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Moonlight

Moon?

Moon? 

Ci sei? 

Terra chiama Moon. 

L’ultimo post di questo blog assurdo e ballerino è datato, sul mio Mac, 26 febbraio. Poi ho fatto una pausa obbligatoria per mancanza di tempo da trasloco. E la pausa obbligatoria si è allungata fino a che è diventata voluta. Chi ha letto qualche mio post, quei 4 cats, sa come la penso sulla scrittura: io scrivo per pensare, per capire il mondo che mi circonda, scrivo per farmene una ragione, a volte, o per dimenticare, come nel caso di TDL. E quando la vita ti travolge ti resta poco tempo per dire la tua, già è manna se non affoghi. E allora ho disattivato le notifiche di WP sul telefono (perdonatemi se ho smesso di leggervi), ho staccato la spina, aspettavo di poter tornare a respirare, di rendermi conto del tempo che passa o delle cose che mi circondano. Ma più il tempo passava e più faticavo a respirare: c’era sempre qualcosa di più importante da fare, fosse anche guardare una puntata di Orange is the new black. La scrittura non mi sembrava più necessaria, quasi come se nel mio cervello avessi già elaborato tutto l’elaborabile, come se avessi rinunciato.  

La rassegnazione è solo l’altra faccia della depressione.

Ho smesso di cercare.

Ho smesso di piangere. 

Ma ho anche smesso di ridere. 

Non ho le mezze misure, io.

E quindi, direte voi, adesso qualcosa nel tuo cervello è scattato. Se sei qui! Giusto?

Vero a metà.

È il mio corpo ad essere scattato. Ha iniziato a cantare la canzone di Sordi, la ricordate: ma ’ndo a vai se la banana non ce l’hai? Beh, avrò anche la banana, ogni tanto, ma ciò non mi ha impedito di essere impedita. Con voi, qui sul blog, ho festeggiato i 40 anni. Ora sto per compierne 43 e mi sento una novantenne. 

Quindi brusca frenata, qualche frignatina deprimente (OHMYGOD! Non riuscirò più a lavorareeee!! Come sopravvivrò? Come manderò Little Boss all’università?), qualche cero acceso a Montenero, ore e ore perse a leggere pessimi consigli su pessimi siti scritti in pessimo italiano, sedute da osteopati, fisioterapisti, centinaia di euro spesi per non risolvere nulla. 

Qualcuno poi mi consiglia di cambiare stile di vita. 

Sì, ok, ma che vor di’?

Cambia alimentazione, fa il Qualcuno.

Ok. visto quanto me ne frega di mangiare posso anche farlo. Come la cambio? 

Diventa vegana, fa il Qualcuno.

Vegana? Seriously?

Esatto. Ma non solo! Dovresti iniziare a fare anche yoga.

Yoga??? Sì, e poi mi faccio buddista, ahaha. Ah. Ah. 

Ma non solo: dovresti praticare anche Mindfullness. Sai cos’è? 

Beh. In effetti sì, so cosa è. Ho un libro sulla Mindfullness da tipo, che saranno? Dieci anni? mai aperto. Però in effetti mi era già stato consigliato da uno specialista… (vedete, già qui inizio a prendere seriamente il Qualcuno).

Ok, rispondo, ci penserò. Ed ero seriamente convinta che non ci avrei più pensato. E invece.

Invece.

I dolori giornalieri e senza soluzione di continuità mi ci hanno fatto pensare. Eccome. 

E provo a chiudere il cerchio: perché sono tornata qui? 

Perché, come con TDL, ricordate, 365 giorni all’alba della non sofferenza, ho bisogno di questo blog. Ecco che la scrittura si fa necessaria.

La domanda è: perché non te le tieni per te, Moon, queste minchiate (scusate il turpiloquio, ma sono appena stata in Sicilia e con alcune parole, tipo Suca e Futtitinni, soprattutto Futtitinni, rientro nello spirito vacanziero), perché non scrivi per te?

Ho tante risposte a questa domanda. Quella che voglio lasciare qui è una sola: perché è divertente. E poi, dai, su, lo sapete… lo sapete, no? 

Ps. Orange is the new black non l’ho finito. Niente spoiler, grazie….

Togliendo mattoncini dal muro

Mi sono appena sparata un mese di silenzio stampa non voluto. 

E soprattutto senza un vero perché.

Ci sono momenti della vita in cui ti rendi conto che scrivere non è ciò che ti occorre, che va messa un po’ di distanza tra te e il tuo cervello. E io questo ho fatto, ho messo un quotidiano muro fatto di nulla, ma non per questo meno arduo da scalare. Adesso arrampicarmici o, ancora peggio, cercare di distruggerlo, mi fa un po’ paura: potrebbe voler riversare tutto il contenuto che esiste al di là in una soluzione unica e, ipoteticamente, affogarmi. 

Quindi scrivo lentamente, soppesando le parole, giusto per non fare mosse sbagliate.

Sono rientrata a lavoro giusto in tempo per capire che un mese e mezzo ferma non fa per me. L’ultima settimana di ferie l’ho vissuta come un secondo e personale lockdown, nonostante avessi qualcosina da fare, più che altro le solite beghe burocratiche che altri si erano offerti di fare al posto mio, ma che alla fine se non te le fai da sola col cavolo. Quindi sì, viva il lavoro, anche se valutare me stessa così, come una tossicodipendente, non è che proprio mi faccia impazzire. In ogni caso i miei due coinquilini, l’Amico Speciale e Little Boss, hanno capito l’antifona: ho passato l’estate a dir loro che sì, sono nullafacente ora, approfittatene finché potete, che quando rientro a lavoro avrò meno tempo, tornerò a casa tardi e le lavatrici non si fanno da sé, la cena non è una magia che si materializza sulla tavola alle otto. E così l’altro giorno sono tornata e l’A.S. stava cucinando, mentre Little piegava il bucato e metteva a posto i piatti dalla lavastoviglie. La vera magia è questa. Alla fine la mia è una famiglia un po’ storta, ma è comunque bellissima. 

Nonostante tutti i buoni propositi e i programmi che avevo fatto per le ferie, alla fine non ho concluso nulla: il mio romanzo è sempre dentro alla carta, il mio spagnolo è sempre basico (per non dire inesistente) e via dicendo. L’unica cosa che ho ingigantito nel mese di agosto è stata la conoscenza del True crime, ma non credo possa servirmi a un granché, fatta eccezione di qualche conversazione con gli amici, anche se non so quanto sia bello esordire così durante una cena: ma lo sapete che nel 19… (che le date non le ricordo mai), in Australia hanno pescato uno squalo tigre che aveva mangiato uno squalo più piccolo che aveva mangiato a sua volta un braccio umano? E che questo primo squalo una volta messo dentro un acquario ha vomitato il tutto davanti ai clienti paganti? 

Non so. Ho l’impressione che non sia argomento da cena. 

Vabbè. In ogni caso l’universo ancora mi sta indicando la strada della scrittura, lancia segnali. Dopo l’eventuale (perché siamo fermi lì, ancora non ho notizie nuove) pubblicazione del mio racconto in un’antologia scolastica, arrivo in finale a un concorso letterario. Tutti a fare wow, ma in realtà sono tra i 35 di 100, insomma, non è un granché. Anche se il primo premio sono soldi, quindi… Non conto di arrivare sul podio, ma andrò lo stesso alla premiazione (mi regalano una copia dell’antologia e avrò un drink gratis). E poi l’altro giorno in edicola ho trovato una collana della Holden, un corso di scrittura cartaceo che mi sto accaparrando settimana dopo settimana. Anche questo un segnale. 

E se i segnali mi indicano da una parte, io in realtà sto ancora cercando di fare il primo passo, ma la lentezza mi caratterizza. Intanto la vita prosegue, alti e bassi.

 E io un mattoncino, da quel muro, l’ho tolto.

Dalla Sardegna con furore

Spiagge…
…e sassi

E le vacanze in Sardegna sono giunte al termine… 

Cose che ho imparato della Sardegna:

  1. Nell’entroterra non c’è NIENTE. Nulla. Il puro assoluto deserto. Non una casa, una capanna, un fienile, un recinto o altro che possa far presumere la presenza dell’uomo, fatta eccezione della strada asfaltata, da cui si presume che l’uomo, almeno una volta lì ci sarà stato. Per chilometri e chilometri. Manco una macchina nel senso opposto. E infatti le strade sono belle, poche buche. Non ci passa nessuno. 
  2. Lo sport nazionale è il tiro al cartello. Stradale. Se escludiamo la 4 corsie, non c’è un cartello stradale senza il segno di una fucilata o crivellato da proiettili. 
  3. I sardi sono gentilissimi e disponibilissimi. Altro che persone chiuse e taciturne! Se non avessimo avuto la scusa del traghetto, eravamo sempre lì a bere Ichnusa…
  4. Non ci son o spiagge brutte in Sardegna? Ni. Siamo stati sfortunati, va detto. Su 9 giorni, 8 ha tirato un maestrale che lanciava frustate di sabbia tali che pensavo di tornare senza pelle. Quindi poco mare. E siccome era mosso, qualche spiaggia sommersa dalle alghe l’abbiamo trovata. Nonostante tutto la spiaggia in questione era affollatissima. Quindi…mah. Ma abbiamo avuto poco tempo per esplorare. L’acqua comunque è imparagonabile alla nostra. Cristallina nonostante il mare mosso. Non si può fumare in molte spiagge. Bene! Diranno i più. Male per una tabagista, ma comunque la cosa non ha pesato neanche a me. 
  5. Noi toscani siamo abituati male. Dietro ogni angolo da noi c’è un pezzo di storia. In Sardegna la storia è solo quella dei vari nuraghe. Molto belli, antichissimi e misteriosi. Ma Little mi ha detto dopo il terzo: ancora sassi? Come darle torto? Voleva fare il mare! 
  6. Pecorino, malloreddus, pane carasau, guttiau, culurgiones, seadas… Cercando, in Sardegna si mangia e si beve benissimo. Basta allontanarsi dai posti troppo turistici. 
  7. Gli accenti. Nulla, non ne azzeccavo uno. Nomi di città/paesi. Sonorbi: dove metteresti l’accento? Sinòrbi? Sìnorbi? E invece è Sinorbì! Siniscola? Sinìscola? E invece è Sinoscòla. Me la cavavo solo con i nomi bisillabici, come Bono. Gli ultimi giorni ho preso la decisione di nominare un pese con tutti gli accenti possibili. Della serie, uno sarà! E quindi: Bàrrali, Barràli e Barralì. Tiè! In realtà un ragazzo mi ha dato una dritta mentre mi indicava un posto (di cui io ho, ovviamente, sbagliato l’accento). Devi fare così, ha detto, se pensi che un accento vada da una parte, tu lo metti da un’altra. È controintuitivo. E se lo dicono loro…

Ho imparato anche un sacco di cose su di me, in questa vacanza. Ma me le tengo per la prossima volta, io e l’Amico Speciale andiamo al mare (ormai l’ho intossicato) a dispiacerci per i nostri lidi e a rimpiangere quelli sardi, di cui così poco abbiamo visto. 

Posso comunque anticipare che mi sono portata via l’Anima Sarda

Del mio romanzo e altre quisquilie e pinzillacchere

Sono di nuovo circondata dai mei quaderni, pagine e pagine del manoscritto che, ho promesso, devo almeno tentare di sistemare. Per ora ho solo concluso che non avevo concluso, mi mancano dei pezzi, degli anelli di congiunzione, non è una trascrizione, ma un montaggio, una cosa che non ha bisogno di creatività, ma di testa. 

Ci sono cose, poi, che mi spingono in quella direzione: il tempo ritrovato, una scommessa fatta, una telefonata. La telefonata è arrivata due giorni fa, una rivista sulla quale avevo pubblicato un racconto ha ricevuto una mail dalla Zanichelli che chiedeva di poter pubblicare un mio racconto su un’antologia per ragazzi delle superiori. Accidenti, mi sono detta, la Zanichelli, mica fichi! Sarò odiata da centinaia di adolescenti? 

Sacchi?(qui si vede il mio essere Generazione X) Venga alla cattedra, che la interrogo. Cosa mi sa dire del racconto assegnato, quello di Moon?

Ma io… non l’ho letto…

Sacchi? Tre!

E Sacchi, una volta tornato a casa, strapperà la pagina e brucerà il racconto, mentre lancia vari anatemi.

Certo, la cosa mi rende orgogliosa, gli anatemi non sono per tutti, ma mi chiedo più che altro il perché. Cioè, questi curatori perché hanno scelto il racconto di una sconosciuta? La prima cosa che penso è perché sanno che non pagheranno nulla per pubblicarlo. Ma in generale le antologie non pagano il diritto d’autore perché è per fini di insegnamento (se ho capito bene quello che ho letto). Perché scegliere me? Insomma, quanti racconti ci saranno, mi chiedo, sul web? Come sono arrivati al mio? La rivista in questione non è mica così famosa. 

Vabbè, mi sa che non avrò mai risposte a queste domande. So solo che a volte accadono cose che sembrano indicarti, con una mega freccia gialla, la direzione da prendere. Di nuovo, l’Universo mi sta dicendo qualcosa, e io devo dargli retta. 

Così il mio progetto rilanciato assume un significato diverso, non stai solo impegnando il tuo tempo libero, ma stai andando nella tua direzione. Peccato avere questa bassa autostima, mi dico a volte; peccato, invece, avere una grande consapevolezza, mi dico alte volte. Il fatto è che io so quando canno a scrivere, quando un brano funziona e quando no, quando le pagine sono buone oppure sono solo un riempitivo e finora, rileggendo, sono molte le pagine-riempitivo. Alla fine di ogni brano di questo tipo ho annotato anche: più o meno è così, oppure, questo va rivisto. Questo lavoro è di sicuro solo agli inizi. 

E allora la domanda, quella vera che dovrei farmi è: quanto ci credi in questa cosa? Quanta paura hai di fallire, di non essere all’altezza delle tue aspettative? Perché diciamocelo, questo romanzo non riuscirà mai ad essere come tu lo vuoi. Non sarà mai all’altezza delle tue aspettative. Non si avvicinerà neanche al progetto che conservi nella tua testa. Nonostante questa consapevolezza, quanto ancora puoi crederci?

Ho sempre teorizzato che per fare lo scrittore fosse necessaria una grande egosfera. Io non riesco a tenermici dentro. Quando arriva una telefonata come quella di due giorni fa allora sì, entro nella egosfera, salvo poi uscire di nuovo poche ore dopo (più o meno quando ho finito di diffondere la notizia), tanto che ieri sera, che ero a cena da mia madre con mia sorella, lei mi fa: io non gli ho detto nulla, a tua sorella, aspettavo che lo facessi tu. Era così eccitata. Io ci ho pensato un secondo, non riuscivo a capire di cosa diavolo stesse parlando. E infatti ho chiesto: cosa devo dire?

Avevo già dimenticato. Pessima Moon…

Comunque ok, ho un mese di tempo per dare una forma digitale al manoscritto. Il passo successivo seguirà il progetto originale, trovare un editor e poi inviarlo al Calvino l’anno prossimo. 

Ale me lo dice sempre che nelle mie cose sono lunga. 

Ha ragione lei, dopotutto. 

Santa Incapacità di Godersi la Vita!

Visto il titolo, un santuario come foto ci stava bene…

Dopo un po’ di assenza non programmata, ma probabilmente dovuta al caldo che mi ha fatto sudare ed evaporare anche il cervello, torno qui nel mio primo effettivo giorno di vacanza. Una vacanza (non ferie) molto lunga. Dovrò attendere il quattro settembre per lavorare ancora. 

Di che ti lamenti, Moon?, direte. Lo dico anche io: di che mi lamento? Non lo so, ecco la verità. 

Prima non avevo tempo mai, lavoro 6 su 7, ferie centellinate e rubate un giorno qui e uno là (ho maturato, prima di andare via dal Vecchio lavoro, ben 450 ore di ferie che non ho mai fatto… fate voi), lo stress di un dramma dietro l’altro. Oltretutto scopro che nel Vecchio Lavoro, al Ristorante, i drammi continuano anche in mia assenza e il pizzaiolo, qualche sera fa, nel pieno del servizio, con 50 persone ad attendere sedute al tavolo, si è tolto il grembiule e se ne è andato. Ascoltando queste notizie mi scappa un fiuuu, l’ho scampata bella.

Adesso le musica è diversa, il mio Nuovo Capo se va a fasi un giro nel weekend mi porta un souvenir (di solito cibo), se alzo un peso mi dice: ci penso io, non stressarti, mi fa continui complimenti davanti ai clienti, mi paga il secondo giorno del mese. Ho tanto tempo per me, nel weekend vado al mare, ho tempo per fare pranzi con gli amici in piscina, per consolare un amico che si è appena separato, per fare cene con mia madre e mia sorella che è appena tornata da un viaggio in America, ho tempo per andare in Sardegna in vacanza, per godermi una serie tv con Little Boss, per scrivere il mio romanzo, per leggere tutto quello che voglio e che sta lì a prendere polvere sul comodino da mesi. Vabbè, magari salto Pif, comprato a seguito di un impulso non identificato del Terzo Tipo. 

E quindi torno a bomba: di che ti lamenti, Moon? 

Sono settimane che ci penso. Con Ale abbiamo concluso che il problema potrebbe essere la mancanza di beghe da risolvere. Nel senso. Abituata da sempre ad avere problemi fin dall’adolescenza, adesso che effettivamente non ce ne sono, sono spiazzata. O meglio: sono in modalità Attesa della Nuova Mazzata. Oh, Santa Incapacità di Godersi la Vita! 

Quindi no, in realtà non mi lamento, ma sono talmente esterrefatta che sono incapace di godermela. Oppure ho talmente tanti benefits che non so cosa farmene, non sono capace di gestirli.  

Così ho fatto dei piani, ho programmato, cosa che come sempre mi fa stare meglio. Ho programmato il lavoro durante le mie vacanze. Ordinare la casa, scrivere (davvero) il romanzo, fare qualche passeggiata, studiare lo spagnolo, studiare marketing. Mi rivolgo con fiducia alla mia costanza, elemento sfuggente del mio carattere. 

In ogni caso, per essere sicura, mi sono anche offerta di lavorare gratis al circolo di paese, facendo indubbiamente la figura della disperata. L’A.S. ha aggiunto che oltre al mio lavoro gratuito, avrebbe potuto anche dar loro un indennizzo economico. Chissà cosa avrà voluto dire…

E ora inauguro questo primo giorno andando ad ammollare le mie membra nell’acqua salata, sperando che l’A.S., che si è appena alzato, si decida ad andare a farsi la barba e a uscire con me. 

Nota: queste riflessioni sono scaturite in parte da quello che ha scritto Gintoki nel suo ultimo articolo, cioè l’incapacità di godersi le cose perché ne abbiamo ormai in abbondanza. 

Czarne Lusterko

Date un’occhiata…

Ormai relego la scrittura di questo blog solo al sabato mattina e neanche sempre. Ieri ne parlavo con la mia Psi, lei mi dice che ho sempre usato la scrittura in modo catartico (non è un segreto, qui) e quindi, ora che sono in equilibrio, non ne ho più bisogno. Un po’ questa cosa mi rende triste. Non sentire la necessità di sciogliere le dita sulla tastiera. Che poi se mi ci metto, tipo ora, non è che non scrivo, come si vede. 

In ogni caso c’è una buona notizia: sto bene. No, non è che mi ci volesse la Psi per saperlo (in realtà mi ci sono volute cinque paginette scritte a mano, come sempre), ma sono felice di aver concluso anche questa cosa. Ora sto in piedi con le mie gambette, senza stampelle. 

La vita mi si srotola più o meno in modo lineare, senza alti o bassi particolari, impegno le mie giornate lavorando, seguendo gli altri impegni, come andare a trovare mio padre all’Rsa o fare la spesa, e i miei weekend socializzando, andando a teatro o alle feste. Insomma per la prima volta (dice la mia Psi) sto vivendo la mia vita. Wow.

E infatti invece di essere concentrata sulla mia vita, sono spesso concentrata su altre cose: ascolto podcast, come ho detto, leggo giornali, spippolo spesso per cercare cose. E dopo aver visto in tempo record la nuova stagione di Black Mirror (che da una parte mi è piaciuta, ma dall’altra sta iniziando un po’ a deludermi)spippola spippola ho trovato una specie di spin off polacco, dal titolo Czarne Lusterko. Tradotto significa Piccolo schermo nero, ovvero Little Balck Mirror. È una serie prodotta dal Netflix polacco e non c’è sulla piattaforma italiana. Però esiste invece su YouTube, in lingua originale con sottotitoli. Sono quattro episodi brevi, uno addirittura di soli 8 minuti e ricalcano il tema principale di B.M., il rapporto uomo- tecnologia. 

Devo dire che mi ci sono approcciata in modo cauto (della serie: è polacco, chissà com’è, maledetto razzismo televisivo!) e mi ha sorpreso. Si passa da Separazione, la storia di due youtuber che affronta il tema della popolarità sui social, a 1%, che3 parla della bioetica. C’è poi il cortissimo 69.90, tema: solitudine. Infine il mio preferito, Calcolo della felicità. Questo episodio parla di un’app che un fidanzato frustrato si fa impiantare. Questo marchingegno analizza il soggetto in questione (la fidanzata) e dà suggerimenti sulle cose da dire o fare per renderla felice. Ottimo no? Ho trovato l’inizio molto molto istruttivo (per me): lui si dimentica di un impegno nel weekend, lei se la piglia (non mi ascolti mai o peggio: non mi capisci), lui per farsi perdonare il giorno dopo torna a casa e pulisce tutto l’appartamento per lei, lei torna a casa, manco ci fa caso e si precipita in camera a prepararsi per una cena di lavoro o qualcosa di simile (che lui, di nuovo, ha dimenticato), dopo poco scende inviperita perché non trova un orecchino (si vede che era un orecchino importante) e si capisce che forse lo aspirato lui mentre puliva ( e poi lo ha buttato via insieme al resto), lei si incazza di nuovo (era meglio se non facevi nulla!). Ecco, questa dinamica iniziale, che spingerà poi il tizio a farsi installare l’app, è decisamente riconoscibile, seppur ovviamente esagerata. Siamo fatti così, come direbbero i nostri amici francesi. Mi ricollego dunque, di nuovo, alla Moon querelle per dire: non c’è modo di renderci felici a vicenda senza compromessi. Direi che, grazie a questo corto polacco, mi sono risposta. E sono felice di aver compiuto anche questo. In ogni caso vi consiglio questa miniserie, in tutto vi impegna un’oretta scarsa. Buona visione e buon weekend. Io costringo l’Amico Speciale a andare al mare, giusto per fare compromessi! 

Buddismo

Web

Le settimane qui a Moon city a volte si fanno impegnative, soprattutto perché ci voglio sempre infilare un sacco di cose. E poi ci sono stati i 50 anni dell’Amico Speciale e Ale che è tornata dal Paese dei Folletti per una settimana scarsa. 

Tutto però procede secondo i piani, alti e bassi a parte. 

Parlavo l’ultima volta di discussioni interiori. 

L’altra che mi sta alle costole è quella che riguarda il Buddismo, una cosa che sto scoprendo con mooolta lentezza, una cosa tipicamente mia, direbbe Ale, che mi dice che per prendere le decisioni mi occorrono almeno due o tre anni (ma sono arrivata anche a cinque, n.d.r.)

Il mondo del Buddismo mi piace. Sono giusto ai primi passi, ho visto solo due incontri e praticamente ancora non so nulla, ma è quella sensazione che ho avuto stando lì a piacermi. Essere circondata da persone che non fanno dell’odio il motore della loro vita è molto bello. Ricordo ancora come era quando avevo il Vecchio Lavoro: Tizio si arrabbiava con Caio, Caio parlava male di Tizio e Sempronio alle loro spalle, Sempronio sbottava con Tizio e poi Tizio veniva da me a sparlare alle spalle di Sempronio. Ogni giorno. Non è un bel vivere. Di una tossicità allucinante. Eppure ne sono stata immersa per mesi, se non addirittura anni. 

Ora non ne ho più voglia. Voglio circondarmi di persone positive, stimolanti e soprattutto ascoltanti. E l’ambiente buddista è un suolo perfetto per far crescere persone così. 

Che poi il buddismo non è altro che meditazione, è una Mindfulness spirituale. Ma non ci sono dei, non c’è nulla al di fuori di se stessi, della propria consapevolezza. 

E quindi sì, ho provato la pratica, il daimoku, come si dice. E no, non ne ho ancora trovato un senso, ma come ho detto sono ai primi passi, non voglio mollare senza aver capito se questa cosa fa per me oppure no. 

Nel frattempo studio (poco alla volta, a piccoli sorsi) e mi apro al nuovo. Che significa anche e soprattutto nuove amicizie (ma anche vecchie amicizie riscoperte), cose diverse da fare. Non ho ancora preso un ritmo nella mia nuova vita, ma ci sto arrivando (lentamente). È un po’ come cambiare posizione dopo averne assunta una per tanto tempo: all’inizio può essere quasi doloroso, ma poi si capisce che la nuova posizione è più comoda. E siccome alle posizioni comode non ci sono abituata, mi ci vuole ancora un po’ di tempo. 

Seguono sviluppi…

(anche perché ora Little e la sua Inseparabile Amica si sono alzate e stanno starnazzando in cucina di storie di Instagram e strani giochi on line di cui non capisco nulla…)

Una Moon querelle

Foto dal web

In questi giorni sono stata impegnata in alcune discussioni interiori.

La miccia della prima mi è stata accesa da UAP, il nostro Allegro, che parlava della violenza sulle donne, un tema a me molto caro. Più che altro sentito. A volte mi vedo dall’esterno e mi sembra di essere come uno di quei canetti di piccola taglia, che siccome una volta le hanno prese, allora abbaiano sempre, a tutti e in modo isterico. Ok, sono un maledetto Chihuahua (credo sia la prima volta che scrivo questa parola). La sera, dopo aver letto l’articolo di UAP, l’Amico Speciale si è messo a guardare uno speciale sul mitico Arnold Shwarzenegger (altra prima volta che scrivo questa parola) e a un certo punto ne è venuta fuori una discussione: ho fatto il Chihuahua. A un certo punto della campagna elettorale di Shwarzy vengono fuori denunce di donne che, su alcuni set, pare che abbiano ricevuto molestie dal nostro Conan il barbaro: toccatine di culo, nulla di grave, un mero attacco politico in puro stile americano, saremo tutti d’accordo, ma da qui a dire: eh, che sarà mai! La via la vedo un po’ più lunga.  L’A.S. sosteneva l’Eh, che sarà mai!, io invece dicevo che no, sarà invece qualcosa, dobbiamo smettere di accettare questi atteggiamenti come normalie legittimi. Io non voglio che qualcuno a caso mi tocchi, figurati il culo. Non che non mi sia successo, poi. Credo che ogni donna, nella vita, abbia prima o poi ricevuto una toccatina, vuoi in discoteca da uno che passa, vuoi sull’autobus (come me), o in altri contesti ancora più gravi (posto di lavoro, per esempio). Come immaginerete ne è nata una discussione pseudo femminista, dove io sostenevo che l’uomo spesso non rispetta la donna (e lì poi il degenero, fino alle famose statistiche), mentre l’A.S. si sentiva attaccato ingiustamente e rispondeva: ma io ti rispetto!, e tutto il resto. 

Da questa serata è nata la prima discussione interiore: possibile che uomini e donne vadano il mondo in modo così differente? Cosa non sto afferrando? È solo una mera questione culturale oppure c’è di più

Sono tornata quindi al concetto Marte-Venere, un tema che avevo già affrontato anni fa e che, già al tempo, mi aveva poco convinto. Il nostro amico Gray ha scritto anche un sequel, Marte è di ghiaccio, Venere di fuoco, dove affronta la sua verità basandosi sulla ricerca scientifica sugli ormoni e ci propone non solo la sua versione dell’uomo Aggiustatutto e della donna Angelo del focolare, ma ce la spiega dal punto di vista ormonale, tirando in ballo testosterone e ossicitina. Che avrà anche ragione, eh, ma messa giù così…boh. 

Non contenta delle spiegazioni di Gray, mi butto sul web, incontrando un articolo sconclusionato su Rolling Stones, dove l’autore dice che se a 45 anni è ancora single è colpa dei selfie delle donne sui social. Lui dice che in 30 anni di ricerca della donna perfetta (ha cominciato presto, il ragazzo) ha incontrato molte donne e ne può fare una statistica. Afferma che il 74% delle donne dichiara che Frida Khalo è la sua artista preferita (?), che l’81% ha letto Volo, che il 95% ha visto Ozpetek, che il 99% ha un social e posta selfie ogni due giorni. Afferma altresì che il 98,8% non sappia chi sia Kubrick, Altman, Bansky, Kundera. O che sappia chi è Fedez, ma non i Pink Floyd. 

Ora. La mia domanda è questa. O sei uscito con una sola donna, oppure non te la sei fatta la domanda? Forse a te piacciono proprio quel tipo di donne?

Certo, l’articolo finisce un po’ in contraddizione con se stesso, lanciando un appello alle donne e dichiarando (testo trascritto): Le donne sono i nuovi uomini. E gli uomini le nuove donne. E allora, donne, siate uomini! Usate il vostro talento, mettete l’arte spazzatura nel cestino, cancellate i mediocri che affollano le librerie e i cinema che voi stesse avete creato, allontanatevi dalla percezione folle del vostro aspetto in base a quanti uomini riuscite ad attrarre grazie a un rossetto diverso. Guidateci nella politica, insegnateci l’onestà. Lasciateci liberare di nuovo il nostro talento nell’arte, travolti dall’ispirazione della vostra bellezza. Insegnateci di nuovo ad amare.

(Ma possibilmente lasciando stare la fotocamera del telefono).

Come immaginerete neanche questo testo mi ha soddisfatto. L’autore dell’articolo potrebbe essere me, un Chihuahua al maschile.

Poi ascolto, per caso, un podcast sui libri. Parla di un testo dal titolo Caro Stronzo, di una scrittrice francese. Affronta il tema maschi-femmine attraverso la letteratura. Non concludendo un cavolo, se non con l’affermazione che i ruoli e i modi di rapportarsi sono cambiati (e grazie al cavolo!).

Che conclusioni traggo, quindi?

Che non ci sono conclusioni. Ho girato in tondo per l’ennesima volta. Ci sono volte che forse non capire è la cosa migliore. Resta il fatto che le cose stanno cambiando, i rapporti sono mutati e dobbiamo forse prenderci ancora un po’ di confidenza, con questo nuovo modo. Io con l’A.S. intendo superarla così: ammetto la differenza, cerco di reprimere il Chihuahua, mi espongo all’intimità e mi butto all’indietro a occhi chiusi, certa che (per ora) lui sia lì dietro e non mi faccia cadere. 

(se avete notato il per ora: Roma non è stata fatta in un giorno, belli miei. Ho i miei tempi).

P.s.Non ho più spazio per la seconda discussione interiore. Che comunque è sempre in corso. Quindi ne rimando la dissertazione a un’altra volta. 

La carbonara, una non storia

La mia carbonara

Mi smentisco bel giro di poche ore e torno ancora a parlare di cibo.

Perché?, mi chiederete. Perché lo fai, Moon, disperata ragazza mia?  

Non so cosa mi sia preso di recente. Sarà il gusto di stare a casa sovente, sarà che questa estate tarda a decollare e ci regala parecchi pomeriggi piovosi, sarà che l’Amico Speciale è del tipo Toglietemi tutto, ma non il mio pasto, sarà che mi annoio, sarà che ciclicamente ci ricasco, nella voglia di cucinare, boh. Comunque a volte vengo attratta da una ricetta. Mi entra nel cervello e fino a che non l’ho fatta perfetta e me la sono mangiata non sono felice. Sabato sera è toccato alla carbonara

Tutto è nato da una sagra della ciliegia dove c’era un banchetto di salumi che odorava di perfezione e che ha tolto dalle tasche dell’A.S. un buon quarantino. Che per comprarsi un paio di scarpe manco ci pensa, ma il cibo, beh… a ciascuno il suo, giusto? Tanto il ragazzo macina e non ingrassa. Tra le delizie portate a casa c’era il guanciale e un pacco da un chilo di spaghetti Martelli, che per molti potrà sembrare la pasta acchiappaturisti,  ma io vi garantisco che è buona davvero (magari non te la mangi sempre, solo una volta ogni tanto, sennò sfori il budget). Insomma: spaghetti+ guanciale per me = carbonara. Sarà poi che mia madre è romana, quindi mi mangio la carbonara da sempre (la sapeva fare buona, va detto, come sa fare buoni i supplì), sarà che ho fatto astinenza per anni perché il mio ex diceva: sì, ma l’uovo crudo, insomma… Per farla breve, programmo la carbonara per sabato sera, la faccio, è deliziosa, me la scofano (termine aulico) in due balletti. Seguo rigorosamente la ricetta originale, Solo tuorlo, guanciale, pecorino romano, pepe. Bella soddisfatta faccio pure una foto (vedi sopra) e la mando a mia madre che risponde con qualcosa tipo: orgoglio di mamma (seguire la sua romanità lo è per definizione).

E poi nulla. Oggi decido di ascoltare un podcast. D.O.I. (solo per l’acronimo, l’avrei seguito), ovvero, Denominazione di Origine Inventata. C’è una puntata sulla pasta. Tradizionalmente italiana da…beh, pochissimi decenni in realtà? La sua diffusione pare sia dovuta da italiani emigrati in America che, una volta assaggiata la pasta secca laggiù, la riportarono in Italia, diffondendola. Ora. Io su questo in rete leggo cose diverse. Vedo di un pastificio nei primi del ‘700 a Venezia, licenza concessa a un certo Paolo Adami. Magari non era il primo pastificio di pasta secca (?), ma comunque Buitoni apre il primo pastificio meccanico nel 1800 o giù di lì. Uhm… Alberto Grandi, che conduce il podcast, sarà pure un docente di storia dell’alimentazione, ma non prendo tutto per oro colato. 

Poi Alberto passa alla carbonara. E qui invece ha ragione. Sarà stata pure inventata da un italiano (un certo Renato Gualandi, pare), ma messa su con roba portata dalle truppe americane, ovvero uova e bacon, la loro colazione tipo. Ma non solo: tuorlo in polvere! Fino agli anni ‘80, poi, non c’è nessun tipo di rigore sul guanciale, si usava la pancetta (mia madre, per esempio, usava solo quella: dolce per la carbonara, affumicata per la Matriciana, perché lei la chiamava senza A, Matriciana. Ho sempre creduto che si sbagliasse lei, invece si diceva così, prima). E infine qualcuno ammetteva pure la panna (sì, una roba da anni ’80, ancora… io rabbrividivo, come quando vedevo mettere il burro nel ragù, ma si faceva). 

Insomma, sul serio? Uova in polvere e bacon? E ora vedo lanciare anatemi contro chi ci mette l’uovo intero (guai! Solo il tuorlo!) o la pancetta? 

Mi chiedo quindi, perché ora tanto rigore su una tradizione che non esiste? 

Mi ricorda un po’ quello che ho visto a Report l’altro giorno, sul prosciutto di Parma. Alla domanda del giornalista sul perché si producesse il prosciutto proprio a Parma, se fosse vero che le brezze marine rendono il prodotto più buono eccetera, il produttore, onestamente, risponde: ma quello è marketing. In realtà viene prodotto qui perché è uno snodo commerciale

In pratica ci inventiamo le tradizioni. Il che va anche bene, se valorizza il territorio ( e soprattutto se tutto il mondo ci crede). Ma io mi sento una cretina lo stesso. 

Poi ok, era super buona, fanculo. 

Stasera cucino i saltimbocca alla romana. Sperando poi di non scoprire che sono stati inventati in India (no, dai, in India no, eh! Lì la mucca è sacra!)

Buon appetito, eh!

Udite udite, una ricetta! B.D.D. salati

Risultato finale, i B.D.D. salati

(Si vede che è domenica e io non ho un cavolo da fare perché l’A.S. è fuori, Little è da suo padre… due post in un giorno!)

Durante il mio ultimo giorno di fancazzeggio, guardo il meteo e decido questo: pulire casa, bucati, cucina. 

E…tadan! Ecco che questo blog diventa ancora più eclettico e si trasforma in un food blog

Ho sempre pubblicato per lo più i miei cazzi, la mia vita storta o diritta, qualche volta una non recensione, altre un non reportage, qualche tempo fa l’ho trasformato in un travel blog. 

Le ricette non sono il mio forte. Come dico spesso, non perché non sappia cucinare, ma perché per la maggior parte del tempo non ne ho voglia. Insomma, ho lavorato anni nella ristorazione, se fossi in cima alla classifica del gruppo Facebook Cucinaremale (che vi invito a vedere se volete sbellicarvi dal ridere) sarei stata licenziata anni fa. 

Quindi stamani ecco che mi lancio, di nuovo (delle mie domeniche di cucina da quando ho il Nuovo Lavoro ho già accennato) in una ricetta che mi fa venire l’acquolina in bocca.

Baci di dama salati

Ho fatto per anni i baci di dama a lavoro, erano la mia specialità (soprattutto perché è un lavoro lungo e noioso e me lo rifilavano), ma salati mai fatti. 

Le dosi sono queste:

100 gr farina mandorle

100 gr farina 00

80 gr burro freddo

80 gr parmigiano reggiano

20 ml vino bianco

1 pizzico di sale grosso

Con un robot da cucina si va a mixare le farine, il burro e il pizzico di sale (ora, di solito rifuggo dalle ricette che indicano q.b. o pizzichi e anche cucchiaini, ma tant’è. La precisione in pasticceria è tutto, vorrei che lo capisse anche mia madre quando fa i dolci…). 

Devono essere colpi brevi e ripetuti, così da rendere il mix sabbioso. Sennò bruciate tutto e viene un troiaio (noto termine desueto che piacerebbe al nostro Vittorio Tatti). 

Una volta reso sabbioso il mix lo trasferite in una ciotola ampia, vi scavate un buco nel mezzo e ci mettete parmigiano (grattato, ovvio, non l’ho specificato, ma mi auguro nessuno abbia avuto il dubbio) e il vino. Io ho messo la ciotola direttamente sulla bilancia, che sennò qui si sporcano diecimila cose. E Leonardo Di Carlo docet: poi c’avete da ripulire voi!

Impastate brevemente, l’impasto va scaldato (con le meni, anche qui, ovvio) il meno possibile. Una volta formato il panetto omogeneo (sì, quei grumi di burro non devono esserci) vi mettete seduti davanti al tavolo della cucina: la ciotola con l’impasto a sinistra, la bilancia al centro e una leccarda rivestita di carta forno a destra. 

Se non sapete cosa è una leccarda aprite il vostro forno: la teglia scura e piatta che è in fondo (di solito è in fondo)è la leccarda. 

Vi ho detto di mettervi seduti perché ora dovete staccare 10 gr di impasto per volta (se non lo pesate è impossibile, credete che siano tutti uguali, ma non è vero) e formare delle palline che metterete (distanziate! Per carità! Sennò si attaccano tutte una all’altra e creerete una base salata di frolla con i bubboni!) sulla leccarda.

Ci siamo quasi. È stata una rottura di palle pesarli e formare le palline, vero? Ora capite perché i baci di dama al Vecchio Lavoro li facevo io (impasto base: 3 kg, voi avete fatto un impasto di 360 gr più o meno)

Trasferiteli nel forno preriscaldato (che a me sembra un’ovvietà, preriscaldare, ma se lo scrivono tutti un motivo c’è…)a 170 gradi per 20/25 minuti. 

Lasciateli freddare. Si presenteranno più o meno così:

E ora farciteli come vi pare. Formaggio spalmabile e erba cipollina? Mousse alla mortadella o al prosciutto cotto? Hummus? Fate voi. Io ci ho messo il formaggio spalmabile al salmone, che non volevo rompermi le balle anche a fare il ripieno. Ho già fatto i baci di dama! Mi sembra abbastanza. 

Per mettere la crema sul fondoschiena dei B.D.D. sarebbe meglio una sac à poche, vengono più bellini. Se non ne avete neanche una cagona come la mia:

compratevela ecchecavolo! Costano due bicci. In alternativa ne potete anche creare una con la carta forno, ci sono tutorial ovunque, ma quella usa e getta è meglio: fidatevi. 

Ho un futuro come food blogger, vero? 

Ma non vi ci abituate: io cucino di rado…

Real Human Bodies Exhibition (un altro non reportage)

Ormai faccio troppe cose, vedo troppa gente. Sono diventata una signora, sto a casa anche quattro giorni di fila, i miei amici mi prendono in giro, L’Amico Speciale mi sta cercando un lavoro nel weekend. 

Comunque. Dopo lo scorso fine settimana in cui ho portato l’A.S. a sentire Paolo Giordano, questo fine settimana ho fatto scegliere a lui cosa fare.

E mi ha portato qui.

Ora, cosa stiamo guardando? Cadaveri. Sul serio, cadaveri di tedeschi. Resi così (non putrefatti, cioè) dalla tecnica di plastinazione. Ho letto in cosa consiste questa tecnica nello specifico, ma in sintesi (anche perché col cavolo potrei ridervelo nello specifico) consiste nel bloccare la decomposizione iniettando una sostanza tipo formalina.  Poi lo disidratano con l’acetone. E poi lo impregnano con il silicone. Il risultato è quello di un corpo che conserva le parti anatomiche intatte anche nel colore. Forse corpi un po’ più piccoli, certo, immagino per via della disidratazione.

La mostra in pratica è allestita in uno stanzone con vari banchetti e su ogni banchetto un pezzo di corpo umano. Intero, sezionato, ce ne è di tutti i tipi e per tutti i gusti. Ogni reperto è numerato e ogni numero corrisponde, che so, al nome di un’arteria o a quello di un osso. Non solo ci sono le spiegazioni dei vari organi sul tabellone sopra al banchetto, ma anche la possibile malattia che può colpirli. Abbiamo il cuore? Infarto. Reni? Cancro. Mi sono soffermata molto sui polmoni, essendo io una fumatrice. I miei polmoni sono esattamente così (se non peggio). 

Non ho foto dei due apparati genitali, ma è un bene, c’era tanta tristezza su quel banchino. E poi ci sono i feti: a 3 mesi e su su fino ai 9. Questa è la testa di un neonato, che assomiglia vagamente a Alien.

Tutta la parte centrale infine è dedicata alle sezioni: sezioni, fette di corpo umano. Queste sono le gambe.

E poi si arriva alla testa. 

Vi ho risparmiato la pelle…

La mostra è cara (20 euro) e in venti minuti l’hai vista tutta (se non ti sei fermato nel bagno a vomitare, ovvio). I numeri dei vari particolari a volte sono assenti (e comunque per vederli devi avere la lente di ingrandimento). Non capisco l’utilità di fare a fette un corpo, ma io dopotutto non sono un medico e ho tanti interessi, ma non il corpo umano, mi bastava aver visto Siamo fatti così da bambina. Di sicuro coinvolge uno studente di medicina, che ha già la sua infarinatura, anche se immagino abbiano corpi da studiare non plastinati. Ma per la gente comune…mah. Non è che proprio la mattina mi alzi e, mentre prendo il caffè mi chieda: ma come sarà fatto il corpo di una gestante? 

Insomma la conclusione è questa: a tutti quelli che hanno detto: povero A.S. a vedere Paolo Giordano! Premialo! Chiedo: 

DOVE STA IL MIO PREMIO?

Il prossimo weekend voglio andare al mare.