che sarà, in generale (revisioni a parte, la storia poi magari mi sembrerà banale, i personaggi poco definiti, lo stile scarso?), quello che per me conta è finirlo. E siccome ancora non l’ho finito…

Ma queste pagine mi rendono esaltata, sono entusiasta del lavoro (per ora) e mi rendo conto che se mi vengono delle domande ansiogene in testa (Arriverà la cassa integrazione? Riuscirò a pagare l’affitto? E l’assicurazione della macchina? A cui oltretutto dovrei cambiare la guarnizione di testa, cazzo?) la mia risposta è una sola:

macchissenefrega! Sto scrivendo (e qui ci sta bene uno smile).

Quindi questa cosa che ho sotto le dita, questo romanzo ( o cosa sarà) sta già facendo un buon lavoro, no? E io, beh, mi diverto a scriverlo, sul serio. La schiena si lamenta, a volte, ma torno alla tastiera volentieri e anzi, a volte mi impongo di smettere per non bruciare tutto a causa della stanchezza.

E quindi sì, è davvero da morir dal ridere, come ho scritto a Ale: tra poco rientro a lavoro (la prossima già inizieremo a fare qualcosa) e io ho scelto questo momento per scrivere il romanzo.

Ma forse ha ragione lei, sempre Ale, forse è una manovra di Ispirazione (una dea a cui non credo).

O forse la storia ha scelto me.

 

 

 

Fino alla nausea: ancora di scrittura

 

 

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Insieme al manuale di dissuasione alla scrittura creativa, per compensare, ho preso anche un Master di scrittura creativa.  Ora: io ho più libri di scrittura della scuola Holden, mi sa, ma questo ancora non lo avevo e speravo che mi desse qualche dritta nuova e…

No. Non è vero: sapevo perfettamente di aver già letto tutto il leggibile sulla scrittura: tra libri, blog, consigli a scrittori da chiunque, anche da non scrittori, credo di aver incamerato più info di Google, so perfettamente come dovrebbe essere una trama, come si usa un cliffhanger (ma soprattutto, chi ne abusa, senza fare nomi), ho ripassato le figure retoriche, tutte, so come si fa la scheda di un personaggio, cosa si intende per Domanda Drammaturgica Principale  (DDP, giusto per dare sfogo al mio bisogno di acronimi). Cosa voglio dire? Che la Teoria la so tutta. E la pratica sono altri cazzi.

La pratica, in fin dei conti, consiste in altro. Non sono brava a calcolare quando scrivo, forse perché non sono brava a calcolare e basta, ero più per l’Italiano, a scuola, e infatti sono andata al Liceo Classico. Diciamo così, visto che sto preparando cena: per la scrittura mi comporto come di solito mi comporto in cucina: la ricetta la so, l’ho studiata, so che dovrei usare la bilancia per gli ingredienti, ma non riesco proprio a non metterci qualcosa di mio, un tocco di curry lì, un pizzico di menta là… spesso accade che rovino un piatto (tanto ho poi l’Amico Speciale che è un inceneritore), spesso che il piatto piace solo a me, raramente che il piatto lo gradiscano i più.

Lo chiamo atteggiamento sensoriale. Ovvero, vado a senso, a caso per essere più precisi. Le regole le so, quindi. Ma spesso decido di ignorarle. Non di infrangerle, sia ben chiaro, perché la volontà di infrangere una regola crea, a mio avviso, un artificio ancora peggiore del seguirla pedissequamente. Può andare bene per finezze. Ad esempio, ricordo che una delle regole che ho letto in uno dei vari libri di scrittura era: non iniziate un paragrafo (men che mai un libro) con Il fatto è che. Probabile che incontrerete Il fatto è che spesso all’inizio dei miei articoletti. Lo scrivo per ripicca. Oppure: non usate avverbi. Certamente, rispondo. Non abusate delle metafore. Questa frase è una coltellata al cuore! E via dicendo.

La scrittura è cimitero di regole ignorate. E non certo da me. Io infatti non scrivo, quindi sono salva e non finirò nel X girone dell’Inferno extradantesco nel quale mi rinchiuderebbe il caro Paolo Bianchi: quello degli scrittori dilettanti che hanno pubblicato con Youcanprint.

Ma se la regola è In media res, ditelo al caro Umberto Eco nell’incipit de Il nome della rosa. Per dirne una… niente dialettalismi? Ciao, Gadda, ciao Pasolini.

Ho iniziato il Master lunedì e sono a più di metà. Più di metà di cose che ho già sentito dire, che ho già letto, che ho già incamerato.

La giusta conclusione di questo articolo è che la Teoria non conta davvero. Conta solo continuare a scrivere e tenere duro. Un principiante è solo un dilettante che non ha mai mollato. Eh, stavolta no, non mi ricordo chi lo ha scritto (inizio a perdere colpi con il mio citazionismo.

Perché penso tanto alla scrittura in questi ultimi mesi, mi chiedo invece io?

Perché mi manca. E farei di tutto per riconnettermici, anche rileggere sempre le stesse cose. Ogni giorno. Fino alla nausea.

Più o meno parlo di scrittura…

D6772880-7F3E-44C8-9940-095DB0E47F78_1_201_aLadra, ladra, ladra…

Cosa rubo oggi? Sempre la stessa cosa: Tempo.

Perché lo rubo? Per dire nulla. Eppure per dire tutto.

Come lo rubo? Sottraendomi ad alcuni impegni (fare delle foto della mia abitazione, per esempio, che verrà presto messa in vendita, lasciandomi basita, prima di tutto, irritata, secondo di tutto, preoccupata, anche se non troppo, ho ancora due anni, terzo di tutto).

Quando lo rubo? Prima di cena, giusto una mezz’ora, mi dico sempre, ma poi sforo sempre un pelino.

A Chi lo rubo? A Little Boss, un pochino, all’Amico Speciale, pure un altro pochino.

Ora che ho sviluppato aristotelicamente (più o meno, nevvero) questo incipit posso continuare.

Bene bene, una prima novità l’ho detta qua sopra (ho usato un qua! Io che cazzio sempre il mio Amico Scrittore perché li usa e per me sono un toscanismo odioso! Ben mi sta, non lo correggo per punirmi del passato snobismo). Insomma non è che sarò in mezzo a una strada, intendiamoci, ma quando scadrà la prima parte del mio contratto 4+4 potrebbe essere… e io che speravo di stare in questo buchetto ameno almeno altri sei anni… sto anche riflettendo se comprarla io stessa, ma qui un investimento non è da pensare e io sono una che ha voglia di viaggiare leggera, non credo che metterò delle catene alla mia vita comprando una casa. Tuttavia ancora non sono in fondo al ragionamento: non so ancora le cifre esatte.

La seconda novità è quella di un possibile accordo con il mio ex: dopo anni di effettiva separazione finalmente tra poco saremo davanti a un giudice. Con un accordo firmato, a quanto pare. Ma siccome io sono come Tommaso… aspetterò il 18.

E tutto il resto? Com’è Inside Moon?

Devo dire che ho davvero poco tempo per rifletterci. E se questo da un lato potrebbe sembrare una fortuna, dall’altro mi spaventa. Ho approfittato di un acchiappa allodole per lettori come me: un buono di 5 euro da usare su Ibs (dove da anni sono Cliente Premium) e mi sono rimasti attaccati alle mani (virtuali) ben 3 libri… uno di questi era un libro che avevo in lista da anni, un libro che volevo e temevo: Inchiostro antipatico, un bel manuale di dissuasione alla scrittura creativa. Direi che il Bianchi, qui, con me ha centrato in pieno: condensa in poche pagine tutte cose che so già da secoli e millenni (da eoni, direbbe Little Boss). E alla fine si rivolge direttamente a me, il Bianchi: non farlo, Moon, perché condannarti a una vita fatta di delusioni e povertà, tu del marketing non sai una pippa, non ti piace, non sei il tipo, fai un lavoro di merda pure con i social del Ristorante, figurati se devi farlo per te, non sai venderti, e poi, scusa, ma chi ti leggerebbe? Come ti potrebbero trovare nel mare magnum dei piccoli scrittori insignificanti? E poi, davvero, cosa hai da dire di importante? E infine: ma sai farlo? Dai, piccola Moon, rinuncia, liberaci dalla cartaccia inutile che potresti produrre, sai quanti alberi salveresti? Ecco, pensa al futuro di Little Boss, all’ossigeno che le regaleresti! Pensa che con il tempo che sprechi a cercare di fare una cosa per la quale duri fatica potresti leggere, fare collanine con le perline, cucinare torte (per la felicità dell’Amico Speciale), rifare i letti, una volta ogni tanto, andare a trovare gli amici…

 

Quanto hai ragione, caro Paolo. E io ci penso da sempre, e ci ho pensato anche mentre leggevo il tuo manualetto.

Ma c’è un faro puntato sempre in una direzione, e non mi importa quanto dovrò aspettare, e non importa quale sarà il risultato, e non importa la fatica che dovrò fare, e non mi importa la rinuncia. So solo che ci sono cose che si fanno con passione per passione, per necessità, per sopravvivenza, e ognuno ha il sacrosanto diritto di buttare al cesso la propria vita per qualcosa o qualcuno, e a me sembra di essere anche troppo equilibrata, e no, caro Paolo, non rinuncio a scrivere, a avere questo sogno (ormai), a credere che un giorno, magari non oggi o domani, ma un giorno, ci possa arrivare.

Non sarai mai King, dice Paolo.

Lo so.

Non riuscirai mai a pubblicare, insiste.

Forse.

Desisti, conclude.

Mai.

Fosse solo per annoiare i miei 3 lettori… (mica sono il Manzoni, che arriva a 25…)

Ciucciami il calzino, Paolo.

(In ogni caso concludo dicendo: mai libro mi è stato più utile negli ultimi anni… Paolo Bianchi ha fatto un bel lavoro con questo manualetto. Perlomeno per me)

Il lettore ideale

post 150

 

Chiunque scriva è d’accordo su una cosa: si scrive per un lettore ideale. Una persona sola, unica, che probabilmente è entrata nel nostro cuore con prepotenza e lì è rimasta a stazionare per giorni, mesi, anni. Diversi anni fa il mio lettore ideale era il Mentore. Lo è stato per tantissimo tempo, c’era questo tra noi, una scrittura fatta di sangue, alla Hemingway, Soffri era il nostro motto, vedrai che qualcosa di buono ne esce, Scava, era il mio personale, e cavolo se l’ho fatto, ho scavato tanto da consumarmici le unghie, un’archeologa disperata, Desperate archaelogist, una serie tv del tutto priva di sorrisi. Non so se ne è uscita buona letteratura, ma di sicuro ne è uscita tanta, di roba.

Ma esattamente cosa fa, il lettore ideale? Beh, anche nulla, a parte leggere. È solo una persona di cui sai il gusto letterario, che, un po’, assomiglia al tuo, ma che non è te. Perché si sa, tu sei il peggior giudice di te stesso eccetera. È una persona di cui ti fidi, una persona che sai che ti dirà sempre la verità, almeno sulla tua produzione. King aveva sua moglie (il lettore ideale per antonomasia, almeno fino al loro divorzio), Virginia Woolf aveva Leonard, suo marito (che le aveva regalato una casa editrice: questo sì che è un regalo, mica un banale anello). Giusto per citarne due che ricordo.

Mi manca un lettore ideale.

Alla fine sono diventata io il mio lettore ideale, ed è una cosa che non esiste, che non sta in piedi, io scrivo per me, e non posso farlo, infatti ogni cosa che scrivo mi sembra adeguata non appena la scrivo, per poi cadere subito in disgrazia come un nobile sfortunato. Mi rileggo e non sono abbastanza brava come la Postorino o la Di Pietrantonio, non ho il piglio della Bender, non ho la fantasia della Nothomb, la profondità di Carver, il genio di Wallace, la capacità linguistica di Meads, l’incredibile sguardo della Homes.

Mi manca un lettore ideale.

Sogno di trovarlo in un angolo di strada, in un tombino, nascosto nelle pieghe della mia vita piatta come il seno della Knightley, tento conversazioni di letteratura con chiunque, ma nessuno soddisfa i requisiti, i pochi lettori che trovo… leggono, appunto. Mica se la vogliono smazzare con i sogni assurdi di lettori ideali, con fabula e intreccio, con similitudini, anafore, allitterazioni, con punto di vista del narratore.

Mi manca un lettore ideale.

Che poi non è mica vero che il lettore ideale debba darti un giudizio e smazzarsi con figure retoriche e tecniche di narrativa. Deve solo darti lo stimolo per scrivere, perché hai bisogno di raccontare quella storia a lui/lei. Alla sua unicità. Perché, come tante cose della vita, la scrittura parte dall’amore.

Alla mancanza di questo lettore ideale non sopperisco.

La prendo come cosa acquisita, come una mancanza, appunto, si fa anche con un arto meno, con un senso meno, ci si abitua, si rinuncia. Si inventano modi nuovi.

Io non invento nulla, vado avanti turandomi il naso, sperando di fare alla fine qualcosa di decente, ma mica per dimostrare qualcosa a qualcuno, solo per dimostrarlo a me, che le ore perse dietro a queste lettere non sono state sprecate, che non è stato come fare un Sudoku.

Nessuna medaglia, se non la mia.

Nessuno, a parte me.

(Che poi, che buffo, è proprio il contrario di Tutti, tranne me, il titolo della mia prima raccolta di racconti ormai smembrata).

Le cose cambiano. Accettare certi cambiamenti è dura anche per me che la mia zona confort è restare fuori dalla zona confort.

Ma è già qualche giorno che riesco ad alzarmi alle 5. E a scrivere almeno 1000 parole al giorno.

Il Museo dell’innocenza

post 119

Mio padre oggi mi riporta indietro di qualche anno. Alla prima volta che ho visto un Nobel, Oran Pamuk. Alla prima volta che ho sentito parlare del Museo dell’innocenza.

Ed ecco cosa scrivevo, al tempo:

(Pietrasanta, 8 Giugno 2013)

Arriva sul palco, il Nobel, che quasi te lo aspetti luccicante come una moneta preziosa, niente a che fare con quest’uomo normalissimo, emozionato e titubante. 

Prende la parola il suo editore, Einuadi, e il loro prologo è tutto per Istambul, per quelle rappresaglie, per quella paura della guerra civile che tanto lo atterrisce e disarma in questi giorni. Ammette di essere qui con il corpo e là con il cuore.

Io, da ascoltatrice, avverto questa dicotomia e non riesco a capirla all’inizio: sarà il traduttore? Sarà il viavai di gente continuo? Sarà che sono lontana?

Ma quando si entra nel vivo, quando inizia a parlare del suo libro, “Il museo dell’innocenza”, ecco che i nostri fili si allacciano e io sono pronta a farmi trascinare in questo viaggio verso la Turchia. 

«Il museo è vero» dice. 

E io non capisco.

Mi ci vuole davvero molto tempo -molte parole- per arrivare alla comprensione di questo duplice progetto, studiato per anni e finito di realizzare solo quindici mesi fa.

“Il museo dell’innocenza” è un libro che parla di un uomo innamorato. E di tutto ciò che ruota intorno all’amore. O Amore. Quindi felicità, rabbia, frustrazione. Il protagonista, Kemal, nel corso del romanzo raccoglierà gli oggetti che per lui rappresentano questa passione -osteggiata- verso la donna amata. 

Ma mentre scriveva, Pamuk non aveva in mente solo il romanzo: davanti a lui c’era la voglia di creare un luogo fisico per questo suo personaggio: un museo, appunto.

Il viaggio è duplice, allora: c’è “Il museo” romanzo e il museo reale, che contiene gli oggetti raccolti da Kamal: entrando dentro il museo entri dentro il romanzo e viceversa. Ma sono i sensi coinvolti ad essere differenti. Resta il fatto che questi oggetti incarnino una storia, la raccontino.

 Il romanzo sconfina nella realtà: Kemal chiede al suo amico Pamuk di creare per lui il museo. E Pamuk esegue gli ordini del suo personaggio. Non solo. Crea un catalogo museale, “L’innocenza degli oggetti”, che è di per sé strutturato come un romanzo.

«I musei mi piacciono», afferma Pamuk. Ma troppo spesso, specie quelli orientali, sono una dichiarazione politica. Non sono solo una sede artistica, ma anche politica. Guardando un museo in Cina, ad esempio, non puoi che restare stupito dall’immensità, dalla floridezza, e finire per elogiare la Nazione.  Ma non premia l’individualità, non ti dice niente sul cinese.

Il suo progetto vuole fare questo, invece, premiare l’individualità. Perché se mai c’è un parallelo tra museo e arte della scrittura è che entrambi fanno vedere i dettagli minuti che compongono la vita. 

 

 

Ritornare lì con la mente è stato bellissimo oggi. Rivivermi. Ricordarmi che ci sono anche queste cose che hanno influenzato il Moonverso.

Cacchio se ho voglia di rileggere quel libro, ora…

 

 

 

 

 

 

 

Un baule pieno di gente

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Di questo pomeriggio avevo proprio bisogno, questa settimana. 

Dopo il tentativo fallito di staccare la spina con la superficialità, oggi ho trovato il mio modo. 

Che in effetti ci voleva poco, per capirlo, Moon… (ho letto in giro che parlare a se stesso in terza persona tende a calmare l’ansia). 

Un pomeriggio di solitudine. 

Che poi è capitato del tutto casualmente, visto che in realtà avevo un appuntamento con un amico che è stato candidato allo Strega per festeggiare. Ma l’amico si è bloccato con la schiena e, sebbene avessi una certa curiosità di sapere i dettagli, cosa ne pensava eccetera, è stato un bene (per me, ovvio, per lui no, affatto. Come ha detto lui, forse è il colpo dello Strega). 

E così ho tutto il tempo per fermarmi, oggi, riflettere senza ansia, ascoltando una compilation acustica (sono proprio stressata se preferisco questa roba agli Offspring) e scrivendo. 

Mi preoccupa ancora l’Amico Speciale. Sebbene ora pare che l’abbia presa bene, dopo svariati ripensamenti (Devo starti lontano per un po’. Ok. Voglio far parte della tua vita. Ok), in realtà ho l’impressione che mi stia tallonando per farmi cambiare idea. Anche se, ovvio, dice tutto il contrario. E quindi sono messaggi, telefonate, mi aspetta quando esco da lavoro per fumare una sigaretta, mi chiede di accompagnarlo a prendere l’auto nuova, mi offre caffè. Non che la cosa mi dispiaccia o mi dia fastidio, solo che la vedo come sospetta. E quindi sto con le orecchie dritte. 

E poi c’è il famoso racconto che, sebbene abbia finito, devo correggere. E allora ieri ho mandato un messaggio: non lo voglio finire, scrivo. Ma è finito, risponde l’Amico Scrittore (che mi ha coinvolto nel progetto). 

Il fatto è che non trovo il significato in quello che sto facendo. Credo che il punto sia tutto lì. Non so dove voglio arrivare, con la scrittura, penso al mio amico candidato allo Strega con il suo romanzo (che non mi piace) e alle case editrici, e ai profitti, e alle mode, e poi penso che io voglio scrivere quello che mi pare, voglio che la scrittura abbia un senso nella mia vita, e non posso dargli un senso con i soldi, con le pubblicazioni, voglio che quello che scrivo abbia un senso per me. 

Voglio arrivare a conoscere la verità attraverso la mia penna, come diceva Norman Mailer (più o meno, eh, la citazione non è esatta). E non lo sto facendo. Non più. Oh, l’ho fatto. Eccome. E ho scoperto un sacco di cose di me, attraverso i miei racconti. Ma ora invece sto solo imitando me stessa. Sono la mia brutta copia. E lo leggo, è evidente. E mi infastidisco. 

Ed ecco perché mi sembra di aver fatto un compitino e non di aver scritto un racconto. E mi sono delusa. E forse sì, lo finirò, tenterò di dargli una forma corretta, ma non sarà per me, sarà per altro, per altri. 

È che la scrittura, come la voglio io, deve nascere da una parte che non ha a che fare solo con il cervello. Non può essere programmata. Non può essere piena di paletti. Nasce da una necessità. La mia, di scrivere. 

E questo credo sia il manifesto del mio fallimento come scrittrice. 

Ma nonostante la parola fallimento abbia una connotazione negativa, non gliela do, in questo caso. 

Il fatto che sia una scrittrice fallita non significa che magari abbia scritto, in passato,  o che scriverò, in futuro,  qualcosa di bello. 

Magari quando sarò morta Little Boss troverà Un baule pieno di gente

Volevo essere breve. Cazzo

post 59

E mi piacerebbe che poteste sentire questa canzone mentre leggete, ma non so come funzionano davvero i video qui, su WordPress.

Mica perché sia una bellissima canzone, anche se devo dire che Spoty l’ha trovata per me e quindi va da sé che mi piace, solo che scrivo queste parole con queste note in loop, perché se una canzone mi piace faccio così e la ascolto in loop, perché se una canzone mi piace significa che mi fa stare bene(o male, fa lo stesso) e io voglio sentirmi in quel modo il più a lungo possibile. Voglio sentire, provare, toccare tutto quello che mi fa sentire viva.

E stasera sto (stranamente) bene con me stessa, cavolo quando sto bene, mi guardo allo specchio e mi piacciono quelle linee viola sotto gli occhi, il pallore da enfisema, lo zeroseno sotto la maglietta, i capelli bianchi, pure quelli (prima o poi ci vado dal parrucchiere a sfruttare il buono che mi hanno regalato i colleghi). E mi piace il mio sorriso.

Perché sto bene? Sarà questa canzone? Santeria?

O sarà il cielo nuvoloso? Il turno doppio? Il mio ex che si incazza perché ho deciso di non mandare a scuola Little Boss lunedì per poter stare un po’ di tempo con mio padre? L’ospedale che chiama per dirmi che sì, c’è bisogno di fare due parole, ma non puoi dirmelo ora? No, non si può, la privacy eccetera , devi aspettare giovedì. Sarà TDL che non mi chiama per il nostro famoso incontro?( Ma mi manda messaggi per cose inutili, cose che sa già, diamine, gatto e topo!) Ormai sarà la prossima settimana, mancano due giorni a lunedì, il lunedì che dà il via alla settimana prossima, e lui nulla, non fa quello che ha detto, non mi fa sapere, cosa che mi aspettavo, certo, lui si fa da parte, è un gentleman, dirà così, cavolo, I Known my Chickens, li conosco bene. Che poi è solo un modo per prendere tempo, crede che io sia una stupida? Lui non sa che io so. Ma sì, va bene così, il punto che voglio metterci alla fine lo metterà lui in questo modo vigliacco, ma conta il fine, giusto?

E pensavo a una cosa, questa cosa della Sfera e del Cubo, Vittorio mi hai fatto pensare, maldetto dramma quotidiano, il mio pensiero, amico-nemico della mia vita, che poi penso davvero a caso, a volte, confondo la realtà con i sogni, non i sogni ad occhi aperti, proprio quelli che si fanno la notte, e ieri ho sognato di nuovo di nuovo di nuovo TDL, che mi incrociava e non mi guardava, non mi riconosceva nemmeno, che poi so perché l’ho sognato, il mio subconoscio mi sta mandando dei segni belli grossi di recente, potrei ignorarli e fare di testa mia, ma alla fine ci faccio i conti.

Divago. Come sempre. Pessima questa mia abitudine di perdere il segno, di smarrirmi e dover ricominciare da capo.

Pensavo alla Sfera e al Cubo, dicevo. Sì, ok, sono la Sfera: sempre in movimento e sempre la stessa faccia, la mia natura è rotolare via, ma non da tutto. Per molte cose sono un Cubo stabile: lo sono per il lavoro (mi serve, devo essere meno rotolosa possibile), lo sono per Little Boss (cerco comunque di essere una buona madre, di darle degli esempi discreti, non buoni, magari, ma io ho ceduto alla dura realtà dell’imperfezione e mi preme che impari questo, che impari a non pretendere la perfezione da se stessa, questo le salverà il coca button – tradotto: culo-), lo sono per… basta. Ho finito. Per il resto resto una Sfera.

Ed ecco, se c’è una cosa che mi piace di questo posto è questo: l’interazione. È come essere in un posto dove vuoi stare e parlare con chi vuoi parlare. Sono sincera: non credevo funzionasse così. Credevo che avrei scritto e basta. Libera il Censore, Moon. Ma qui le persone leggono. Non tutti, ma chissefrega, molte leggono davvero quello che scrivo. Il che per me è sorprendente. E io leggo. Leggo tanto. E assolutamente leggo. Nel senso che non metto mai un tic a niente che io non abbia effettivamente letto. Preciso perché qualcuno, giustamente, a volte polemizza su questo. Ma io leggo tutto quello che tocco con il mouse. Poi magari non ho un cazzo da dire e meno sto zitta, ma leggo (Sembra quasi un’intimidazione…scusate). Leggo perché quello che mi interessa siete voi, mi interessa il Dentro della gente, mi interessa capire e qui a volte, se stai attento, certo, se  stai attento lo vedi, un po’ di Dentro. Lo vedi anche fuori, certo, ma ti ci vuole più sbatti sbatti. Serve Tempo. Serve fiducia. Cose che non sono facili da ottenere.

Volevo essere breve.

Cazzo.

ps: i tag di questo articolo sono davvero a caso: perdono?

Domanda ancora non risolta

post 36

Ieri sera era qui a cena da me l’Amico Speciale. Io e lui abbiamo visioni molto diverse della vita. Lui non capisce perché io adoro complicarmi la vita e io non capisco come lui possa vivere senza pensare al futuro. Lui non capisce la passione che io nutro nei confronti dell’umanità e io non capisco come lui possa ridurla a una semplice specie animale. Insomma, sebbene ogni tanto ci capiti di discutere su argomenti vari che poi portiamo in fondo costruendo dialoghi sui massimi sistemi, l’Amico Speciale ha un sistema di frenata tutto suo. A un certo punto smette di parlare, mi guarda e, anche interrompendo il discorso a metà mi dice: ah, è tutto degradato.

È come se avesse un limite temporale alle conversazioni. 

La cosa delude la Moon polemica, certo, ma è anche vero che è l’unico sistema per non impelagarsi in discussioni del tutto inutili, visto che abbiamo già stabilito che su tanti punti non siamo d’accordo. L’Amico speciale riesce sempre a tamponarmi. E riesce anche a farmi stare bene in una serata autodichiarata di Sesso Senza Pretese, a volte mi chiedo se sia una questione di ormoni o altro. Resta il fatto che ho dormito come un agnellino e stamani mi sono svegliata rilassata, sebbene martoriata dal raffreddore, e ho ripensato con calma alla storia del premio letterario. 

Non saranno certo tre mesi passati a fare una fatica inutile a cambiarti la vita, aveva detto ieri sera l’AS, chissà quante volte lo hai già fatto. Logica incontrovertibile. E così mi ero iscritta. Ma si sa, la notte porta consiglio… ovvero: risveglia il neurone solitario. 

Non si possono fare le cose a caso. 

Nemmeno io posso fare questa cosa a caso, io che di cose a caso ne faccio talmente tante che sono certa di sentirne anche l’odore, ormai. 

Quindi, come direbbe la Bandabardò: stoppa tutto, stoppa tutto, stoppa tutto. 

Farò le cose a modo mio, tornerò a pensare alle riviste e ai racconti, affinerò lo stile, cercherò personaggi, insomma, le solite cose. 

Solo che per fare le solite cose, devo cercare di passare meno tempo possibile a struggermi per la Testa di Legno (preferisco chiamarlo così, ultimamente mi fa proprio arrabbiare la sua ottusità, il suo passarmi accanto facendo un piccolo inchino con la mano sul cuore per poi vederlo fare il cascamorto con la mia collega, come se fossimo interscambiabili: una cameriera vale l’altra). Quindi ho deciso di mettere in pratica la teoria dell’Evitamento. Che è molto semplice: eviterò di servirlo, eviterò di parlarci, eviterò di scrivergli, eviterò di rispondergli. Così non dovrò subire gli stravolgimenti del mio corpo che avvengono ogni volta che lo vedo: mani e gambe che tremano, respiro affannato, cervello in errore. Che poi per riprendermi ci vuole del tempo che io non voglio dedicargli. 

Sono abbastanza scafata nel mio lavoro da sapere come evitarlo. 

Inizio oggi. 

Sono decisa. 

Forza, Moon, pensa alle tue storie e vedi se riesci a combinare qualcosa. 

Tutta questa carica quanto durerà? 

Domanda ancora non risolta. 

Qualche santo aiuterà

post 33

 

Ed eccomi finalmente qui, di nuovo, a cercare di parlare dell’Evento.

Solo una pazza Moon come me poteva farsi tre ore di viaggio A/R dopo X ore di lavoro per andare a sentire due o tre persone che consigliano agli scrittori perdenti come me cosa fare per essere un po’ meno perdenti. Aperitivo con gli amici? Naaa. Un cinemino rilassante? Figurati. Una bella Fiera delle riviste e della piccola editoria? Wow!

E così ho chiamato il Mentore e me lo sono trascinato dietro, che il Mentore per queste cose è il compagno ideale perché è l’unica persona che conosco(nel senso, che non sia già morto, come la Woolf o Carver) con la quale posso parlare di scrittura senza difficoltà: ci capiamo al volo su quell’aspetto. Anche perché tante cose me le ha insegnate lui, quindi…

Arriviamo a Firenze in orario, ci sediamo ad ascoltare un Tizio di una Piccola Casa Editrice molto in gamba, simpatico pure, un oratore, diciamocelo, si sente quando qualcuno è abituato a parlare oltre che a scrivere. La domanda è: cosa deve fare un esordiente per farsi notare e pubblicare?

La verità è che sono anni che penso a questa cosa, a pubblicare. E passo dei momenti in cui mi dico: se scrivi qualcuno dovrà leggere, no? E altri in cui: ma che mi importa, a me interessa solo scrivere bene, migliorare, andare avanti. Insomma, la storia del Viaggio. Ma forse me le racconto per non deludermi… 

In ogni caso il Tizio della PCA è stato molto chiaro: è come se si fosse rivolto solo a me, dicendo: Moon, cara, quello che hai fatto finora va benino, certo, ma se non ci metti un po’ di impegno resterai sempre lì dove sei, ferma ( su questo mi sono sentita punta per tanti motivi, visto che sono bravissima a stare ferma, io). Quello che devi fare, Moon, è dare i tuoi racconti alle riviste (ok, fatto!), ma non una sola (ok…), a tante, e diverse. (ok…). Quando hai pubblicato cinquanta racconti sulle riviste (cinquanta???) allora forse hai una chance di essere notata. 

Benissimo. Mi sa che sono di scrittura lenta, allora, perché io non ho cinquanta racconti di qualità da dare alle riviste. Ho solo milioni di parole scritte di getto, storie che non si concludono, robetta da perdenti. E quel che è peggio è che il Censore lavora instancabilmente da due anni, tagliando storie e idee. 

A volte ho la terribile sensazione che non uscirò mai da questa impasse: voler scrivere e non essere capace di farlo. 

Ma Eventi come quello a cui ho assistito mi ridanno la carica. È come se avessi bisogno che qualcuno o qualcosa giri la mia chiavetta sulle spalle. Il Tizio della PCA lo ha fatto. E lo ha fatto anche il Ragazzo della Rivista 1 che ho sentito alla conferenza successiva, e che sono stata felice di conoscere dal vero, dato che avevamo collaborato tramite mail per un mio racconto. 

Ecco, diciamo che tutti loro, l’Evento in sé, mi ha dato Speranza. Qualcosa del tipo: non sarà facile, ma non è impossibile come credi. E allora ok, diamoci alla pazza gioia, programmiamo sessioni di scrittura giornaliere, come ai vecchi tempi, e mettiamoci a lavoro. 

Come dice sempre l’Amico Speciale: qualche santo aiuterà.