La Moon frettolosa portò gli spaghetti della casa impiattati col nido

Oggi pomeriggio, finalmente, lo dedico al pigiama. Sarà una settimana che le giornate mi scivolano via come una saponetta, mentre non mi sembra di non fare altro che correre: corro a lavoro la mattina, corro a decorare biscotti, pulire i pavimenti, sparecchiare e apparecchiare tavoli; corro a casa dopo il lavoro, corro per preparare cena, pulire i pavimenti, fare la spesa (per me e per mio padre), portare sempre mio padre alle visite a casa del diavolo, andare a riprendere Little dal fidanzato, portarla a comprare il tablet a casa del diavolo, fare lavatrici, lavastoviglie, asciugatrici. Spesso corro anche a letto, per paura di non riuscire a dormire abbastanza. 

Moon corre.

Che poi tutta questa fretta per fare le cose non la capisco, sul serio. Lunedì mattina, per esempio, mi sono alzata e ho iniziato ( a corsa, manco a dirlo) a pulire casa, poi sono andata a fare la spesa, ho pulito l’interno della macchina (sul vetro c’era una nebbia che non si vedeva un palmo dal naso), poi sono andata a pranzo da mia madre (che sennò da me non ci vieni mai, ma da quell’altro ci vai sempre), sono passata a pulire la macchina anche fuori (per coerenza) e ho ritirato Little Boss alla Cittadina, che il suo fidanzato dopo due settimane è finalmente guarito dal Covid. Alla fine della giornata ho spuntato un sacco di voci dalla mia lista, ma ero più stanca dei normali giorni di lavoro. In pratica sono sempre in gara con me stessa. 

E poi invece guardo le altre persone che se la vivono in modo mooolto più serafico e mi chiedo: come fanno? Il nostro nuovo cuoco, per esempio. La cuoca storica va in pensione e il Capo ha preso questo ragazzino qui. Mia nonna direbbe che è un tipo tutto Sussi e Biribissi; mia madre direbbe invece Non mi tocchete che mi cachete; l’Amico Speciale, appassionato di classici, esordirebbe con Perché io sono io e voi non siete un cazzo! Con questo non so se ho chiarito… bravissimo ragazzo, ci mancherebbe, ma un po’ abituato a fare il nido quando impiatta le tagliatelle, mentre i nostri clienti sono più tipi da Metto il formaggio anche sullo scoglio.  

Quindi l’altro giorno. Arriva una coppia. Due spaghetti della casa. E poi per dopo vediamo, dicono. Mando la comanda in cucina e intanto arriva un’altra coppia. Due spaghetti della casa. E per dopo vediamo. A volte ci sono queste giornate con comande gemelle, non chiedetemi perché o a quale mistero rispondano perché io non mi capacito mai. Comunque. Proprio quando stavano uscendo gli spaghetti del primo tavolo, ne arriva un altro. Io, con la mia solita fretta, vado in cucina a controllare, vedo gli spaghetti nella padella e mi dico, vabbè, sono pronti, aspetto, porto i piatti e poi prendo l’ultimo ordine. Il cuoco (ma lui direbbe lo chef) inizia a impiattare: prende il mestolo, le pinze, fa i suoi nidi, distribuisce la salsa… io, nel frattempo, mi raccolgo il latte uscito dalle ginocchia. Faccio capolino fuori e l’ultimo tavolo alza la mano per chiamarmi. Guardo il cuoco/chef ed è sempre lì che impiatta. Scatto dentro, scatto fuori e non so cosa fare, vorrei urlare: dammi ‘sti cavolo di piatti e lasciami uscire,ma non ho abbastanza confidenza. Finalmente sono pronti, esco, li porto al tavolo, corro al tavolo che mi ha chiamato, grande sorriso sotto la mascherina (ma dagli occhi si vede lo stesso). No, sa, mi fa il tipo, è che abbiamo un po’ di fretta. (sapessi io quanta fretta ho!)

No, no, scusatemi voi, dico (vorrei dire che è colpa del cuoco/chef bradipo, ma sto zitta). Sono pronta: cosa vi porto? 

Indovina indovinello?

Due spaghetti della casa. 

E poi dopo vediamo. 

Forse tutta ‘sta fretta non la avevano, in fin dei conti… io invece…

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Per fare un tampone, non ci vuole il Covid, per fare il Covid, ci vuole poco

Era molto tempo che non scrivevo di mattina. 

Sarà che i miei giorni liberi ultimamente li ho sempre passati rincorrendo questo o quello. 

E ora sono di nuovo a casa, il Ristorante ha chiuso i battenti per mancanza di personale, tutto sottoposto a quarantena preventiva. Un eccesso di zelo, direi, dato che per adesso nessuno dei contatti dei miei colleghi è ancora risultato positivo. I tamponi non si trovano, le asl sono intasate, i medici non rispondono al telefono perché oberati di richieste. Siamo il risultato dei titoli dei giornali di questi giorni: l’economia bloccata dalla quarantena di gente che in realtà sta bene. 

Ieri mattina io e Little siamo partite per farci un tampone. Avevo chiamato la sera prima la farmacia e, dopo sei tentativi, sono riuscita a parlare con qualcuno.

Salve, le faccio una domanda che di rado le faranno in questi giorni. Tamponi?,ho chiesto.

Lei ha riso e ha detto: può venire dalle… alle… senza prenotazioneLa fila è lunga ma scorre.

Esaustiva al punto giusto.

E in effetti la fila era lunga, invadeva tutto il parcheggio, a occhio e croce avremo avuto una sessantina di persone in fila davanti a noi. Io e Little ci siamo messe buone buone ad aspettare, Little cercava di leggere il suo libro, io mi sono trovata a far conversazione con quella davanti e quelli dietro. Dietro di noi c’era una coppia di persone anziane, lui sordo come una campana, lei mite e silenziosa. Dopo poco ho sentito lui dire, Non hai messo la mail sul foglio! Devi tornare dentro (la farmacia, NdR)per prendere la penna

Allora io, che non mi faccio mai i cazzi miei e ho un esercito di penne nella mia super-borsa-arma contundente-che può uccidere all’occorrenza, le ho porto la mia. La signora ha scritto la mail appoggiata al muro, me l’ha resa, l’ho rimessa nella borsa. 

Nel frattempo la ragazza davanti a noi parlava al telefono con mezza Toscana, più o meno. Incazzata come una mina e con un cappottino peloso rosa pastello che lei stessa ha definito da Diva, sentivo che parlava di uscire dalla quarantena.

Ma dai che ho solo avuto un po’ di febbre, ora faccio il tampone ed esco, eccecavolo! Non possono tenerci in galera! Si gira verso di me e fa l’occhiolino. Sorrido forzata e faccio un passo indietro. nessuno mantiene le distanze, nessuno le fa mantenere. Solo in quel momento realizzo che la ragazza davanti a me potrebbe essere ancora positiva. Facendo il passo indietro mi trovo più vicina alla coppia di vecchietti Sordo-Mite. Sordo mi dice che loro hanno tre dosi, ma vogliono essere sicuri, fanno un tampone solo di controllo. Sa, noi vediamo i nipoti, aggiunge. Giusto, gli untori, i no vax non per scelta ma per mancanza di possibilità (per ora), l’anello debole della catena vaccinale. 

Durante l’attesa qualche animo si scalda (scusate la banalità da tabloid), una donna urla contro il personale che fa i vaccini, loro rispondono a tono, ma mi perdo gran parte della baruffa perché sto cercando con Little la traduzione di moose in inglese e non ci torna che un moose (alce) possa entrare nella dispensa di Rapunzel (Sta leggendo un libro in inglese che pare sia la trasposizione letteraria del cartone animato, Rapunzel; o forse è il cartone animato a essere la trasposizione cinematografica del libro, non lo so, non abbiamo approfondito). E mentre le dico che forse gli è scappato un refuso e la parola è mouse (topo), Sordo mi batte sulla spalla e mi chiede: che ha detto?

Non ero attenta, scusi. 

Eh, fa lui, la gente ora è nervosa, non vorrei essere nei panni di quelle infermiere (che forse infermiere non sono, ma vabbè, non puntualizzo). 

E sa quale altro mestiere non farei? Il barista. Essere barista ora…

Eh già, rido sotto i baffi. Lo so bene!

Ah, scusi! Lei fa la barista?

Tra le altre cose…

Ha sbagliato lavoro! Se faceva l’infermiera ora aveva il lavoro assicurato!

Sorvolo sull’illogicità delle sue ultime battute e tocco ferro di nascosto per la gufata sul lavoro. 

Finalmente tocca a noi. Due minuti e siamo fuori entrambe. Ci appostiamo lì vicino per attendere il risultato. 

Nel mentre notiamo uno schema ricorrente: alcuni vengono chiamati a gran voce dall’interno della tenda. Per altri un operatore esce e comunica sottovoce qualcosa con la faccia seria. Anche l’ultimo degli stupidi capirebbe la differenza. Quando chiamano il mio nome a gran voce tiro un sospiro di sollievo. Riprendo la tessera sanitaria e aspetto il risultato di Little. Nel mentre viene chiamato Sordo (non li processano in ordine). Sordo non sente il suo nome, ovvio, Mite lo redarguisce, Sordo esce dalla tenda e dice: olè, sono apposto. Poi esce il tizio compassato e chiama Mite. Le sussurra qualcosa, i due spariscono nella loro utilitaria rossa e sgommano via. 

Little Boss!, urlano da dentro la tenda.

Ok, siamo salve. Per ora.

La penna, mamma, buttala via, dice Little. 

Confesso: mi sono lasciata impanicare per almeno mezz’ora. Poi grazie al cielo il cervello ha ricominciato a girare in senso orario. 

Ma al gruppo whatsapp del lavoro ho mandato un vocale che era più o meno così:

ok, io e Little siamo negative. Ma quella dietro di noi era positiva. Ergo: si rischia più ad andare a farsi un tampone che ad andare a lavorare.

Detto ciò io sono libera da impegni di lavoro e quarantena. Ma in ogni caso stamani non mi decido a uscire…

Un passo per volta

Come al solito, le cose che devo ancora fare superano le cose già fatte. È una maledizione, stile criceto che gira sulla ruota e gira e gira e non arriva mai. 

Certo, due traslochi in un anno non me li sarei mai aspettati, nemmeno da me, la Ragazza con la Valigia in mano. Eppure. 

Ok, ok, non devo traslocare di nuovo io, ok. devo traslocare mio padre, dichiarato ufficialmente in sofferenza ischemica e rispedito a casa con due raccomandazioni: smettere di fumare e stare a dieta. Seriously? Basta così? Nel senso, pure a me, che sto bene e non soffro di perdite di memoria casuali, non confondo le persone e non sono incontinente, il medico mi raccomanda le stesse cose: dieta, movimento, smetti di fumare. 

Sarà più dura del previsto se questo è il meglio che offre il SSN. 

Inoltre in questa causa sono sola. 

Oggi chiamo mia sorella (che ok che è ok, come direbbe Little, e ok che non ha un buon rapporto con mio padre, ma finora non si è mossa di un millimetro: io le visite mediche, io la casa nuova, io la casa vecchia, io tutto, in pratica) e le chiedo come fare per il trasloco.

Ah, boh, mi dice. 

Nel senso, io non posso alzare pesi, ho l’artrosi cervicale, al lavoro neanche i cestelli della lavastoviglie mi fanno alzare, non posso fare il lavoro sporco, dico. 

Silenzio. 

Nel senso, insisto, magari troviamo qualcuno che lo fa per una cifra onesta, un paio di uomini con il furgone, le cose non sono mica tante, non ci sono mobili… 

Ah, perfetto! Informati!, dice lei.

E attacca. 

Nel senso, penso io, nemmeno questo? Nemmeno una mano per il trasloco?

Mi verrebbe da ricordarle che ha gli stessi doveri che ho io, in quanto figlia pure lei, ma poi sto zitta e chiamo Pronto Pro. 

Intanto sono riuscita a fare l’impensabile: prendere due giorni di permesso a lavoro. Oggi e venerdi. E forse anche un altro giorno, chissà… il futuro appare roseo. Se non fosse che per prendermeli devo lavorare a tutta velocità nei giorni in cui ci sono.

Il Capo mi dice: ok, Moon, se mercoledi non ci sei allora oggi, martedì, devi fare: gelato, sacher monoporzione, sacher torta, mignon al cocco, che sono finiti, i biscotti decorati, che stanno finendo…

Ehi! Ma ho solo 3 ore!, dico allarmata (poi devo trasferirmi al Ristorante, per il mio turno da cameriera). 

Appunto! Inizia! , fa lei.

Il risultato è che martedì pomeriggio esco da lavoro con il collo in fiamme (tipo ora, dopo una mattinata a fare scatole) e la voglia di iniziare a farmi di eroina. Ma invece devo fare altro, tipo i contratti di luce e gas per mio padre, trovarmi con l’agente immobiliare per il contratto. E poi c’è Little. Dentista, lezione di canto, rivedere un testo per italiano… 

Il fatto è che sono stufa di essere sempre da sola per tutto. e, oltre a lamentarmi, non so che altro fare.  

Sono tornata in modalità Moon Brontolo. Pentolina, appunto. 

Eppure se c’è qualcosa che è vero è che Barcollo ma non mollo

Quindi, in modalità Barcollo, per ora, faccio l’unica cosa possibile: un passo per volta. 

Intanto continuo la mia impossibile dieta, che prevede un’assidua presenza di Moon in cucina. E tanta fantasia. Il farro con zucchine e zafferano? Che ne dite? Potrebbe andare, no? In cima alla classifica però c’è lui, il salmone (che due volte a settimana posso mangiare). Quindi la mia cena preferita resta la piadina di farro con crema tartufo e funghi, salmone e spinacini. La versione Moon del fast food. 

Alla fine aprirò un blog con sole ricette per poveri malati di artrosi che non possono prendere medicine (tipo Aulin o morfina) e sono costretti a curarsi con la sola dieta. 

Potrebbe essere un business. 

Non ridete. 

Alessa

Nel dì di festa…

Mi alzo controvoglia alle sette e mezzo, ben due ore e mezzo dopo la mia sveglia abituale. Nonostante ciò le gambe sembrano stones, la schiena non vuole raddrizzarsi, sotto gli occhi ho due Fosse delle Marianne. 

Prendo il mio caffè con latte di soia, ingurgito l’integratore che assomiglia a una sostanza con dentro la criptonite e mi sento un po’ meglio. Giusto due minuti due. Poi il cervello si attiva, si ricorda quello che deve fare in giornata e allora ciao, vorrei tornare dritta dritta a letto.

E vabbè, invece mi vesto, indosso semi compiaciuta i jeans che non stavano più dal pre-lockdown, esco senza essere del tutto preparata al freddo e me ne vado nella città del mare da mio padre (mi sono ricordata questo post… e ora tutto sembra chiaro. O quasi). Mentre guido mi ripeto gli obiettivi del giorno: portare scatole per trasloco, chiamare la sua dottoressa per riferire dati della pressione, recuperare e inviare i documenti per il nuovo contratto di affitto e…convincerlo a mettersi un pannolone per anziani. 

Arrivo alle nove e mezzo e alle dieci e mezzo ho già fatto tutto, compreso il convincimento. Mi guardo allo specchio del suo bagno (che ho appena pulito per onore alla decenza) e mi dico: ci sei, Moon, oggi è andata bene. Soddisfatta di me per un Serenity extralarge.

Torno giusto per prendere Little a scuola (che a scuola non era perché sciopero) e poi a casa. Perché nel pomeriggio devo fare il cambio dell’armadio, chiamare di nuovo la dottoressa di mio padre, organizzare con mia madre la cena per il mio compleanno… e poi arriva lei. Arriva Alexa.

L’amore tra me e questo gioco per adulti (non chiamiamolo in altri modi, è così e basta: è un gioco) inizia mesi fa a casa di mia sorella. Lei e le mie nipotine la chiamano per ogni cavolata: Alexa, metti le luci rosse; Alexa, fammi sentire Nella vecchia fattoria; Alexa, di che colore era il cavallo bianco di Napoleone?E via discorrendo. 

Nonostante ciò immagino le sue potenzialità. Alexa, accendi la lavatrice; Alexa, fammi vedere cosa succede nel mio soggiorno. E poi sì, anche, Alexa, metti la mia compilation preferita su Spoty

Ma è solo negli ultimi giorni che Alexa è tornata nel mio cuore, quando la FDC l’ha portata al laboratorio di pasticceria per il mio Capo. 

Ora. Il mio Capo spesso le urla contro: ALEXA, DIMMI LA FREQUENZA DI RMC! Come se Alexa fosse il vecchietto sordo che l’altra mattina, quando l’ho visto sedersi al tavolo e gli ho chiesto se avesse il Green Pass mi ha risposto: sì, grazie, un caffè macchiato. Misteri dell’udito.

Comunque, l’Alexa del lavoro è chiamatissima. Anche Osaro, il mio collega nigeriano, a volte prova a chiamarla. Solo che la X non gli viene. Alessa, fa lui. Alessa!!! E lei zitta. Lui mi guarda, fa spallucce. Alessa no funziona, dice(il suo italiano è quasi come il mio nigeriano, va detto, nonostante i millemila corsi di lingua che frequenta. Ciò mi spinge a dire: ma chi li fa, questi corsi???)

L’altro giorno Osaro ha visto due mosche, una sopra all’altra. Mi batte su una spalla e mi fa: Moon, pure mosca ha fidanzata! Perché io no fidanzata? Così il mio Capo ha chiesto a Alexa: Alexa, lo vuoi Osaro come fidanzato? Lei ha risposto: sono felicemente single, grazie. 

Povero Os… nessuna speranza! Va detto che il ragazzo è bello, ma pretenzioso: la vuole bianca (no nera, perché io no nero– see, ok, Os, se ti copri con tutta la farina della pizzeria, forse-), la vuole giovane e bella, intelligente, italiana, che lavora…

Eh, gli faccio io, se la vuoi italiana sarà meglio che lo impari, prima, l’italiano, no? 

Ma se è intelligente, mi risponde, studia e impara inglese, come te. 

Pinato*, gli rispondo.

Pentolina, mi dice lui (perché ogni tanto borbotto)

Intanto abbiamo raggiunto il compromesso. Lui continua a dire le cose in inglese anche al mio Capo e se lei non lo capisce invita Alexa a fare da traduttrice.

Un interprete come un altro…

*in gergo: duro come le pigne (o pine, in toscano) verdi

Storia di un jolly in carriera

Mentre il mio pane cerca di lievitare (le farine che devo usare non sono molto collaborative con il lievito…)ripensavo al mio lavoro.

Sono anni che lavoro al Ristorante e le mie mansioni lì sono cambiate nel corso del tempo. Assunta per fare cocktail e rinnovare l’Happy hour, mi sono presto ritrovata a scrivere comande e portare piatti. Dopo pochi mesi sono stata riciclata (il termine, fidatevi, è corretto) per fare caffè e cappuccini la mattina presto. Da lì sono passata al laboratorio di pasticceria per aiutare a farcire biscotti e riempire bignè. Poi ho fatto un salto in pizzeria, imparando a fare impasto, stendere pizze, condirle e infornarle nel forno a legna. Poi un altro passo: aiuto cuoca (insalate e primi per lo più), poi lavapiatti. Ed ecco che poco dopo mi ritrovo di nuovo a prendere ordinazioni e servire ai tavoli. 

Se ve lo state chiedendo sì: tutto nello stesso locale. Ci sono stati dei giorni che passavo da un reparto all’altro tanto velocemente che mi sembrava di essere Clarke Kent che si cambia nella cabina telefonica: metti il grembiule bianco della pizzeria, toglilo e vai al banco a fare caffè, rimettilo e vai in cucina… 

Non mi sono mai lamentata (con i miei capi, almeno), ma in modo subdolo cercavo di migliorare nel settore in cui volevo lavorare davvero: la pasticceria. 

La pasticceria è un’arte, è alchimia, ha qualcosa di magico. 

Così mi sono scavata una nicchia. Con il tempo, ovvio. E gli eventi mi hanno aiutato: il corso di gelateria non doveva essere per me, ma beh, io c’ero, al contrario della Figlia del Capo (F.D.C.). 

Passo indietro: conosco la FDC da quando aveva 13 anni, ora ne ha 37. Non ci sono sempre andata d’accordo, ha un carattere particolare, se così vogliamo dire. Altri direbbero che è una stronza con il patentino, ma io di solito tendo a giustificare i comportamenti di tutti. 

Comunque la FDC (un po’ parecchio viziata dal Capo e dal Boss, questo sì) a un certo punto ha sclerato e ha convinto i genitori a farle fare una scuola di pasticceria con i controcazzi. Una scuola moooooolto costosa. Una scuola dove a valutarla c’era Massari, per intenderci. E insomma, ve la faccio breve, dopo anni di irrisolti con il parentame alla fine la tregua l’ha decisa un cosetto piccolo e soffice: il primo nipote, sfornato dalla FDC (e dal nostro pizzaiolo: sia mai che le cose non abbiano lo spirito della telenovela argentina, in questa storia). Risultato? La nostra FDC è entrata da qualche mese a lavorare nel laboratorio di pasticceria. 

Il mio primo pensiero è stato: vai, sei fregata. Questa ti soffia il posto ed ecco lì che di tutti i tuoi progetti Mi faccio dare un aumento, mi faccio cambiare mansione, ti resta in mano solo un pugno di mosche.  Capitemi: mi sono fatta il mazzo per anni per arrivare a sapere quello che so, per fare proposte, per farmi la nicchia, insomma. 

All’inizio le cose sembravano ormai decise: riposizionata. Eccomi che torno al banco a fare caffè. Ero sul punto di licenziarmi. 

Ma poi il mio lavoro nel corso degli anni ha prevalso. Era la FDC a chiedere le cose a me, a chiedermi se era fattibile fare una cosa piuttosto che un’altra. 

In pratica ora collaboriamo. E sebbene io sia ancora diffidente (stringere alleanze con la FDC può nuocermi in molti modi), il suo progetto coincide con il mio: farmi restare il più possibile in pasticceria. 

Pare che la nostra strategia stia funzionando, almeno in parte. 

Riusciranno i nostri eroi?

Beh, se non si licenzia qualcun altro, se non ci sono altre emergenze pandemiche, se… forse il mio ruolo di jolly andrà a sparire. 

Intanto godetevi la foto del nostro cheesecake ai frutti di bosco. 

Davvero buonissimo. Fidatevi.

(E con millemila euro di scuola di alta pasticceria se non era buonissimo il Capo e il Boss erano investitori del cavolo!)

E sì che ero brava a scuola con i riassunti…

Bene bene bene.

La mia idea era di riassumere questi sei mesi, ma si sa, un riassunto è sempre una questione personale, di PDV, direi io. E di immagini, di fotografie, quelle che restano impresse nella nostra pellicola mentale. Avrei voluto solo belle foto, o foto belle. Vediamo cosa ne esce.

Febbraio:

C’è un furgone stipato di roba smontata: un letto contenitore dell’ikea, una cucina intera, rossa, di buona fattura, specchi, lampade, una scala con scalini di vetro fatta su misura, materassi, zanzariere comprate on line. No. Non è il mio furgone del trasloco. Io ho traslocato con la mia macchina, Winny, le scatole con i libri e tutto il resto occupano poco spazio. È la roba che viene portata via dalla mia vecchia casa: viene svuotata per motivi terzi ed è inutile che ve li dica: troppo lungo e complicato. Ma soprattutto non sono affari miei. Ci sono io, in piedi sopra il parquet, guardo le stanze tinteggiate da me sei anni fa completamente spoglie: la casa che mi ha accolto, il mio rifugio dalla tempesta, la spettatrice della mia rinascita ora è nuda, inerme. Le dico addio in silenzio.

Ale di fronte a me. Dall’altra parte del tavolo. È lì con me, allungando una mano la posso toccare, la vedo, con la sua nuova aria da folletto, come a dimostrarmi che è lì, nel paese dei folletti, che vuole stare. E io lo so che sebbene ci provi fino all’ultimo giorno, sebbene pensi pure di sabotarla, non posso fare a meno di amarla tanto da lasciare che se ne vada. Così da dimostrarmi che l’amore non è sempre egoista, dopotutto. 

Marzo:

I colori dell’arcobaleno volteggiano sulla mia testa. E sul mio lavoro. Vai a lavoro? Stai a casa? Ormai è solo una questione di scelte, non di obbligo. Mi dico: vai a lavorare almeno ti distrai. Credo sia la prima volta che lo penso. 

Aprile: 

Una Pasqua tutta per me. Nella mia nuova casa le vocine delle mie nipoti, i regali, il sole, i sorrisi. Un pranzo in famiglia che ho organizzato io, finalmente, senza stress. Ogni tanto essere in zona rossa è un bene.

Per l’occasione sto friggendo i supplì. Le polpettine di riso saporite sono dorate quando le scolo, finalmente lo scettro è passato dalle mani di mia madre, la Regina dei Supplì, alle mie: continuo così la tradizione di famiglia, con una ricetta, il riso e il pangrattato. 

Maggio: 

A Maggio nemmeno una foto. Né mentale né fisica… deve essere stato un mese pieno di lavoro.

Giugno: 

Io che guardo il carroattrezzi portarsi via la macchina di mio padre mentre mi scuso con i vigli urbani per lui, Si deve essere dimenticato l’assicurazione, scusate, ripeto. Ma so che c’è qualcosa di più. Decido di fare una cosa non proprio etica ma salvifica per il momento: nascondere la testa sotto la sabbia in stile struzzo e rimandare tutto a dopo l’estate.

Luglio:

Un castello stregato, un pranzo pieno di leccornie, una bella giornata di sole. Io e Little Boss ci prendiamo una giornata di respiro e ce ne andiamo a Fosdinovo con tanto di visita guidata, sulle tracce del fantasma che respira. O così dicono gli esperti fantasmologi… spettrologi? Occultisti? Ma come si chiamano? Ah: ghostbuster! Pranzo poi a Colonnata: slurp! E basta, solo slurp. 

Agosto: 

io e Little Boss al mare, a fare le signore, con pranzo al ristornate sulla spiaggia, lettini e tutto il contorno del mare che per una giornata spedi 100 euro. Semel in anno…, dicevano. Anche se il riferimento era per il Carnevale, se non erro.

Agosto però è anche la mia foto su un altro lettino, quello del Tizio che Che mi Scrocchia (T.C.S.) come diceva una mia collega (che non nominerò con nomignoli, tanto è già sparita: è durata come un gatto in tangenziale al Ristorante. Così va la vita). Al TSC ho lasciato un bel mucchio di soldi per nulla. ma va detto che in quell’ora di sedute da lui dormivo che era un piacere. Insomma tra Luglio e Agosto iniziano i miei problemi che portano, oggi, le mie papille gustative a tentare il suicidio: la dieta vegana! (ma la mia dieta non è solo vegana: ha altre restrizioni. Pure!). 

Agosto mi vede anche poco insieme all’Amico Speciale: quando io dormo (ogni volta che non lavoro in pratica) lui è sveglio; quando io sono sveglia, lui è a lavoro; quando io lavoro… bhe, lavoro. Quindi un gran casino. 

Settembre: 

Ahhh ( di sollievo). Le ferie. 

Le ferie mi vedono in Sicilia. Porto io lì la zona gialla. Ma chi se ne frega, Palermo è bellissimissima. Un clima rilassato, giornate perfette (né caldo né freddo, mai pioggia), chili e chili di fritto (panelle e crocchè, arancine), cannoli come se non ci fosse un domani, acqua talmente limpida che potevo vedere i pori del mio piede, edifici come la Cattedrale, il Palazzo dei Normanni… insomma: è stato un antipasto, cara Sicilia. Tornerò per il primo, il secondo e pure il dessert!

Settembre mi vede però anche impegnata in tutto quello che ho voluto tralasciare nei mesi passati. Mio padre è in cima alla classifica. E quindi un’altra foto di me mi vede in macchina fare su e giù due volte a settimana tra il Paesello sperduto dove abito e la Grande città di mare dove invece abita lui (3 ore di auto tra andata e ritorno). In questa immagine io guido la macchina come Fred dei Flinstone: avete presente, no? 

Il mese finisce con me una Moon disagiata, stanca e dolorante, che nel frattempo, oltre a una dieta, ha iniziato anche una cura farmacologica che spera funzioni (le altre cure provate? Acqua fresca. Sennò non tentavo il TSC o la dieta). 

Ottobre è appena iniziato. Già si preannunciano tuoni e fulmini, reali e metaforici. 

Certo, se viene giù metaforicamente l’acqua come realmente è venuta giù qui ieri sera… affogherò di sicuro! 

Un riassunto un po’ lunghetto, questo. La prof di italiano di Little mi darebbe un due. Spero che WP non dia i voti…

Love your mom

Ed eccomi qui con il mio the verde (rigorosamente in infusione nella tazza con la scritta Chocolate is always a good idea), dopo una sessione di cucina casalinga. Perché, se è vero che voglio credere che la dieta che sto seguendo funzioni, lo è altrettanto che cucinare, per me, is not always a good idea… Ma sono costretta. Come diceva ieri il cuoco vegano del ristorantino che ho scovato vicino alla scuola di Little Boss, un conto è farsi una fettina in padella all’ultimo minuto, un altro è farsi piacere il tofu al naturale preso e messo lì. 

Va detto che sto studiando (la cosa che in assoluto amo di più fare). Cerco di creare un ricettario su misura per me: piatti veloci ma gustosi. E giorno dopo giorno il Libro Vegano (L.V.) cresce.

Sulla meditazione invece sono un pelino più capra (Sgarbi dixit). Tento di farla dopo cena, sdraiata sul letto, così se mi rilasso tanto da addormentarmi sono già lì. Ma spesso non tengo a bada i pensieri, mi si imbizzarriscono proprio, e faccio una gran fatica. E mi deprimo perché non ne sono capace. Che poi, siccome la meditazione Mindfulness prevede che non mi giudichi, finisce solo che mi giudico anche per essermi giudicata: un macello. 

Nel libro che sto leggendo sull’argomento (Guida alla meditazione della consapevolezza) c’è anche una sezione dedicata a un Progetto Mindfulness: si tratta di prendersi cura di… indovinate? Una pianta! Questo perché una pianta ha bisogno di osservazione, attenzione e cure. E disciplina. Ottimo, ottimo, ma io, come ho già scritto, sono una con il pollice verso, uccido qualsiasi cosa verde anche solo avvicinandomi (come Maga Magò nella Spada della roccia: presente?). Non voglio mietere altre vittime, non ora almeno, che sono così…principiante! Così ho trovato una soluzione alternativa: il lievito madre. Molti sapranno di cosa parlo, ma nel caso vi faccio un riassuntino: il lievito madre è il lievito che usavano le nostre nonne (o bisnonne o trisnonne, dipende dall’età di chi legge); trattasi semplicemente di acqua e farina fermentata in modo spontaneo grazie ai microorganismi presenti nelle materie prime. E questo, più o meno, lo sanno tutti. Quello che io invece non sapevo è che il lievito madre, contrariamente al suo nome, si comporta come un figlio. Anzi. Un neonato. Prima di tutto deve essere risvegliato, poi bisogna fargli il bagnetto, infine deve essere messo a letto. Il tutto solo per non farlo morire. Un Tamagotchi ante litteram. Se poi lo si vuole usare allora dobbiamo procedere a fargli vari bagnetti (i rinfreschi) ogni tot ora, deve essere fasciato in un certo modo, con tessuto di lino superpulito e corda apposta (sì, questa cosa della corda per legarlo non è proprio da infanti, ma concedetemi la licenza). Inoltre bisogna saperlo guardare e annusare con attenzione: se ha un odore troppo acido allora va lavato con lo zucchero, se gli alveoli sono troppo radi non va bene, se non ce ne sono troppi non va bene… insomma, un gran cavolo di lavoro per sfornare una pagnotta! Quindi per ora ho deciso solo di tenerlo in vita: il bagnetto una volta a settimana. Poi quando sarò più grande penserò al modo migliore per usarlo. Sempre che non muoia, ovvio. 

Nel frattempo, anche per il lievito, studio. Perché il Ristorante sta diventando sempre più Pasticceria (aggiungi aggiungi, un biscotto nuovo qui, una monoporzione lì ) e quindi progettiamo di fare il mitico Panettone per Natale. Con, ovvio, il lievito madre. Credo che nei prossimi mesi avrò da impratichirmi, col piccoletto. 

Mi ero messa seduta qui, in realtà, proprio per fare un riassunto di tutte le cose che sono successe a lavoro da sei mesi a questa parte, ma come al solito Va’ dove ti porta la tastiera ha prevalso. 

Sarà per la prossima volta, eh…

Vado a fare uno snack con la maionese vegana alla paprika (buonissima, ve la consiglio anche se siete uovivori, è stata la prima ricetta del L.V.)

T.B.P. Vol 2.

A voi un’altra puntata della Barista Moon e le sue incredibili avventure

Incredibile la pletora di diavolerie che la gente può dire/fare. 

Quindi Tipi da bar durante la Pandemia Vol. 2

  1. CLIENTE CON MASCHERINA MAGGIORENNE (M.M.): chiamasi mascherina maggiorenne ogni mascherina portata per più di un mese. La mascherina dopo alcuni giorni presenta una chiazza scura e oleosa in prossimità di naso e bocca, visibile anche dall’esterno (non voglio immaginare l’interno). 

Qui non sussiste nessun tipo di conversazione. Cerco di mandarlo via alla svelta prima di vomitare. 

  • CLIENTE IPOCRITA (I.):

Io: Buongiorno! 

Cliente I.: Buongiorno a lei, mi dà una brioche e una caffè da portar via? 

Io: subito.

Cliente I.: (tra sé e sé) da portar via per forza, eh, siamo in zona rossa, che poi la gente non lo sa nemmeno quello che si può fare e quello che non si può fare. Oppure fanno finta di non saperlo, dico io, eh, che se c’è una legge c’è una legge, ma poi davanti ai bar si mettono a fare gli assemblamenti (non c’è verso, dopo quasi un anno di pandemia, ancora la gente non ha imparato, N.d.R.), ma non lo sanno che si deve stare a casa? Eh? Che bisogna uscire solo per necessità vere? Che non si può fare ciò che vogliamo? Che ci sono delle vite in ballo e che Prima la salute? 

Io: Ecco qua signora, sono due euro (di solito faccio finta di nulla durante i soliloqui)

Cliente I.: ah, volevo anche ordinarle un dolce per domenica prossima. Mia figlia si è laureata, vorrei una cream tart. 

Io: nessun problema, per quante persone?

Cliente I.: mah, saremo una decina. 

Io: Ah. Ok. 

  • CLIENTE BUGIARDO (B.): 

Cliente B.: Buongiorno vorrei ordinare un dolce per martedì, un millefoglie crema e panna.

Io: certo, per quante persone?

Cliente B.: la faccia per dieci. Anche se siamo solo in quattro, beh, ma siamo golosi, tutti, e se avanza pazienza.

Io: (certo come no…) Mi dica l’ora e ci vediamo martedì.

  • CLIENTE RECIDIVO (R.):

Cliente R. Buongiorno mi dà un budino di riso.

Io: Certo! (Metto il budino nel sacchetto di carta)

Cliente R.: Perché me lo mette nel sacchetto? Lo mangio ora.

Io: (sospiro) no, mi dispiace, non può mangiarlo qui, deve portarlo via. E non può nemmeno qui fuori, dovrebbe andare in macchina.

Cliente R: ah, ok, va bene. Mi fa anche un caffè? (Prende il budino dal sacchetto e inizia a mangiarlo)

Io: no, guardi che non può, glielo ho appena detto.

Cliente R.: ah, già. Scusi, eh.

Io: ecco il caffè.

Cliente R. (prende il caffè, lo stappa e inizia a berlo)

Io? Non ho più parole…

  • CLIENTE COMODO (C.)

Messaggio su Facebook dal Cliente C.: Salve volevo sapere se siete aperti per l’asporto della pasticceria.  

Io: sì, siamo aperti, ma le consiglio di prenotare al numero di telefono sulla pagina se desidera un dolce in particolare. 

Cliente C.: allora sì, mi faccia una torta della nonna per sabato.

Io: purtroppo non sono autorizzata a prendere le ordinazioni da qui, dovrebbe chiamare, come ho detto, il numero presente sulla pagina e parlare con la pasticceria.

Cliente C.: ah. Pensavo con la storia della zona rossa che si potesse. Allora non importa grazie.

(Il Cliente C. non ha mai chiamato per la torta. Forse non era capace di telefonare)

E con i T.B.P. per ora chiudo. Mi aspetta una settimana pesante in zona arancione (ci siamo passati oggi), dove, per chi non lo sapesse, posso ancora solo lavorare con l’asporto nel mio Bar. E lo specifico perché pare che nessuno l’abbia capito, come ho scoperto oggi. 

Faccio una personale standing ovation per le mascherine maggiorenni: avremo un sacco di elettori in più alle prossime elezioni. 

Tipi da Bar durante la Pandemia (T.B.P.)

La foto non vale per il Natale: è solo un auspicio….

Mi impegno, stasera, a tentare di cambiare il volto di questo blog che ha sempre una nota stonata in sottofondo di pessimismo cosmico e a provare a trasformarla in pessimismo comico

Vi propongo quindi i Tipi da Bar durante la Pandemia. Giuro che è un reportage veritiero. Questa gente esiste.

. IL CLASSICO NEGAZIONISTA (C.N.)

(Cliente entra senza mascherina)

Io: Mi scusi, deve indossare la mascherina… (tono a metà tra l’isterico e il lamentoso)

Cliente C.N.: Ah, già. (indossa la mascherina) Ma perché, tu ci credi? 

Io: Non è una questione di fede, mi scusi, ma di regole…

Cliente C.N.: Lo hanno studiato a tavolino, questo virus. È solo un complotto mondiale per far fallire il capitalismo. 

Io: il caffè lo vuole semplice o macchiato?

  • IL DISTRATTO (D.): 

(Cliente entra senza mascherina)

Io: Mi scusi, deve indossare la mascherina… (stesso tono di prima)

Cliente D.: Oh, scusi, scusi…l’ho dimenticata in macchina. (Ma invece di uscire e prenderla si alza la felpa sopra al naso) Una soglia alla mela! 

  • IL DISTRATTO 2 (D.2)

(Cliente entra con del nastro adesivo su bocca e naso)

Io: (non ho parole)

Cliente D2: ho dimenticato la mascherina a casa e in macchina avevo solo questo…

  • IL RAZZISTA (R.): 

(Cliente entra con la mascherina): Un caffè. (Buongiorno, per favore, grazie sono troppo impegnative come parole)

Io: Buongiorno, certo. 

Cliente R.: (Insofferente si tocca la mascherina) Ecco, noi ITALIANI siamo costretti a portare la mascherina, invece tutti quei neri arrivano qui e ci portano il virus e nessuno dice nulla, scappano qui e là e sono loro, sai (notare il tu), a far naufragare l’Italia, sono loro a portarcelo, altro che le vacanze, le discoteche! Questo governo ci prende in giro, te lo dico io. 

Io: Anche lei crede che sia solo un complotto mondiale per far fallire l’economia? Perchè conosco una persona con cui dovrebbe parlare…

Cliente R.: Macché! È un complotto per farci invadere da LORO!

Io: semplice o macchiato il caffè?

  • IL CATASTROFISTA (C.): 

(Cliente entra, aria mesta) Buongiorno, un caffè per favore. 

Io: Certo! (Pausa imbarazzante- spesso capita-) bhe, oggi almeno è una bella giornata, no? Un bel sole!

Cliente C.: sì, ma tanto così non possiamo resistere. 

Io: in che senso?

Cliente C.: Nel senso che morirà tanta gente, questa storia della pandemia è una tragedia. Ha visto Report? Come sono ridotti gli ospedali? La gente trattata come animali, non c’è più umanità. Siamo tutti attaccati ai telefonini, nessuno vede, a nessuno importa. La società come la conosciamo, glielo dico io, è morta. Il vaccino? Non servirà a nulla. Questa pandemia ce la ritroviamo anche tra 5 anni. 

Io: Ce lo metto un po’ di latte nel caffè?

  • IL CHIACCHIERONE (CH.)

Cliente Ch: Buongiorno! Ah, visto che sole? Bella giornata! Come va bella? Come va il lavoro? Vedete poca gente, eh? Questo lockdown è una tragedia per voi. Ecco, vengo qui per, come si dice, solidarietà, mica perché mi piace bermi un caffè nella plastica. E in macchina, per giunta. Lo faccio solo per voi, per sostenere le attività locali. Siete coraggiosi a restare aperti. Figurati che tanti vostri colleghi hanno chiuso. Il gioco non vale la candela, in zona rossa, dicono. Beh, però almeno c’è un lato positivo, no? Prima non avevate tanto tempo per far due chiacchiere, troppa gente, dovevate correre. Ora almeno, come ora, si possono far due chiacchiere, visto che non c’è nessuno…

Io: già, ha ragione, è bello far conversazione. Ma un caffè lo vuole o è passato solo per salutare? 

  • IL MALEDUCATO(M.):

Cliente M.: Buongiorno, un caffè al vetro.

Io: beh, posso farlo solo da asporto (già da due settimane, non da ieri).

Cliente M.: Quindi non posso berlo qui? Nemmeno al tavolo? 

Io: solo asporto, anzi, non può berlo nemmeno qui davanti, deve andare in macchina. 

Cliente M.: Mi avete rotto i c****i! Voi e le vostre regole del c**o! Se lo sapevo non perdevo nemmeno tempo a fermarmi!

(esce)

(e spero di non rivederlo più)

Mi fermo qui. Ma avrei ancora e ancora da scrivere. Il panorama che mi si spiega davanti agli occhi ogni mattina, al Bar (perché ora sono lì, al Bar, il Ristorante chissà quando potrà riprendere), è davvero interessante. 

I negazionisti, i complottisti, i catastrofici che vedo sono inenarrabili. 

La Barista Moon, la donna dal Bicchiere di carta facile, vi saluta. 

Alle prossime follie…

E io guardo Sharknado

Stamani ho deciso di scrivere Senza censura (non so se vi ricordate: esisteva un programma su Rai 3 una volta, con questo nome).  

Fanculo, quindi, al mio Acerrimo Nemico. 

La settimana è stata pesante come il cinghiale della pubblicità del Brioschi, quindi me lo voglio concedere.

Inizio da lunedì, un giorno di festa in cui, dopo mesi, ho rivisto l’Amico Atipico. L’unico giorno in cui mi è sembrato di vivere. Rivedere lui, parlare del più e del meno, del lavoro (io), della ragazza psicopatica (lui), bersi un cappuccino, pranzare con Little dove (per dirla nel mood locale) ci sono le fie con le rote (l’American diners, dove le ragazze servono sui pattini a rotelle) è stato corroborante. Ma è durato come un gatto in tangenziale. La realtà, quella vera, è arrivata alle 15.00, quando è arrivato il tecnico per revisionare la caldaia: 120 euro. 

Martedì. Martedì è sempre un po’ follia, ricomincia il lavoro, io non sono mai in pari, basta il battito d’ali di una farfalla e perdo il passo, martedì ho perso il passo. Mercoledì ero ancora un passo indietro e, Covidnonostante, il Ristorante a pranzo si è riempito come se non ci fosse un domani. 

E qui sta il punto: sento tutto come se non ci fosse un domani. E io sono una maniaca del controllo. Il domani, per me, è importante. Io vivo per il domani. E oggi non c’è più, il domani. Domani cambia in modo improvviso, quando meno te lo aspetti. Basta un dpcm. 

Nel giro di tre giorni il mondo è cambiato. 

La gente ha avuto paura, il lavoro è calato e io non so più cosa fare. 

Nel giro di tre giorni, poi, anche la scuola è cambiata.

I ragazzi devono stare a casa, quando non si sa, la domenica sera ci sono le corse a guardare sul sito chi il lunedì sta a casa e chi no. 

E io cosa faccio. La cassa integrazione, ancora? Devo fare un trasloco, mi servono soldi, mi serve il lavoro. 

Ma mi serve anche non ammalarmi, mi serve che non si ammali Little, mia madre, mio padre, le mie nipoti. 

Mi serve che non ci sia questa guerra, 

Mi serve che un medico non mi dica cosa si dicono tra medici, così, mentre si beve il caffè che gli ho appena fatto, che non mi dica che i contagi sono 10.000 oggi e 30.000 domani e 60.000 tra tre giorni. 

Non voglio sapere dell’apocalisse, la immagino già di mio. 

Sono confusa, impanicata, il distopico che andava tanto di moda in letteratura un anno o due fa non è più distopico, è reale, e io che cosa faccio.

Io gioco a scala quaranta. 

Guardo la tv. 

Guardo Sharknado. 

Che se non sapete cosa diavolo sia, sappiatelo, che Sharknado ti toglie i pensieri, sul serio.

Perché la mattina sono un girotondo di articoli del Corriere, indiscrezioni sull’Ansa, veline dal Quirinale. 

Ma la sera per non implodere devo guardare Sharknado. 

Anche la mia Little implode. 

Non mi sopporta più, si tinge la faccia per non so quale motivo, sta in videochiamata con gli amici, pensa alle proteste perché tengono la mascherina in aula 5 ore invece di 4. Le sue piccole lotte. 

Ma la scuola li abbandona, li sacrifica. Ci prova a tenere duro, ma non può farcela, ci sono le Regioni che dichiarano: scuole chiuse e ristoranti aperti, e io sono in mezzo: tra i due fuochi. Due miei colleghi saranno messi a casa lunedì senza cassa integrazione, senza possibilità di essere licenziati (quindi disoccupazione). 

La mia piccola realtà. 

Io posso solo disdire l’ultimo appuntamento dal dentista, che spendere soldi ora per i denti non è il caso, facciamo i Cip e Ciop, mettiamo via qualche ghianda, che la storia qui su fa brutta e se dobbiamo rientrare in letargo ci serve cibo.

Martedì per ora io lavoro. Sono una delle fortunate. Ma non riesco a gioirne.

TDL (il minchione per eccellenza) mi chiama nazista perché lo rimbrotto se va in giro per il Ristorante senza mascherina. Dice che sono nervosa, negativa. Lui continua a chiamarmi bellissima e io lo detesto per la sua infinita superficialità. Per il suo egocentrismo esasperato. 

Su questa storia hanno tuti un’opinione. E si comportano di conseguenza. Ignorando il resto. 

Mia nonna diceva sempre che le persone sono capaci di guardare solo al proprio pezzetto di terra.

Io compresa, forse. 

Ho scritto questo pezzo come mi sento: in completa confusione. Perdonate quindi se ho saltato qualche passaggio logico. La logica, a oggi, mi sembra perduta.