Cianurotica

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Come preallertato, sono in piena fase cinica. Che meglio definirei cianurotica. È un po’ come vittoriotattizzarsi, ma senza vicini. Cioè, io i vicini ce li ho, ma non mi danno alcun fastidio.

Quindi oggi ce l’ho con tutti e tutto. Perché se spando il cianuro nelle vene mica mi limito, eh. Lo spando per benino ovunque.

Quello che più mi urta (rinforzando la quantità di cianuro, ovvio) è che non sono capace di nascondere alla gente che c’è qualcosa che non va. Così mi tocca beccarmi i vari: Che hai?, Sei un po’ nuvolosa, oggi?, Non ti vedo tanto in forma. Io sorrido, sorrido, sorrido. Ma si vede che il sorriso di plastica si annusa lontano un miglio. Ecco, aveva ragione il mio amico Attore: dovevo finirlo il maledetto corso di teatro.

Quindi ho il dente, famoso dente, avvelenato. In pratica sono una vipera: se penso che tu sia troppo vicino, ti mordo. Ho anche messo un bel cartello di Divieto di caccia, Zona di ripopolamento sul mio profilo, una metafora che io ho ritenuto anche delicata. Ma gli uomini, le metafore, non le capiscono proprio. Perché loro non vogliono metaforicamente la cena, non vogliono metaforicamente intrufolarsi in mezzo alle gambe. Le metafore, a loro, non fanno comodo. E infatti eccola lì che invece di indagarsi sul significato recondito di tale avvertimento, partono subito in quarta, cogliendo la palla al balzo e andando completamente fuori strada. E io sputo veleno. Veleno sottile, certo, tanto sottile che mi sa che lo avverto solo io il tono ironico della mia risposta. Ma fa tutto parte della fase.

Fa parte della fase anche il cercare di soddisfare il corpo, dato che per l’anima non sono stata capace. E quello mi riesce con molta facilità: basta non usare metafore. Quindi sono partita in quarta, due messaggi, due telefonate e via. Volete quello? Beh, anche io ora. Forse non sono del tutto onesta, perlomeno con me stessa (questa frase mi ricorda una canzone, ma non so quale), ma chiara sì. E se non serve essere chiara, cosa che ho già fallito in passato troppe volte, stavolta non sono affari miei. Una bella dose di bravo egoismo.

E quindi ecco che oltre alla rabbia uso il rimedio del fare. Impegno ogni nanosecondo, faccio straordinari, porto in giro Little boss, cucino (mai cucinato tanto da… boh, manco lo so, da quando), leggo. E riesco a incazzarmi pure leggendo, ora è il momento di Michele Mari, che sto leggendo in Scuola di demoni. Non ho molta simpatia per quest’uomo che è sì scrittore, sì, poeta, sì critico, ma un uomo che riconosce solo l’elitarismo. E io non ho simpatia per l’elitaristi. Forse perché mai ho fatto parte dell’élite, mi verrà contestato, e io dico: ok, macchissefrega. Ha dei gusti personali, come tutti, del resto, quindi detesta i postmoderni (americani) e elogia i generi che invece sono tutti tranne che d’élite, horror e fantascienza. E già qui non mi torna qualcosa (ma poi lo spiega, eh, che è tutta una questione di indottrinamento paterno). Poi arrivo a questo pezzo:

Forse la cosa che più mi commuove degli oggetti è che gli oggetti non cambiano, non ti tradiscono, le persone invece cambiano, non le riconosci più, o se non cambiano, cambia il tuo rapporto con loro. L’oggetto invece ti riporta a come eri quando l’hai visto la prima volta: io sono quel sasso, mi hai trovato quel giorno in quel fiume, sono sempre quel sasso, quindi se vuoi avere un rapporto con me devi tornare quel ragazzino che mi ha trovato nel fiume. Al sasso non gliene frega niente che tu sia diventato un professore universitario, che abbia vinto sette Campielli. Per me questa è una cosa pacificante, liberatoria, è l’onestà, è la chiarezza dei patti.

Non so perché mi urti tanto questa suo parlare degli oggetti, sarà perché fa una cosa che in letteratura io non condivido più, ovvero umanizzare gli oggetti, anzi, renderli migliori dell’uomo dal punto di vista relazionale (loro sono statici, mica come una persona vera, che parla e si muove, ha opinioni sue eccetera). E neanche lo fa nella letteratura, ma nella sua realtà. Non usa gli oggetti come metafora, ma come sentimento.  E forse la cosa mi colpisce tanto perché lo faccio anche io, umanizzo tutti i miei oggetti più cari, gli do dei nomi, li tengo vicini, gli oggetti per me sono davvero importanti, mi ricordano persone, mi ricordano me stessa. Ma non li sostituisco all’uomo, che per me è sempre al centro di tutto, con tutti i suoi maledetti difetti. Siamo uomini eppure sembriamo sempre preferire qualcos’altro a noi stessi. E se mi parla di onestà, una parola tanto importante per me (eppure spesso ignorata da chi mi circonda), la riferisce a un rapporto dove onestà non ci può essere, perché è solo a senso unico. L’onestà deve stare da entrambe le parti, sennò cade automaticamente, si annulla.

Ma magari esagero, no? È solo un’intervista a un tizio di cui ho letto a malapena poche poesie. È solo che sparavo di trovare ispirazione, qualcosa che mi facesse stare meglio. E invece non riesco a trovarlo.

Mi dico allora che finirà anche questo maggio cupo e nuvoloso e freddo.

8 pensieri riguardo “Cianurotica

  1. Maggio cupo e nuvoloso e freddo?
    No, proprio non ci siamo; e, come puoi ben intuire, questo presunto maltempo che flagella l’Italia – a esclusione della mia zona – mi rende cianurotico.

    P.S. Hai utilizzato quel neologismo perché non hai mai conosciuto qualcuno più incazzoso di me?

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  2. 1. Io il corso di teatro lo sto finendo, non ho mai saltato una lezione, tranne quella della prossima settimana perché non ci sono, e sono molto felice di averlo fatto. Però alla fine del corso c’è una cosa, di cui parlerò quando tutto sarà finito, e quando lo leggerai non sono del tutto sicura che ti dispiacerà ancora di non averlo finito.
    2. Di Michele Mari ho letto un libro tanti anni fa. Talmente insulso che appena voltata l’ultima pagina già non mi ricordavo neanche più di che cosa parlasse.
    3. Il brano che hai citato è una Corazzata Potiomkin pazzesca.

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    1. Attenderò il tuo resoconto sul corso di teatro allora…
      mi sfugge un pelino il significato del numero 3… il mononeurone sotto cianuro non ha un bell’aspetto …

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