Un segno invisibile e mio (cit.)

post 192

 

 

 

Prefazione postfatta:

Devo dire che tutti questi ricordi sono assai poco piacevoli. Il mio masochismo sta forse buttando benzina sul fuoco? Oppure è necessario ricordare e mettere in ordine i pensieri, proprio ora che ne ho il tempo?

Scrivere non serve forse a questo, a rimettere in fila i pensieri?

La prefazione postfatta è zeppa di domande… ai posteri eccetera eccetera

 

Spesso mi fisso a pensare, ecco da dove vengono i ricordi, sono circondata da questi, qui chiusa.

Fisso il mio personale centrotavola. È qui da prima di me, anche se l’ho comprato io, un lunedì mattina all’Ikea con Ale. La mediatrice familiare (quella stronza a cui ancora vorrei tirare il collo) mi aveva detto di aspettare a dare comunicazione a Little Boss della separazione. Avrei prima dovuto: A) cercarmi un lavoro; B) cercarmi una casa; C) preparare la notizia insieme al mio ex, di comune accordo.

Ricordo come se fosse ieri il giorno in cui ho comunicato al mio ex che volevo lasciarlo (definitivamente, stavolta, niente Una pausa a casa di mia madre per una settimana, come era successo 5 anni prima). Era il primo maggio, un giorno caldo, c’era il sole. Ci siamo trovati (udite udite) fuori dal Ristorante che poi mi avrebbe assunta. Ricordo di aver preso una lattina di coca, lui una birra. Ho cercato di dirgli quello che gli ripetevo da anni (%, per l’esattezza), che non ce la facevo più, che vivere con lui era diventato impossibile, che non lo amavo più, che non c’era speranza di ricostruire un rapporto (sa solo il cielo se ho provato di tutto), che separarci era l’unica soluzione, per me, per stare bene. Quante parole buttate al vento. Lui ha solo incamerato il messaggio (ti lascio) e, se già gli stavo un po’ sulle balle anche prima, da lì ha iniziato a bruciare il suo odio.

Beh, da quel primo di maggio, grazie alla mediatrice, avrebbero dovuto passare altri 6 mesi prima che io potessi andarmene da casa sua. Ecco, di quei mesi ho dei ricordi piuttosto confusi, devo dirlo. Vivere con una persona che ti odia e che tu non ami più, nello stesso letto, mangiando alla stessa tavola. Un vero incubo. Ma dovevo tener duro, a quanto diceva la mediatrice ne andava della felicità di Little Boss. Ho tenuto duro, ho sopportato tutto (certo poi ogni tanto crollavo, ricordo una sera, già lavoravo al Ristorante, che a fine turno iniziai a piangere, così, mentre asciugavo i bicchieri; e il mio Boss era lì: imbarazzante ancora oggi a ripensarci) e alla fine, trovato il lavoro, ho trovato anche una casa: questa. L’ho trovata per caso, mentre andavo con Ale a vederne un’altra, è stata lei a indicarmi il cartello, è stata lei a dirmi: chiama. Io l’ho vista e amata, sin da subito. Certo, il mio buchetto è carino, va detto, molto curato per essere così piccolo, al tempo, per una come me (lavoro precario- il contratto sarebbe arrivato solo dopo due mesi- e zero soldi in tasca) rasentava la perfezione.

Mi mancava tutto, però, o quasi. Qui avevo i mobili (lavatrice e lavastoviglie comprese), ma tutte le mie cose, dalle coperte ai piatti, dovevo lasciarle a casa del mio ex.

Ed ecco che un lunedì mattina io e Ale siamo partite con una lista piuttosto lunga e una macchina (la mia) piuttosto piccola. La missione doveva inserirsi nello spazio della scuola di Little Boss (sempre grazie ai consigli della mediatrice).

Al reparto candele ho visto questo. Ci ho comprato tre candele da piazzarci sopra e ho infilato tutto nella borsa blu (avete fatto caso che più roba mettete in quelle borse e più roba ci va? Sembra la borsa di Mary Poppins). Siamo tornate giusto in tempo per caricare tutto e filare a scuola a prendere la piccola.

Quindi, verso settembre, avevo ormai il punto A) e il punto B). Ma mancava il punto C). Il punto C) è stata lo scoglio più grande. Ci sarebbero voluti quasi due mesi ancora. In questi due mesi ho pagato il mio affitto e venivo qui ogni tanto per sistemare. Insieme a un amico ho addirittura riverniciato le pareti (ogni stanza ha un colore diverso, non è stato facilissimo). Qualche serata l’ho passata qui con Ale (nottata, più che altro, venivamo qui alla fine del mio turno e al tempo lavoravo solo la sera). Appena aprivo la porta il profumo di quelle tre candele mi faceva sentire a casa. Era qualcosa di indiscutibilmente mio. E solo mio. Sentirsi a casa non è certo una questione di luogo, ma di sensazioni, di affetti, di emozioni. Quelle stupide candele riuscivano a darmi questo, riuscivano a farmi sentire giusta, mi davano la forza di andare avanti. Mi dicevano: siamo qui e ti aspettiamo.

Quanta forza hanno gli oggetti. Tanta quanta noi riusciamo a dargliela.

Le candele ormai sono bruciate, insieme alle mie paure (quasi tutte). Resta questo centrotavola, dove comunque infilo un incenso dietro l’altro. Mia madre dice che tutte le mie case profumano nello stesso modo. Io invece sono certa del contrario.

Qui c’è sempre profumo di buono: un segno invisibile e mio.

11 pensieri riguardo “Un segno invisibile e mio (cit.)

  1. Lì c’è un profumo che solo in parte le candele danno. C’è il profumo di vita, di amore, di lacrime, di gioie, di sconfitte, di risate e parole. C’è il tuo profumo, di Little Boss, di altre persone che hanno fatto e fanno parte della tua quotidianità, anche se stanno lontane nel paese dei folletti o un po’ più vicino. Lì c’è un odore che non è come tutti gli altri ma che è unico come chi lo ha voluto.

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